Lo scorso 5 giugno il Consiglio europeo ha accettato di modificare la direttiva Habitat: il lupo passa da strettamente protetto a protetto per «migliorare la coesistenza con l’essere umano e per minimizzare l’impatto della popolazione di lupi in crescita, incluso a livello socioeconomico». Questa decisione è stata molto criticata dalla comunità scientifica, che denuncia la mancanza di fondamenti scientifici a suo sostegno. Abbiamo intervistato Ettore Randi, professore all’Università di Aalborg in Danimarca ed ex dirigente di ricerca presso ISPRA, che ha presentato un rapporto contro questa decisione, e Marco Musiani, professore dell’Università di Bologna ed esperto di lupi.

Il lupo, l’Europa e la direttiva Habitat

Nel XIX secolo il lupo era quasi del tutto estinto sul territorio italiano, come in gran parte del resto dell’Europa per via della caccia, della perdita degli habitat e della riduzione delle prede naturali. Infatti, si stima che negli anni ’70 in Italia fossero presenti solo un centinaio di esemplari distribuiti in popolazioni isolate in alcune porzioni dell’Appennino del centro e del sud. A partire dal 1976 il lupo viene considerato dalla legge italiana una specie di interesse comunitario che richiede una protezione rigorosa, non potendo essere né uccisa né disturbata.

Nel 1992 l’Unione europea adotta la direttiva Habitat con l’obiettivo di salvaguardare migliaia di specie dall’estinzione e 230 habitat dalla distruzione. La direttiva impone a tutti gli stati membri nuovi standard e obiettivi, fra i quali condizioni minime di conservazione e ricerca. Inoltre, impone ai paesi membri di condividere i dati sulla conservazione e sul monitoraggio delle specie presenti sui territori nazionali e di realizzare aree protette organizzate in una rete ecologica estesa a tutto il territorio. La prima sezione della direttiva Habitat è dedicata proprio ai grandi carnivori che avevano subito drastiche riduzioni delle popolazioni. Il lupo viene inserito nella direttiva come specie strettamente protetta, cioè tra le specie di cui sono specificamente proibiti la cattura, l’uccisione, la detenzione e il commercio. Grazie a queste misure e al declino della pastorizia, la pressione venatoria sulla specie diminuisce e il lupo riprende a diffondersi.

Oggi si stima che nel nostro paese siano presenti più di 3.000 lupi – una crescita rilevante. Questa rapida progressione non è però rimasta priva di conseguenze: ha portato all’aumento del numero di attacchi al bestiame e soprattutto a un interesse pubblico crescente. Il 5 giugno 2025 il Consiglio europeo ha accettato di spostare il lupo dalla lista delle specie strettamente protette a quella delle specie protette. Questa categoria permette agli stati di decidere se procedere alla riduzione del numero di lupi presenti sul territorio, qualora si ritenga ce ne siano troppi per una convivenza con l’essere umano.

Le critiche e la risposta della comunità scientifica

A seguito di questa decisione sono pervenute numerose critiche da parte sia della comunità scientifica sia da quella ambientalista. A giustificare questo cambiamento della direttiva Habitat dal punto di vista scientifico viene portato come principale documento il rapporto Blanco e Sundseth del 2023, che pure non propone il declassamento. Più di 700 scienziati nel 2024 hanno scritto una lettera al segretariato generale della convenzione di Berna contro il declassamento del regime di protezione del lupo. Tra questi Ettore Randi, che è anche cofirmatario, assieme a Mark Fisher, professore dell’Università di Leeds, della revisione indipendente che critica questo rapporto.

Le critiche sono principalmente sul metodo scientifico del documento e in particolare sulla raccolta dati, perché a oggi non esiste un modo comune di monitorare il lupo e la specie è altamente elusiva e diffidente. Nonostante ciò, il rapporto considera una combinazione di 24 diversi metodi di monitoraggio utilizzati in 34 paesi europei. Emerge quindi che l’UE ha preso questa decisione senza una stima, nemmeno approssimativa, del numero di lupi di molti paesi.

Marco Musiani, che ha studiato questo carnivoro nell’ex Iugoslavia, sostiene che in molti di questi paesi parte dell’UE o prossimi a prendervi parte (in particolare Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Albania e Bosnia) non hanno sistemi di monitoraggio particolarmente efficienti e in linea con le norme europee. In altri paesi, come la Romania, la maggior parte dei dati presentati dal rapporto provengono da quelli forniti dai cacciatori e da questionari rivolti alla popolazione.

