Aumenta, purtroppo a ritmo costante, l’elenco dei nomi che si aggiungono alla conta delle vittime di femminicidio e la stampa, assieme alla politica, torna a parlare di violenza contro le donne. L’argomento meriterebbe attenzione tutti i giorni dell’anno, non solo quando i fatti di cronaca lo richiamano, e deve essere affrontato con gli strumenti giusti: quelli della prevenzione e dell’educazione, perché le misure repressive non sono sufficienti a scoraggiare gli atti di violenza. Ancora oggi, però, in Italia c’è chi si oppone ai programmi scolastici di educazione sessuale e affettiva mirati a superare gli stereotipi e la discriminazione di genere.
Il 30 maggio scorso, la Presidente Meloni, nel commentare il femminicidio di Martina Carbonaro, ha dichiarato: «Abbiamo lavorato tanto (…) ma delle volte ti senti veramente disarmato, non so come dire, perché le leggi le abbiamo fatte, ma la questione è più ampia, e forse non la stiamo neanche capendo completamente (…) mi ha lasciato senza fiato (…) È un dibattito che va aperto. Confesso che non ho le risposte, ma se non ci facciamo le domande non possiamo trovarle».
Queste dichiarazioni non possono non essere oggetto di analisi perché, forse non intenzionalmente, fanno emergere tutti i limiti e l’inefficacia degli strumenti che il Governo ha messo in campo. Occorre dunque rimettere in fila i provvedimenti che sono stati adottati da questa legislatura e inserirli dentro la cornice politica e culturale nella quale sono collocati.
Femmicidio: un fenomeno sistemico?
Prima di tutto bisogna partire dalla definizione di femminicidio e dall’evoluzione che questo termine ha avuto nella storia.
Il femminicidio non è un evento isolato, frutto di un raptus, ma l’apice di un continuum di violenza che comprende abusi fisici e sessuali, psicologici ed economici, discriminazione, sfruttamento, negazione delle risorse e dell’accesso ai servizi. Lo dimostrano i dati sulla violenza contro le donne nel mondo, pubblicati periodicamente dall’Organizzazione mondiale della sanità, che la definisce «un enorme problema di salute pubblica di portata globale, presente in tutte le regioni, che riguarda tutte le fasce sociali, produce grande sofferenza umana e comporta costi economici rilevanti».
Il feminicidio come fattispecie di reato nasce alla fine dell’800, ma è soltanto nel 1976 che viene introdotto nel pensiero del movimento femminista a opera di Diana Russell, autrice di La politica dello stupro, tradotto in italiano da Carmela Paloschi (Limenetimena Edizioni, 1976). Nel 2008 l’antropologa femminista messicana Marcela Lagarde, autrice di Antropología, feminismo y política in Retos teóricos y nuevas prácticas di Margaret Louise Bullen e María Carmen Díez Mintegui (Ankulegi, 2008), ne amplia la definizione in senso politico nominandolo femminicidio, descrivendolo come l’insieme dei comportamenti misogini da cui deriva l’impunità delle condotte poste in essere a livello sociale e statuale che possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione di una donna. In questo senso Lagarde mette al centro della definizione di femminicidio la dimensione sociale e politica che alimenta e sostiene la commissione e l’impunità della violenza maschile contro le donne. Un cambio radicale di paradigma: non fattispecie da risolversi nella singola esperienza di reato penale, ma problema sociale che va risolto in ambito collettivo mettendo in discussione la struttura patriarcale della società.
La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata nel 1993 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riconosceva che «La violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, che è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul nel 2011, ribadisce che «Il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de iure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne, che ha natura strutturale in quanto basata sul genere».
La falsa soluzione della legge sul femminicidio come specchio dell’ideologia delle nuove destre
Ecco perché la presentazione del disegno di legge sull’introduzione del reato di femminicidio da parte del governo Meloni il 7 marzo del 2025 appare come una mera operazione di facciata alla ricerca di consenso politico, mentre nei fatti si limita ad aggiungere al corpus del codice penale l’art. 577 bis. L’iniziativa ha suscitato, infatti, numerose critiche: l’inefficacia strutturale di questa misura che non inserisce la questione della prevenzione, intesa come scardinamento della cultura patriarcale e degli stereotipi che sottostanno alla violenza di genere, con la conseguenza di operare un abuso del diritto penale; l’incostituzionalità della norma, la riduzione della vittima a oggetto della violenza priva di agency; la soluzione carceraria e securitaria di un fenomeno che invece è sistemico, la cancellazione della giustizia trasformativa e sociale in favore di una deterrenza punitiva.
La fumosità del dispositivo legislativo è evidente laddove gli elementi probatori della violenza indicati sono non determinabili in modo oggettivo e univoco, con la conseguente criticità in aula di dimostrare la sussistenza della fattispecie incriminatrice.
Come sostiene la giornalista Angela Azzaro, un approccio che riconosce esclusivamente la dimensione penale estromette dal discorso pubblico e dalla lotta alla violenza di genere il concetto di potere maschile, ritenuto una dimensione naturale da non mettere in discussione.
