Una biglia blu, a blu marble. Così appariva il nostro pianeta in una delle prime iconiche foto che lo ritraeva dallo spazio, scattata nel 1972 dall’Apollo 17. Un’immagine illuminata della Terra, divenuta simbolo della sua bellezza e fragilità. Una biglia blu, un pianeta blu, perché al 70% formato dagli oceani. Vasti luoghi sommersi di cui per secoli la nostra specie ha solo intuito la superficie e ignorato la complessità fisica e biologica. Come scrive l’oceanografa Helen Czerski nel suo bellissimo ed enciclopedico saggio La macchina blu, le foto dallo spazio hanno aperto la nostra prospettiva sugli oceani, ma ancora «il blu era visto come lo sfondo sul quale era disegnata la terraferma». Sono passati cinquant’anni, e il 70% del pianeta che abitiamo è ancora un grandissimo mistero che le lenti della scienza ci stanno aiutando a scoprire nella sua immensità. Ma immenso è quel che ancora non sappiamo.

Una cosa però è certa: gli oceani sono centrali per la vita sul pianeta, ne condizionano il clima e dunque le possibilità di vita. Ed altrettanto certo è che sono uno degli ecosistemi maggiormente violati e compromessi dalla nostra crescita inarrestabile, nell’ingordigia del capitalismo. Proprio sulla necessità di adottare una maggiore tutela e di porre un freno agli attuali ritmi di sovrasfruttamento delle risorse che si sono riuniti i leader mondiali a Nizza dal 9 al 13 giugno scorso, nell’ambito della UNOC3, terza edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano incentrata sugli accordi per il raggiungimento del quattordicesimo goal per lo sviluppo sostenibile (SDG14), dedicato alla vita sottomarina. Un evento co-organizzato da Francia e Costa Rica che ha visto la partecipazione di oltre 15.000 tra delegati, ricercatori, economisti e attivisti, grazie anche alla presenza di un ricco programma collaterale, tra cui il convegno scientifico One Ocean Science, il summit sull’innalzamento degli oceani e le comunità costiere e una serie di eventi divulgativi per la Giornata mondiale degli oceani.

Un piano d’azione per gli oceani

UNOC3 si è conclusa con l’adozione di una dichiarazione politica, il Nice Ocean Action Plan, dal nome evocativo Our ocean, our future: united for urgent actions (il nostro oceano, il nostro futuro: uniti per azioni urgenti) che raccoglie gli accordi raggiunti nel corso dei dieci panel in cui si è articolato il congresso. Ribadisce il ruolo fondamentale degli oceani, la necessità di tutelarli e di portare avanti gli accordi internazionali sottoscritti su clima e biodiversità, e stressa la necessità di un prelievo sostenibile degli stock ittici e di un maggiore guida scientifica nel prelievo delle risorse. Oltre a questo, richiama l’importanza di arginare il crescente inquinamento da plastiche invocando l’adozione di trattati vincolanti internazionali. Il piano d’azione manca però di una strategia di attuazione, di una road map che ne disegni gli strumenti legali e finanziari, e rischia così sin dall’inizio di essere una bella dichiarazione di nobili intenti, che stride con l’urgenza di azione.

Gli oceani sono ben lungi dall’essere lo spazio blu tra i continenti: anche se sembrano luoghi remoti e distanti condizionano la nostra stessa esistenza sul pianeta. Assorbono gran parte della radiazione solare e, grazie alle imponenti correnti che li percorrono, ridistribuiscono il calore per il globo; giocano inoltre un ruolo centrale nella cattura dell’anidride carbonica. Il riscaldamento climatico antropogenico sta minando questo meccanismo. Dal 1982 a oggi la temperatura oceanica è in costante crescita, come dimostrano i dati di Copernicus, l’osservatorio europeo dei dati ambientali: nel mese di maggio di quest’anno la temperatura media era di 20,79 gradi centigradi. Il riscaldamento delle acque riduce la capacità di assorbimento dell’anidride carbonica. A questo si somma un’acidificazione delle acque crescente, che a sua volta rende inospitale l’habitat per organismi calcificatori come i coralli e ne provoca lo sbiancamento e successivamente la morte. I dati indicano che abbiamo superato una delle soglie critiche già nel 2020. Da mondi colorati e stupefacenti per la varietà di forme di vita, i coralli sono destinati a diventare tristi deserti grigiastri. Non ultimo, le acque oceaniche stanno subendo un processo di deossigenazione: l’oceano ha perso globalmente circa il 2% del suo contenuto di ossigeno negli ultimi 50-60 anni. A questo si sommano pesca eccessiva e inquinamento, una serie di fattori che messi insieme possono accelerare l’arrivo a un punto di non ritorno. Eppure, l’attenzione e le misure di adattamento e tutela continuano a essere lente e a basarsi più su dichiarazioni di intenti che sull’azione.

