Il 2025 è stato proclamato dall’UNESCO Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai; è un invito a riflettere su una delle crisi più silenziose ma devastanti del nostro tempo: il collasso della criosfera, quella estesa porzione del sistema terrestre composta da ghiacci continentali e marini. Le Alpi, cuore idrico del continente europeo, sono uno dei laboratori naturali più evidenti per osservare gli effetti del riscaldamento globale. I nostri ghiacciai, oltre a regalare panorami mozzafiato, hanno un forte impatto sulla regolazione del ciclo idrologico e sulla vita di milioni di persone. Vengono definiti “torri d’acqua” d’Europa: riserve idriche che accumulano precipitazioni invernali e le rilasciano gradualmente nei mesi estivi.
In Italia sono essenziali in caso di siccità
Il ruolo dei ghiacciai alpini come serbatoi idrici stagionali è cruciale per i bacini del Po, del Rodano, del Reno e del Danubio. In estate, quando la pioggia scarseggia e aumenta la domanda di acqua per usi civili, agricoli ed energetici, la fusione glaciale può contribuire fino al 40% del flusso nei bacini montani secondari. Tuttavia, la criosfera alpina è ormai prossima al “picco dell’acqua da fusione” (peak water), cioè il momento in cui la portata annuale derivante dallo scioglimento glaciale raggiunge il suo massimo storico, per poi declinare a causa della riduzione irreversibile della massa di ghiaccio. Secondo il rapporto State of the Cryosphere 2024 oltre il 60% dei ghiacciai delle Alpi ha già superato questo punto critico.
Come ci ha spiegato Leonardo Stucchi, ingegnere civile e ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale del Politecnico di Milano, benché i fiumi italiani siano meno influenzati dai ghiacciai alpini rispetto quanto avviene in altre aree, questo presenta comunque delle criticità: «Rispetto ad altri fiumi alimentati da ghiacciai in altre parti del mondo, per esempio i grandi fiumi tipo l’Indo, che durante l’estate sono alimentati principalmente dalla fusione dei ghiacciai, i fiumi italiani sono meno influenzati dai ghiacciai alpini, che sono molto più piccoli di quelli asiatici. Se pensiamo all’Adda in Valtellina (prima dell’ingresso nel lago di Como) solo il 2% dell’area del bacino è occupata da ghiacciai, quindi il contributo che hanno sulla portata del fiume è relativamente ridotto. Nonostante questo, ci sono problemi durante gli anni siccitosi, per esempio il 2022; alcuni sono studi dicono che, durante quell’estate, addirittura fino all’80% dell’acqua presente nell’Adda veniva dalla fusione glaciale. Quindi possiamo dire che il loro contributo diventa particolarmente importante nei periodi più critici e di maggiore siccità, quando ormai tutta la neve sulle montagne è fusa e quando non c’è precipitazione diretta».
Ghiacciai alpini in ritirata: a che punto siamo
Sulle Alpi italiane sono oltre 900 i ghiacciai censiti, con una superficie complessiva di 369 km², paragonabile a quella del Lago di Garda. Negli ultimi cento anni questa superficie si è ridotta del 50-60%, con un’accelerazione delle perdite negli ultimi decenni. Più del 90% dei ghiacciai italiani ha oggi un’estensione inferiore a 0,5 km², una soglia che li rende estremamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Ghiacciai come l’Adamello (il maggiore ghiacciaio italiano), il Miage e i Forni sono oggetto di monitoraggio da parte di istituti scientifici e associazioni ambientaliste.
Secondo i dati aggiornati della Carovana dei Ghiacciai di Legambiente e del Comitato Glaciologico Italiano, tra il 2022 e il 2023 si è verificata una perdita del 10% del volume glaciale complessivo delle Alpi italiane. La fusione ha favorito la formazione di nuovi laghi proglaciali, l’instabilità delle morene laterali e un aumento del rischio idrogeologico. Il rapporto Greenpeace-CGI evidenzia che il ghiacciaio del Lys (Monte Rosa) ha perso il 33% della superficie dal 1860, mentre il ghiacciaio del Fellaria in Valtellina ha subito una riduzione del 46% nello stesso periodo.