Nel rinchiudere la soluzione di un problema globale con una natura culturale e sociale dentro la creazione di una nuova fattispecie di reato penale, il disegno di legge tradisce il suo essere ostaggio di un’ideologia securitaria e repressiva, ma soprattutto di ostinata negazione della questione di genere in favore della lotta alla inesistente teoria gender. E questo è confermato non solo dalle infinite dichiarazioni degli esponenti delle forze politiche che costituiscono la maggioranza di governo ma dalla prassi istituzionale sia a livello nazionale che europeo.
Ignorare la Convenzione di Istanbul
Poco più di due anni fa, il 10 maggio 2023, il Parlamento europeo in seduta plenaria ha votato le risoluzioni che chiedono all’Unione europea di aderire alla Convenzione di Istanbul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. In quell’occasione i parlamentari europei di Lega e Fratelli d’Italia, partiti di governo, si sono astenuti in maggioranza; addirittura due deputate della Lega hanno votato contro.
Ma cosa preoccupava della Convenzione di Istanbul? La Convenzione individua le radici della violenza nei confronti delle donne nella disuguaglianza tra uomini e donne. Sostiene che questa disuguaglianza sia strutturale e abbia le sue radici nei cosiddetti “ruoli di genere” che tradizionalmente vengono assegnati a maschi e femmine. Ruoli che sono stati socialmente e storicamente costruiti e intorno ai quali si sono poi sviluppati una serie di stereotipi. La Convenzione precisa che con «il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». I ruoli di genere, premette il trattato, contribuiscono e sostengono la violenza contro le donne.
È proprio nella grande rilevanza che viene data alla lotta ai ruoli e agli stereotipi di genere che le destre europee, compatte, vedono un pericolo.
Individuare la radice culturale di questa posizione è utile per comprendere perché oggi il governo Meloni decidere di affrontare la questione della violenza di genere e dei femminicidi, parole entrambe che non ha mai pronunciato – e questo anche ha una grande valenza simbolica – scegliendo come strada la negazione della sua dimensione sistemica. E cercando di criminalizzare quelle soggettività e quei movimenti che da sempre invece ne denunciano la matrice, ovvero la cultura patriarcale che sottende la struttura sociale, culturale, politica e relazionale delle nostre società.
Il quotidiano Politico, nel suo articolo del 2021 “How the Istanbul Convention became a symbol of Europe’s cultural wars”, affermava che la votazione sulla Convenzione si era trasformata in una lotta per procura per le più ampie guerre culturali che stavano attraversando l’ Unione europea, anche dentro una divisione per blocchi geografici oltre che ideologici. Infatti sono i Paesi dell’ Europa orientale quelli che in maggioranza stavano voltando le spalle al documento, sostenendo che questo erode la loro visione di valori familiari.
Al centro della disputa c’era, e rimane, la questione semantica: il termine genere. Per una schiera di leader e partiti europei, e i loro omologhi nazionali, il termine genere è uno strumento subdolo per erodere la distinzione tra uomini e donne e promuovere, normalizzandola, l’omosessualità. Il termine genere nel testo compare 25 volte.
I voti contrari o le astensioni sul documento avevano una medesima matrice e disegnano una mappa geopolitica delle alleanze internazionali dei partiti e movimenti ultra conservatori delle nuove destre.
Oggi molti di questi partiti sono al governo in molte nazioni europee, tra cui la nostra, e la loro azione di indirizzo politico affonda in un’ideologia identitaria fatta di famiglia tradizionale e lotta al gender, di politiche volte a «Ristabilire l’ordine naturale delle cose», come si legge nel rapporto del Forum Parlamentare Europeo sulla Popolazione & lo Sviluppo (EPF).
In questo quadro va inserita l’attività governativa sul contrasto ai femminicidi, che vengono trattati come questioni di violenza privata e dove la società viene posta sullo sfondo della questione e della soluzione ricercando “colpe” nelle singole esperienze, nei social e nei cellulari, nelle famiglie, nelle serie televisive, ecc. ma mai mettendo in discussione proprio l’ordine prestabilito delle cose e, soprattutto, così negando che la prevenzione e non la punizione deve essere al centro dell’attività politica di governo.
Nella dimensione securitaria e repressiva della soluzione si inserisce anche la proposta, per ora solo a livello di dichiarazione pubblica, della Presidente della Commissione Giustizia Giulia Buongiorno di abbassare a 12 anni la soglia della punibilità penale come risposta alla sempre più giovane età dei protagonisti, rei e vittime, dei femminicidi: se il fenomeno riguarda sempre più adolescenti e pre-adolescenti la soluzione non è quella di lavorare sull’educazione pubblica, ma di poterli condannare penalmente prima.
Giova sapere che a livello globale la strada dell’abbassamento dell’età a 12 anni per la punibilità del reato penale ha suscitato la presa di posizione del Comitato Onu sui diritti del fanciullo, l’organo che si occupa del monitoraggio dell’attuazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989.
Già nel 2007 il Comitato aveva ufficialmente condannato le scelte legislative che individuavano la responsabilità penale sotto i 14 anni chiedendo un impegno ufficiale e pubblico a tutti gli Stati sottoscrittori e per suffragare tale richiesta il Comitato aveva anche indicato diversi studi sullo sviluppo del bambino e delle neuroscienze.
