Il fenomeno della migrazione sanitaria definisce lo spostamento di cittadini da una Regione all’altra per ricevere assistenza. Il termine tecnico che la definisce è però mobilità sanitaria. Probabilmente il termine migrazione trova largo uso perché giornalisticamente più accattivante e perché caratterizza meglio la componente più significativa dei flussi di mobilità: lo spostamento massiccio di pazienti dal Sud al Nord. Ogni volta che escono gli ultimi dati, la narrazione raggiunge toni biblici con il termine “esodo” che ricorre continuamente: “Mezzo milione di malati in fuga: già oggi è esodo verso il Nord in cerca di cure migliori e veloci” (da la Repubblica).
Di recente il tema della migrazione sanitaria è stato posto con forza dal presidente della Regione Emilia-Romagna Michele de Pascale, che ha fatto presente come l’intensità del fenomeno cominci ad avere gravi ripercussioni anche nelle Regioni con un maggiore saldo attivo sia per l’inadeguatezza delle tariffe rimborsate che per la difficoltà di garantire le prestazioni, tanto ai propri residenti quanto ai pazienti provenienti dalle altre Regioni. A questa posizione hanno fatto eco analoghe posizioni, magari con sfumature leggermente diverse, dei presidenti al tempo delle altre due Regioni con un forte saldo attivo, e cioè la Lombardia e il Veneto. Può allora valere la pena di approfondire questo tema, che presenta anche notevoli difficoltà interpretative data la complessità amministrativa, partendo dai dati. Le considerazioni che seguono, centrate soprattutto sui flussi di mobilità del 2023, potranno risultare utili anche per una migliore lettura dei prossimi Rapporti sulla mobilità sanitaria del 2024 e dei relativi commenti sull’ennesimo esodo che inevitabilmente documenteranno.
Regole e dimensioni della mobilità sanitaria
La mobilità sanitaria è innanzitutto un diritto costituzionale che si esprime nella libera scelta del luogo di cura, libertà che è stata esplicitamente prevista nella Legge 833 istitutiva del Servizio
che un cittadino può ottenere direttamente dalle strutture pubbliche e private accreditate delle altre Regioni. Tra queste prestazioni quelle di ricovero in ospedale sono le più importanti, riguardando circa il 70% del valore complessivo degli scambi di mobilità. Per questo qui ci si concentrerà sui flussi di mobilità dei ricoveri ospedalieri.
Gli scambi di mobilità vengono pagati in larga misura in anticipo dalle Regioni debitrici a quelle creditrici. Infatti, quando si procede al riparto annuale del Fondo sanitario nazionale alle Regioni creditrici con un saldo di mobilità attivo viene riconosciuto un finanziamento aggiuntivo, una sorta di acconto, calcolato sui flussi di mobilità degli anni precedenti. Si tratta di un acconto ovviamente derivante da una contestuale riduzione del finanziamento alle Regioni debitrici. Negli anni successivi si paga o si recupera il saldo del conto. Per fare una stima della dimensione economica del fenomeno complessivo della mobilità sanitaria, in base all’ultimo riparto del Fondo sanitario disponibile al momento in cui sto scrivendo, quello del 2024, vediamo che le Regioni si scambiano per effetto della mobilità 5,037 miliardi di euro. Le Regioni con un saldo passivo più alto sono Campania (308 milioni pari al 2,58% del suo Fondo sanitario indistinto, al netto cioè dei finanziamenti dedicati a singole voci di spesa), Puglia (con 230 milioni pari al 2,7% del Fondo), Calabria (con 305 milioni pari al 7,6% del Fondo) e Sicilia (con 242 milioni pari al 2,33% del Fondo). Per converso le Regioni con un saldo attivo più alto sono Lombardia (624 milioni pari al 2,89% del Fondo), Emilia-Romagna (525 milioni pari al 5,4% del Fondo) e Veneto (198 milioni pari all’1,87% del Fondo).
I numeri dell’esodo per i ricoveri
Per capirne un po’ di più di mobilità sanitaria per l’attività di ricovero ci possiamo basare sui dati dell’Agenas (Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali), ricavabili dal suo Portale Statistico nell’area dedicata alla mobilità sanitaria e relativi attualmente agli anni dal 2018 al 2023. L’Agenas ha anche pubblicato due rapporti sulla mobilità sanitaria in Italia relativi al 2024 (dati 2023) e al 2023 (dati 2022). Agenas analizza la casistica dei ricoveri per singola Regione e distinta a seconda:
- della natura della mobilità: apparente (il cittadino di una Regione ha il domicilio nell’altra Regione in cui si ricovera); casuale (il ricovero viene effettuato a seguito di una urgenza); effettiva (quando si tratta di una mobilità per scelta)
- del livello di complessità dei ricoveri (distinzione utilizzata solo per analizzare la mobilità effettiva): alta complessità, media o bassa complessità e ricoveri a rischio di inappropriatezza
- della distanza tra il luogo di residenza e il luogo di cura: si parla di mobilità di confine quando il ricovero avviene in una regione confinante.