A livello europeo, i dati del servizio Copernicus Climate Change confermano che nell’estate 2022 si è registrata una perdita record di massa glaciale su scala continentale. La Svizzera, in particolare, ha visto svanire in due anni oltre il 10% del proprio volume glaciale, declino definito “senza precedenti” dagli esperti.
A Leonardo Stucchi abbiamo chiesto quali sono i ghiacciai italiani che stanno dando segnali di ritiro più significativi. «Un esempio su tutti è il ghiacciaio dei Forni, il secondo in Italia per estensione, che nella parte più bassa perde circa 5 metri di spessore l’anno. Quello a cui assistiamo è la frammentazione dei complessi glaciali più grandi in corpi più piccoli, isolati tra loro, e quindi paradossalmente il numero dei ghiacciai aumenta col ritiro degli stessi. Premesso che tutti i ghiacciai italiani sono in fase di ritiro, è difficile stabilire quali sono quelli più a rischio, perché nella dinamica di ritiro intervengono diversi fenomeni, alcuni dei quali tendono ad accelerarla, altri a rallentarla. Faccio alcuni esempi. Durante la fase di ritiro dei ghiacciai, le morene (deposito sedimentario glaciale, ndr) tendono a collassare e a franare sui ghiacciai, che quindi si sporcano di detrito e di pulviscolo. Se lo strato di pulviscolo che si deposita sopra i ghiacciai è sottile, come conseguenza i ghiacciai tendono ad assorbire più radiazione solare, perché diminuisce il cosiddetto effetto di albedo, cioè di riflessione della luce solare, e quindi la fusione tende ad aumentare. Al contrario, se questo deposito di detrito supera una certa soglia critica, che è di pochi centimetri, il detrito funge da isolante termico e quindi il ghiacciaio rallenta la sua fusione».
Un altro meccanismo che può accelerare il ritiro del ghiacciaio, spiega ancora Stucchi, è la sua dinamica: dobbiamo pensare ai ghiacciai come a dei corpi che si muovono lentamente da monte verso valle, come dei fiumi al rallentatore. «Un ghiacciaio potenzialmente in equilibrio ha una zona di accumulo a monte, in cui la neve a fine stagione non fonde, ma si trasforma pian piano in ghiaccio, e una zona di ablazione più a valle in cui il ghiacciaio tende a perdere massa; il ghiacciaio si sposta da monte verso valle, redistribuendo il ghiaccio accumulato verso la zona di ablazione. Se nell’interfaccia fra ghiacciaio e substrato roccioso, cioè nel punto di contatto fra ghiacciaio e roccia, c’è dell’acqua, perché il ghiacciaio fonde, questa fa da lubrificante e il ghiacciaio tende ad accelerare la sua discesa e a portare il ghiacciaio nelle zone più a valle, più calde, dove la fusione aumenta. Per questo si possono verificare fenomeni come quello del Belvedere nel 2002, in cui il ghiacciaio è avanzato, addirittura la sua area è aumentata, ma non perché il ghiacciaio abbia aumentato la sua massa, semplicemente perché è scivolato a valle».
A causa di questi fenomeni, per quanto sia universalmente riconosciuto che si stiano ritirando, i ghiacciai sono corpi per i quali cercare di prevedere le dinamiche future è molto difficile. L’episodio recente del crollo del ghiacciaio del Birch (28 maggio 2025) che ha distrutto quasi completamente il villaggio di Blatten, evacuato in precedenza, mostra tutta l’importanza di un valido sistema di monitoraggio. In Italia, fortunatamente, abbiamo una situazione che presenta minori rischi. Ma anche un sistema di monitoraggio meno efficiente rispetto a quello svizzero.