L’importanza del Trattato per l’alto mare

A ulteriore conferma dell’inadeguatezza delle tempistiche della politica, c’è il fatto che ancora non si raggiungono le firme minime necessarie per l’entrata in vigore del Trattato sull’alto mare (High Sea Treaty), il primo accordo per la protezione delle acque internazionali, terre di nessuno e soggette a inquinamento, sovrasfruttamento delle risorse e distruzione dell’habitat. Si tratta dei due terzi degli oceani, e attualmente solo un misero 1% di queste è sottoposto a una forma di tutela. Il trattato prevede la possibilità di creare aree marine protette attraverso una conferenza delle parti istituita ad hoc, un uso sostenibile delle risorse ittiche, l’istituzione di una procedura di valutazione dell’impatto ambientale per le attività commerciali ed estrattive, la necessità di un’equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo di risorse genetiche d’alto mare. Il Trattato è stato approvato, dopo una fase di contrattazione di una ventina d’anni, nel corso della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare nel giugno del 2023 e necessita della ratifica di almeno 60 Paesi per entrare in vigore. Prima di UNOC3 le adesioni erano 27, al termine della conferenza si è arrivati a quota 50.

Un recente articolo di commento su Nature, a firma dei principali oceanografi su scala mondiale, spiega perché è così fondamentale tutelare l’alto mare e perché sia urgente adottare misure sulla pesca ora. Con una profondità media di 4.100 m, l’alto mare ospita gran parte della mega-fauna marina, che a sua volta regola il ciclo del carbonio attraverso un rimescolamento dei nutrienti. Il carbonio contenuto in piante e animali morti e nelle deiezioni affonda dagli strati più superficiali a quelli più profondi. Gran parte degli alti mari ha una miscelazione delle acque limitata, perché le acque superficiali sono più calde e galleggiano su quelle sottostanti più fredde e dense. La migrazione verticale che compiono numerose specie, inclusi i grandi pesci predatori e i cetacei, che si immergono a caccia per poi riemergere, aiutano il rimescolamento dei nutrienti, attraverso feci e urine escrete nelle acque superficiali. A loro volta questi nutrienti aumentano la produzione della microscopica biomassa che, oltre a sostenere la catena alimentare, assorbe l’anidride carbonica disciolta. Senza questi cicli, affermano gli oceanografi, i livelli atmosferici di anidride carbonica potrebbero essere di 200 parti per milione più alti, e di conseguenza la temperatura della superficie terrestre più calda di tre gradi.

Il problema è che la pesca intensiva sta costantemente crescendo in queste aree, minacciando la biodiversità e compromettendo il funzionamento di questo meccanismo centrale per il sequestro del carbonio. Più in generale, stiamo svuotando i mari dai loro abitanti, pescando al di sopra delle capacità di rigenerazione degli stock ittici. Il nuovo rapporto sulla pesca della FAO, lanciato proprio nel corso della UNOC3, ci dice che il 35,5% degli stock ittici è soggetto a un prelievo eccessivo e insostenibile. Dal 2011 al 2021 la crescita degli stock prelevati in modo insostenibile è cresciuto con un tasso dell’1% all’anno. Particolarmente critica è la situazione del mare nostrum: la quota di prelievo insostenibile nel Mediterraneo si assesta intorno al 65%. Tornando nell’alto mare, solo il 29% degli stock è prelevato in modo sostenibile.

L’alto mare è minacciato da metodi di pesca distruttivi e non selettivi come la pesca a strascico, che comporta l’inutile uccisione di un numero elevato di specie e distrugge i fondali, oltre a immettere una quota considerevole di anidride carbonica in atmosfera e nell’acqua contribuendo così anche all’acidificazione del mare.

Alcuni risultati positivi di UNOC3

La conferenza di Nizza è stata l’occasione per il lancio del Patto europeo per l’oceano, l’EU Ocean Pact, che prevede un miliardo di investimenti per la conservazione, la ricerca e la promozione della pesca sostenibile, oltre a un dimezzamento degli inquinanti organici e della plastica e un ripristino del 20% dei mari europei. Il Patto propone una rivalutazione della Politica Comunitaria della pesca e l’elaborazione di un piano strategico fino al 2040 per l’innovazione e la sostenibilità del settore che passerà attraverso la definizione di una nuova strategia industriale e portuale. Al contempo si punta al turismo sostenibile nelle zone costiere. Sempre in Europa, la Germania ha dichiarato un investimento di 100 milioni di euro per la rimozione di residuati bellici nel Mar Baltico e nel Mare del nord, mentre la Spagna creerà altre cinque aree marine protette, arrivando a proteggere il 25% dei suoi mari. 