Dalle elaborazioni dell’Agenas su dati 2023 relativi alla natura della mobilità e alla distanza tra luogo di cura e luogo di residenza vengono fuori dati interessanti che ci aiutano a dare delle dimensioni e soprattutto un perimetro all’esodo:
- una notevole quantità dei 668.000 ricoveri totali in mobilità ricadono nelle categorie dei ricoveri casuali (106.000) o apparenti (25.000) con un numero di ricoveri in mobilità effettiva pari a 537.000
- una notevole quantità di quei 537.000 ricoveri in mobilità effettiva sono verso le Regioni di confine (365.000 pari al 68%) o con distanze inferiori ai 180 minuti (43%)
- nelle Regioni del centro-Nord prevale di gran lunga la mobilità effettiva di confine: Emilia-Romagna 90%, Lombardia 84%, Piemonte 90%, Marche 78,1% e così via
- nel Sud prevale invece la mobilità effettiva “non di confine”: Calabria 87% (43.000 ricoveri), Puglia 89% (45.000 ricoveri), Sicilia 97% (40.000 ricoveri) e Campania 56% (38.000 ricoveri). In pratica più della metà della mobilità sanitaria non di confine è a carico delle 4 Regioni citate (166.000 ricoveri su 303.000).
Quindi l’esodo effettivamente c’è, ma con dimensioni meno “bibliche” di quanto riportato dai media.
La produzione in mobilità attiva piace ai privati e meno al sistema pubblico
Sempre facendo riferimento ai dati 2023 del Portale Statistico Agenas emergono dati significativi sul peso della attività di ricovero in mobilità dei privati. L’elaborazione Agenas dovrebbe includere (non viene specificato, ma si desume) tra le strutture private sia le case di cura private accreditate, che gli Istituti nazionali di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (INRCCS) privati, le Fondazioni private, gli ospedali classificati e i policlinici universitari privati accreditati. Ecco i dati al riguardo:
- su 668.000 ricoveri in mobilità il privato ne ha fatti 358.000 (53,6%) e su 2.881 milioni di euro di ricoveri scambiati in mobilità, 1.697 sono stati prodotti dal privato accreditato (58,9%). Tanto per avere una idea, se si guarda il Rapporto SDO 2023 del Ministero della Salute il numero dei ricoveri ordinari per acuti fatti in totale dalle strutture private è solo del 25%
- tra le 20 strutture con una maggiore produzione in mobilità attiva sia in termini economici che di numero di pazienti trattati, 13 sono private e includono colossi come il Bambin Gesù e il Policlinico Gemelli di Roma e il San Raffaele, il Galeazzi, l’Istituto Europeo di Oncologia e il San Donato di Milano
- la mobilità effettiva per i ricoveri tra il 2018 e il 2023 è rimasta in termini economici sostanzialmente invariata (passando da 2.833 a 2.881), ma il ruolo dei privati è in aumento, mentre quello del pubblico è diminuito
- il privato “sceglie” gran parte della sua casistica visto che solo una piccola parte della sua produzione in mobilità attiva del 2023 (80 milioni su 1.696, pari al 4,7%) è legata alle urgenze, mentre nel caso delle strutture pubbliche nello stesso anno 399 milioni di produzione in mobilità attiva su 1.184 sono legati alle urgenze (33,7%).
La spiegazione di questo diverso atteggiamento del servizio pubblico e del sistema privato verso la mobilità sanitaria è semplice: la crisi del Servizio sanitario nazionale riduce la capacità di produzione e di presa in carico del sistema pubblico, gravato dalle urgenze e dalla impossibilità di selezionare la casistica, mentre il sistema dei produttori privati ha sia capacità di produzione che possibilità di selezione.
La mobilità per i ricoveri: il grande affare dell’ortopedia
Le analisi dell’Agenas sulla tipologia di attività di ricovero scambiate in mobilità si limitano alla distinzione per MDC (Categoria Diagnostica Maggiore, in tutto sono 25). Qualche informazione in più la ricaviamo da un’altra pagina del Portale Statistico dell’Agenas, in cui c’è un Focus sulla Mobilità per patologie oncologiche e muscoloscheletriche. Comunque un dato emerge subito con chiarezza: la produzione caratteristica in regime di mobilità, soprattutto quando si parla di mobilità effettiva, è di tipo programmato e di tipo chirurgico.