Spiega ancora Stucchi: «Quello del monitoraggio è un tema importante: in Svizzera c’è stato un pronto intervento, è stata sgomberata la popolazione in anticipo e si è evitato il peggio. Tuttavia un caso simile in Italia è improbabile, perché i ghiacciai italiani rispetto a quelli svizzeri sono numericamente meno, molto più piccoli e molti di essi sono in zone isolate dove i danni sarebbero limitati. Le frane che si sono verificate in passato sono per lo più causate da alluvioni, non da crolli di ghiaccio. Un caso si è verificato con la frana del Cengalo nel 2017, al confine tra Italia e Svizzera, che ha avuto conseguenze anche in Italia: in quella circostanza è stato difficile stabilire con esattezza le cause del crollo; sappiamo che la scomparsa del permafrost, la componente di ghiaccio che penetra all’interno delle rocce e agisce come collante rendendo il terreno più stabile, ha un ruolo importante in questo tipo di eventi che sono molto rari, ma possono provocare danni importanti».
Detto questo, spiega ancora Stucchi, mentre in Svizzera sostanzialmente tutti i ghiacciai vengono monitorati in modo consistente e il catalogo svizzero viene aggiornato ogni anno, in Italia le risorse sono inferiori e l’ultimo aggiornamento del nostro catasto ha praticamente dieci anni: «Anche la raccolta dei dati utili a fare previsioni è complessa. Per esempio, una questione molto importante è che spesso e volentieri non abbiamo dati consistenti riguardo lo spessore dei ghiacciai. Possiamo misurare la loro area, anche grazie alle immagini satellitari, ma è difficile stabilire quanto siano profondi: 40, 50, 60, 100, 200 metri. Questo perché ottenere il dato richiederebbe misure in sito. Bisognerebbe sostanzialmente attraversare il ghiacciaio con dei radar, magari anche con l’utilizzo di elicotteri. In ogni caso sono operazioni e strumentazioni molto costose e quindi di fatto non sappiamo dire quanto ogni singolo ghiacciaio sia profondo, quale sia il suo volume effettivo».
Time lapse dell’Adamello-Mandrone 2020-23
Uno sguardo oltre l’Europa: Himalaya, Ande e altre “torri d’acqua” mondiali
Le Alpi non sono le uniche torri d’acqua del pianeta a soffrire il riscaldamento globale. I ghiacciai dell’Hindu Kush–Himalaya, spesso chiamati il “Terzo Polo”, alimentano fiumi asiatici (Indo, Gange, Brahmaputra, Mekong, Fiume Giallo, ecc.) da cui dipendono quasi due miliardi di persone che vivono in otto diversi paesi (India, Cina, Pakistan, Bhutan, Nepal, Afghanistan, Bangladesh, Myanmar e Tajikistan).
Studi recenti del centro internazionale ICIMOD indicano che questa regione, nello scenario a più alte emissioni, potrebbe vedere scomparire il 70-80% del volume di ghiaccio entro il 2100 e anche limitando il riscaldamento globale a +1,5 °C (vedi accordi di Parigi), si prevede comunque una perdita più o meno del 30%. Il riscaldamento della regione dell’Himalaya sta già causando importanti cambiamenti nella disponibilità idrica a valle, aumentando il rischio di eventi estremi come le piene da laghi glaciali (GLOF, glacial lake outburst flood). Uno scenario analogo si osserva nelle Ande sudamericane, dove la cordigliera agisce da serbatoio d’acqua per molti bacini aridi o stagionalmente secchi. I ghiacciai andini, in particolare quelli tropicali di Perù e Bolivia, si stanno ritirando a un ritmo circa il 35% più veloce della media globale. Le perdite stimate nelle Ande centrali cileno-argentine sono di poco inferiori, mentre nei ghiacciai più meridionali della Patagonia il regresso è mitigato da precipitazioni più abbondanti ma resta significativo. L’approvvigionamento idrico per quasi 90 milioni di persone dipende dalle “torri d’acqua” andine che fino ad oggi hanno garantito acqua per l’irrigazione, il consumo urbano e la produzione idroelettrica.