Sul tema dell’ampliamento delle aree protette il premio per il piano più ambizioso lo vince senza dubbio la Polinesia francese, che punta alla protezione totale delle coste e oceani di sua competenza, con la creazione di un’area marina protetta dell’estensione di quasi cinque milioni di chilometri quadrati, dove saranno consentite solo la pesca tradizionale e le attività di studio e ricerca.

Un’altro segnale positivo è la creazione della High Ambition Coalition for a Quiet Ocean, iniziativa politica lanciata Panama e Canada con l’adesione di 37 Paesi, Italia inclusa, che punta ad affrontare, su scala globale, l’inquinamento acustico degli oceani, un enorme problema per la conservazione di diverse specie animali, tra cui è emblematico il caso di delfini e balene (ma sono tantissime le specie che ne sono affette, anche se meno popolari dei cetacei). Inoltre 95 Stati hanno sottoscritto un appello per l’adozione di un trattato internazionale che regolamenti la produzione di plastica, obblighi gli Stati a monitorarne la produzione e il ciclo di vita, e bandisca l’utilizzo di polimeri pericolosi, con un’aggiornamento costante sulle sostanze da eliminare. Su questo vedremo cosa succederà a Ginevra il prossimo agosto, quando si riunirà il gruppo negoziale intergovernativo sull’inquinamento da plastica (INC-5). Finora i negoziati su questo tema sono stati fortemente inconcludenti per via dell’impossibilità di raggiungere un accordo.

Il futuro degli oceani

In concomitanza con UNOC3 si è tenuto a Monaco il forum finanziario Blue Economy and Finance. I fondi non sono mai un discorso secondario quando si tratta di tutela e di ripristino, e il target 14 di Agenda 2030 è uno di quelli meno finanziati: erano previsti 175 miliardi di investimenti annui, ma dal 2010 a oggi sono stati investiti 30 miliardi in totale. Eppure i ricavi economici derivanti dallo sfruttamento del mare sono immensi. A Nizza e a Monaco si è iniziato a parlare di come comare questo gap favorendo un flusso virtuoso da parte delle stesse aziende che beneficiano delle risorse marine. Ma sarà altrettanto se non più importante regolare i sussidi per le attività dannose. Su questo tema c’è un trattato del World Trade Organization che attende dal 2022 il raggiungimento di un numero adeguato di adesioni per entrare in vigore.

La protezione del 30% dei mari è uno degli obiettivi del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, il piano d’azione per la biodiversità siglato nel corso della COP15 e più volte richiamato nel Piano d’Azione di Nizza. Ma a cinque anni dal traguardo, le aree marine protette coprono solo l’8% dei mari e troppo spesso sono mere linee su carta. Inoltre, per proteggere il 30% in modo efficace si deve anche lavorare per una gestione sostenibile di quello che sta al di fuori. Gli organismi marini non conoscono confini di sorta e in mare tutto è in perenne movimento. Uno studio pubblicato su Science ha raccolto 30 anni di dati satellitari relativi a circa 15.800 individui appartenenti a 121 specie di grandi vertebrati tra squali, cetacei, tartarughe, foche, uccelli marini, dugonghi e lamantini. Ha dimostrato che ci sono rotte utilizzate intensamente, corridoi ecologici sottomarini, e delle aree di alimentazione più frequentate di altre: dati fondamentali per orientare la definizione delle aree da tutelare. Solo il 5% di queste aree intensamente utilizzate sono protette, e più del 90% subiscono l’impatto delle attività umane.

I mari e gli oceani sono il mondo oltre lo specchio di Alice, un mondo rovesciato rispetto a quello delle terre emerse che maggiormente conosciamo, dove i metri si contano in negativo e dove la vista esplode in miriadi di forme. Un luogo pieno di misteri, e allo stesso tempo una fonte di vita, di viaggio, di scoperta, di cibo, fin dall’antichità. Un legame culturale millenario, cui si somma l’attuale consapevolezza che quello che un tempo era uno spazio blu tra i continenti ha un ruolo centrale per l’esistenza del pianeta stesso. Guardare dati e immagini di quanto stiamo depauperando questa immensa ricchezza scoraggia e spinge alla desolazione. Ma uno dei segreti dell’oceano è anche la sua grande capacità di ripresa. Proteggere funziona e già si vedono gli effetti con poche politiche mirate. Siamo ancora in tempo, ma dobbiamo smettere di guardare quell’enorme spazio blu come un non-luogo tra i continenti, riconoscere a pieno la sua imprescindibile centralità e darci una priorità di azione.