Per quello che riguarda le MDC più frequentemente coinvolte, i dati economici sono chiari: le malattie e disturbi del sistema muscolo scheletrico e del tessuto connettivo (in pratica soprattutto la chirurgia ortopedica e la riabilitazione collegata) hanno comportato flussi per 933 milioni su 2.316 (pari al 40%) di cui l’85% erogati dal privato. Le malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio sono invece responsabili con i loro 306 milioni del 13,2% del fatturato dei ricoveri in mobilità effettiva con un 71,2% appannaggio del privato. Insomma, è soprattutto l’ortopedia “il grande affare” della mobilità sanitaria in Italia.
A una prima lettura i dati sembrerebbero dare ragione ai presidenti di Regione citati all’inizio che vorrebbero (a parole) erogare per le altre Regioni soprattutto ricoveri di alta complessità, spesso descritti come “di eccellenza”. Infatti, nel 2023 nelle casistiche dei flussi di mobilità effettiva la quota di ricoveri di medio-bassa complessità o potenzialmente inappropriati è alta (nel 2023 rispettivamente il 65,9% e il 14,5% in termine di numero di ricoveri e il 41% e il 6,5% in termini di peso economico). Nell’area del Portale Statistico dell’Agenas dedicato alla mobilità per patologie oncologiche e muscoloscheletriche ci sono però dati di dettaglio relativi al 2023 molto interessanti sugli interventi di area ortopedica più comuni erogati in mobilità, di solito da strutture private, che smontano la narrazione dei presidenti: gli interventi di protesi di ginocchio (26.863 casi), di protesi d’anca (22.471) e di artrodesi vertebrale (15.108), tutti formalmente di alta complessità, sono in realtà molto comuni. Il terzo poi (quello di artrodesi vertebrale) viene erogato spesso fuori Regione (nel 39% dei casi, contro il 26 e 18% dei casi di protesi di ginocchio e di anca). Si tratta di un dato “sospetto” data la natura a forte di rischio di inappropriatezza di questo intervento, di cui si è occupata anche Milena Gabanelli, che lo ha preso ad esempio di “affare” cui guardare con attenzione. Del resto non a caso la Regione Veneto ha approvato nel dicembre 2024 una delibera per migliorare i controlli su questo tipo di intervento. Che poi la migrazione per questi interventi maggiori di chirurgia ortopedica si trascini dietro anche quella per interventi di bassa complessità lo dimostra il dato dei 7.934 casi di artroscopia di ginocchio fatti in mobilità nello stesso anno.
Da cosa dipende la migrazione sanitaria
La migrazione sanitaria dipende dal forte e a volte fortissimo squilibrio quantitativo e qualitativo in termini di capacità di offerta tra le Regioni del Sud e quelle del Nord. Questa capacità viene misurata dall’Agenas con il cosiddetto indice ISDI (Indice di soddisfazione della domanda interna, calcolato come il rapporto tra la produzione di prestazioni sanitarie erogate all’interno della Regione e la domanda di prestazioni sanitarie richieste della popolazione residente). Per esempio per l’Emilia-Romagna l’indice ISDI per l’area ortopedica è di 1,43 e cioè di oltre il 43% eccedente il proprio fabbisogno interno. Per la Basilicata è di 0,62 con un difetto del 38%.
Questo squilibrio tra Nord e Sud nella capacità di offerta non è casuale: è un dato storico che si è accentuato con l’aggressività dell’offerta delle strutture, specie private, del Nord che si sono avvalse abbondantemente di ambulatori specialistici collocati strategicamente nelle Regioni dove l’offerta è scarsa per “pescare pazienti”. Scrive Agenas nel suo Rapporto sulla mobilità 2024: «Allo stesso modo, il ruolo dei medici, in virtù del rapporto fiduciario con i pazienti, può influenzare significativamente la mobilità sanitaria, arrivando in alcuni casi a configurare pratiche di fishing sanitario, ovvero la spinta a curarsi fuori regione anche quando l’offerta locale è adeguata e di qualità». Fishing magari praticato da specialisti che provengono dalle Regioni del Sud e adesso lavorano nelle strutture del Nord.