Il governo Meloni disconosce l’esistenza del patriarcato e la matrice culturale delle violenze; se ogni femminicidio, nella visione conservatrice, fa storia a sé significa che ogni uomo ucciderebbe, quindi, per motivi diversi, senza che alla base di quell’atto di violenza ci sia una diffusa acquiescenza della società nei confronti della violenza maschile e lo Stato può solo agire sul versante della pena di ogni singolo caso. (Era una brava persona, di Emanuele Corn, Leandro Malgesini e Ivan Pezzotta).
Come è stato detto, l’introduzione del nuovo reato penale di femminicidio è una legge per le persone morte, non per le vive. Punisce in maniera più grave il femminicidio, ma non fa nulla per contrastare o prevenire la cultura della violenza da cui scaturisce.
Per assurdo, inoltre, nel prevedere un risarcimento alla famiglia per la perdita, la nuova legge considera la donna una funzione sottratta alla famiglia e non una persona che aveva diritto di continuare a vivere, rinforzando quei bias culturali che alimentano una narrazione che nega la soggettività e l’autodeterminazione delle donne.
Il contrasto alla violenza di genere e il ruolo fondamentale della scuola
La prevenzione dei femminicidi vera ed efficace deve invece obbligare i governi e le amministrazioni locali ad agire su più fronti e in primis quello educativo, con l’introduzione dell’educazione sessuale, affettiva e relazionale nelle scuole di ogni ordine e grado, ovviamente con un linguaggio e dei temi appropriati a ogni fascia d’età.
Se le radici della violenza e della discriminazione di genere sono culturali, è fondamentale combatterle precocemente sul terreno della cultura, attraverso programmi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole.
Il contrario di quello che vediamo accadere, e cioè l’assoluta negazione da parte della maggioranza dello strumento fondamentale dell’educazione sesso-affettiva nelle scuole. Come si evince anche dalla lettura delle Nuove linee guida sull’educazione civica e della bozza dalle Nuove indicazioni nazionali per l’infanzia e il primo ciclo di istruzione emanate dal ministro Valditara, che definiscono la violenza contro le donne «una triste patologia».
Questa impostazione culturale e politica è ribadita anche nella versione definitiva delle Nuove Indicazioni nazionali licenziate in questi giorni, che indicano «l’educazione al rispetto della donna» come obiettivo di lavoro cui sarà chiamata la scuola per «debellare il triste fenomeno del femminicidio».
Questo indirizzo è ampiamente criticato dal mondo della scuola, della cultura e dell’attivismo, come affermato da Cinzia Pennati: «Urge una legge per inserire obbligatoriamente nella scuola l’educazione alle relazioni, sessuale e al consenso. Perché se è vero che la scuola non può tutto, può molto. Cambiare la narrazione dell’amore nella cultura. Quell’amore che viene rappresentato come superamento di ostacoli continui, di rapporti di forza o violenza; persino erotizzati attraverso le fiabe plasmando il nostro desiderio».
Un lavoro strutturale e curriculare, quindi, da fare quotidianamente in classe e non attraverso interventi spot nelle scuole. Gli esempi di donne vittime di femminicidio sono molteplici nel mito, nella storia, nell’arte, nella letteratura, a dimostrare come il fenomeno della violenza sulle donne affondi le sue radici in epoche lontane, di come la violenza sia radicata dentro una visione dell’amore e dei rapporti. Dafne, Ipazia, Francesca da Rimini, Giovanna D’arco, Anna Bolena, Desdemona e il canto V dell’Inferno, il noto canto di “Paolo e Francesca” sono solo esempi di argomenti già affrontati in classe e potrebbero essere vettori di una importante educazione sesso-affettiva.
Anche la società ritiene che la scuola abbia un ruolo centrale dentro una strategia di contrasto alla violenza di genere, come dimostra il sondaggio “La scuola degli affetti” condotto da Coop in collaborazione con Nomisma nel febbraio 2025, in occasione del quale 9 intervistati su 10 hanno dichiarato di ritenere che l’insegnamento scolastico contribuisca a prevenire fenomeni di odio, emarginazione, violenza di genere.
L’Italia rimane uno dei pochissimi Paesi dell’Unione europea (assieme a Cipro, Lituania, Polonia, Bulgaria e Romania) che non prevede programmi curricolari obbligatori in materia di educazione sesso affettiva, nonostante le pressioni e le raccomandazioni in questo senso da parte di diversi organismi internazionali tra cui l’Unesco sin dagli anni ’80 fino al più recente Global Education Monitoring Report sull’educazione sessuale in 50 Paesi del mondo pubblicato nel 2023.
Il DDL sul femminicidio è in discussione alla Commissione Giustizia del Senato ed è atteso in Aula per l’8 luglio prossimo nell’iter di conversione a legge ordinaria. Cosa interverrà in termini di modifiche o emendamenti non è ancora chiaro, bisognerà attendere la sua stesura finale. Nel frattempo, nelle piazze continuano a gridare «Ci vogliamo vive».