Anche altre catene montuose del mondo mostrano segnali allarmanti: i ghiacciai delle Montagne Rocciose nordamericane e delle Alpi Neozelandesi stanno recedendo rapidamente, così come quelli del Caucaso e del Kilimangiaro. In Africa orientale, i pochi ghiacciai rimasti (Kenia, Ruwenzori, Kilimangiaro) potrebbero scomparire completamente entro pochi decenni, segnando la fine dei “ghiacci equatoriali”.
Verso l’adattamento: gestione integrata dei bacini idrografici alpini
L’adattamento alla crisi della criosfera richiede risposte coordinate su più livelli. A scala locale, regioni alpine come Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Canton Grigioni (Svizzera) stanno investendo in bacini di accumulo, reti irrigue ad alta efficienza e sistemi di monitoraggio in tempo reale per ottimizzare l’uso di una risorsa sempre più scarsa: l’acqua. Sul piano nazionale, l’Italia ha aggiornato il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), includendo la criosfera tra le priorità d’intervento (anche se del Piano stesso non si possono non ricordare i limiti, di cui abbiamo parlato qui).
A livello europeo, la Direttiva Quadro sulle Acque (2000/60/CE) e il Green Deal promuovono una gestione integrata e adattativa dei bacini idrografici alpini. Programmi transnazionali come Interreg Alpine Space e i progetti LIFE sostengono iniziative pilota che uniscono infrastrutture verdi, tutela del paesaggio e partecipazione delle comunità locali.
Le Alpi stanno diventando un banco di prova per soluzioni tecnologiche e infrastrutturali capaci di fronteggiare la scomparsa dei ghiacciai. Per compensare la riduzione del rilascio idrico naturale, si progettano o potenziano serbatoi e bacini artificiali. In Svizzera, società idroelettriche stanno innalzando dighe esistenti o pianificando nuove strutture, come quella a valle del ghiacciaio del Trift nell’Oberland Bernese, per trattenere l’acqua del lago che si è creato per la fusione del ghiaccio. In Alto Adige e Trentino si discute della creazione di piccoli invasi in quota a supporto dell’agricoltura nei periodi più secchi. Parallelamente, si promuovono tecniche irrigue più efficaci, come l’irrigazione a goccia e l’uso di sensori di umidità nei campi, per minimizzare gli sprechi.
La gestione degli invasi è un altro tema delicato. Come spiega ancora Leonardo Stucchi, gli interessi legati alla gestione degli invasi sono diversi: da un lato ci sono gli agricoltori che vorrebbero un maggior rilascio d’acqua, dall’altro i gestori che producono energia e che pertanto tendono a tenere l’acqua negli invasi. La tensione ovviamente sale nei momenti di carenza d’acqua. Spiega Stucchi: «In Italia ormai tutto lo spazio disponibile per l’idroelettrico, almeno per i grandi invasi, per le grandi dighe, è stato sfruttato. L’acqua di fusione per la maggior parte di ghiacciai italiani viene già raccolta all’interno del degli invasi che in alcuni casi sono stati costruiti proprio con questo scopo. Addirittura per il ghiacciaio del Sabbione in alta Val Formazza in Piemonte lo sbarramento è stato costruito (negli anni ’50, ndr) perché l’acqua andasse a sommergere il ghiacciaio, accelerando quindi la fusione e dando la possibilità di produrre più energia elettrica. Quello che si sta cercando di fare oggi invece, è costruire piccoli invasi per piccoli impianti idroelettrici con un impatto ambientale minore, per sfruttare tutte le possibili risorse idriche dovute alla fusione niveo glaciale».
La rapida trasformazione della criosfera costituisce una delle sfide ambientali più complesse del nostro tempo. È essenziale comprendere che l’inerzia del sistema climatico impone decisioni coraggiose, forse impopolari, ma soprattutto lungimiranti, i cui risultati saranno visibili solo nel lungo periodo. Questo rende difficile l’azione politica, spesso vincolata a orizzonti decisionali a breve termine. Tuttavia, ignorare oggi la necessità di interventi strutturali potrebbe compromettere in modo irreversibile l’equilibrio ambientale e sociale per le generazioni future.
L’augurio è che il 2025 non segni il requiem delle nostre vedrette, ma il primo di mille compleanni.