Chi ci rimette e chi ci guadagna con la migrazione sanitaria
A rimetterci con la migrazione sanitaria sono soprattutto i cittadini, perché i costi sociali del fenomeno sono alti. Questi costi a carico delle famiglie vengono per fortuna mitigati dall’aiuto di associazioni del terzo settore come CasAmica, che offrono ospitalità a costi contenuti. Il tema assume connotati drammatici per esempio per la migrazione sanitaria in età pediatrica. Ci rimettono anche le Regioni con i saldi negativi maggiori, non tanto in termini economici (recuperare la mobilità costa in alcuni casi più che pagarla), ma di immagine e di capacità di attrazione verso i professionisti.
A guadagnarci, invece, sono soprattutto i privati. Le strutture ospedaliere private in Italia operano mediamente in condizioni di forte tutela rispetto alle criticità di sistema: partecipano raramente alle attività in urgenza che coinvolgono la quasi totalità delle strutture pubbliche, possono selezionare poche linee produttive in base a principi di efficienza e convenienza (solitamente di area chirurgica o interventistica) ed esercitare una forte capacità di attrazione nei confronti dei professionisti che in quelle stesse aree trovano molte difficoltà a operare nelle strutture pubbliche pressate dalle urgenze e dai vincoli economici e di personale. Non è certo un caso che a lamentarsi della troppa mobilità attiva siano solo le aziende pubbliche. Di fatto in molte situazioni il sistema sanitario pubblico è come se si facesse concorrenza sleale da solo. Ma un altro dato è preoccupante: la “capacità installata” del privato e quindi le sue potenzialità operative sono molto superiori alla loro operatività attuale, mentre per le strutture pubbliche diventa difficile spesso mantenere i volumi di attività storici o tempi di attesa accettabili. Lo dimostrano per esempio i dati dei tempi di attesa per gli interventi di protesi d’anca delle aziende ospedaliere ricavabili dal Portale dell’Agenas dedicato alla valutazione della loro performance: in molte aziende ospedaliere del Sud (dati 2024) meno del 50% dei pazienti riesce a fare l’intervento entro 180 giorni dalla prenotazione, con punte del 7,8 e 10%.
Conclusioni (si fa per dire)
Visto da vicino il fenomeno della migrazione sanitaria dal Sud al Nord è innanzitutto un fenomeno strutturale legato alla disomogeneità nota, ma di fatto accettata, dei sistemi sanitari regionali in termini di qualità e quantità dell’offerta. Per certi versi le regole di sistema incoraggiano questo divario, visto che la mobilità viene in larga misura pagata in anticipo. Ed è un fenomeno pericoloso perché fa crescere la componente privata del sistema e diminuisce l’accessibilità delle cure per una quota importante dei cittadini del nostro Paese. La crescita del privato vuol dire in automatico depotenziamento del sistema pubblico, visto che gli sottrae la disponibilità di risorse umane, le più importanti, e aumenta il rischio potenziale di inappropriatezza (ricordiamoci delle artrodesi vertebrali, per esempio).
I rimedi sono semplici da elencare e difficili da realizzare: riequilibrare l’offerta tra Nord e Sud con una politica che incoraggi “il rientro dei bisturi”, fare progetti di settore per esempio nell’area pediatrica (non a caso tre delle strutture a maggiore produzione in mobilità attiva, compresa la prima, sono di questo settore e non sono al Sud), finanziare di più il sistema pubblico, rimotivare i professionisti sanitari a scegliere il pubblico e darsi nuove regole nei rapporti col privato, rapporti in cui spesso il sistema pubblico si fa concorrenza sleale da solo.
Da ultimo, vale la pena di ricordare che vi sono alcune tipologie di attività veramente di eccellenza in cui la concentrazione delle competenze trascina con sé una concentrazione delle casistiche e quindi un forte flusso di mobilità (pensiamo ad alcuni interventi o procedure di area oncologica). In questi casi la mobilità è una opportunità che va sostenuta, anche con un sostegno economico eventuale alle famiglie e ai centri stessi. Ma si tratta di situazioni particolari che andrebbero formalizzate con una definizione non autoreferenziale di “centro di eccellenza”. Certo non sotto la forma dei “superospedali” di cui si è parlato (a sproposito) circa un anno fa.
In definitiva la migrazione sanitaria e la mobilità sanitaria che la contiene vanno considerate una patologia cronica del nostro sistema non solo sanitario, ma socioeconomico, patologia nei cui confronti i sintomatici, come gli accordi tra Regioni (vedi quello recente tra Regione Emilia-Romagna e Regione Calabria), non bastano.