A dicembre 2024, 41 associazioni guidate da Green Impact hanno presentato ricorso alla Corte di Giustizia europea. Hanno inoltre inviato una lettera alla Presidenza polacca del Consiglio dell’UE, chiedendo di rinviare il voto sulla proposta di cambiamento della direttiva Habitat fino alla decisione della Corte di Giustizia europea.

Nonostante i numerosi appelli, la modifica della direttiva è stata ratificata. La decisione non entra in vigore nell’immediato, ma ogni nazione potrà decidere se modificare la propria legislazione e quindi cambiare o meno lo satuto di protezione del lupo all’interno dei propri confini. A questo scopo, Ettore Randi e diversi scienziati italiani sono stati chiamati in Senato per presentare le loro argomentazioni verso la decisione europea.

Un cambio di rotta ingiustificato

Le associazioni denunciano un cambio di rotta ingiustificato dell’UE, che negli ultimi decenni ha investito molto sulla protezione del lupo e ha dimostrato e sostenuto che la convivenza essere umano e lupo è possibile. Spiega Ettore Randi: «La convivenza è possibile e di fatto c’è già […] I lupi non si sono limitati a popolare le parti alte dell’Appennino, in cui le densità di popolazione umane non sono molto elevate, ma sono presenti anche nella Pianura Padana, dove la densità di popolazione umana e di strutture è altissima. La convivenza tuttavia è possibile, come dimostra il fatto che non si siano mai verificati grossi incidenti».

Un altro studio citato dalla Commissione europea a sostegno di questa decisione, è quello di Luigi Boitani, professore ordinario all’Università La Sapienza di Roma, e alcuni ricercatori della Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE) del 2022. Lo stesso studio venne già utilizzato dalla commissione per respingere la stessa proposta di declassamento del lupo nel 2022. Nello stesso anno, la Corte di Giustizia dell’UE aveva confermato la necessità di mantenere una protezione rigorosa, sostenendo che garantire uno stato di conservazione favorevole del lupo prevale sulle considerazioni socioeconomiche.

Secondo Marco Musiani, questo cambio di rotta è da attribuirsi al fatto che «Il lupo genera polarizzazione». D’altra parte, continua Musiani, «Sono a Bologna da due anni e mezzo, ma qui non ho mai visto il lupo tranne che con l’uso delle fototrappole, nonostante le densità dei lupi siano doppie rispetto a quanto si poteva osservare in Canada, dove mi è capitato di vederli spesso. Qui la specie è talmente elusiva che il monitoraggio rappresenta una grande sfida». Secondo Randi, la preoccupazione dell’UE di minimizzare l’impatto della presenza del lupo sulle attività economiche come la pastorizia e l’allevamento è esagerata, anche perché la situazione a suo modo di vedere è gestibile. «Gli allevamenti di animali domestici oggetto delle predazioni si possono proteggere con metodologie che ormai sono ben sperimentate, anche grazie ai progetti europei come i programmi Life. Si sperimentano tecnologie di prevenzione come l’uso di cani preparati per difendere i greggi, di recinzioni elettrificate o non elettrificate, di ricoveri per la notte destinati al bestiame, e la presenza di pastori che vigilano. Poi ci sono altri metodi come i diffusori sonori, radiocollari che possono lanciare uno stimolo negativo al lupo e altri ancora».

Ciò detto, i problemi e le reazioni da parte di alcune categorie esistono, frutto anche di fattori come l’insufficiente formazione (si pensi ai pastori provenienti dalla Sardegna che si sono trasferiti in Toscana senza essere mai stati a contatto con la realtà del lupo, storicamente assente nella loro regione), e di una corretta comunicazione scientifica che potrebbe dimostrare, per esempio, come i danni annui dovuti alle predazioni del lupo in Italia siano molto inferiori a quelli provocati da altre specie, come il cinghiale.

Come spesso accade nel nostro paese, la disinformazione su questi temi acquisisce anche un colore politico, che esaspera le divisioni con la complicità dei media, altrettanto impreparati, secondo Randi e Musiani, ad affrontare il tema riportandolo alle giuste proporzioni. «In Italia ci sono circa 3.500 lupi e 56 milioni di persone, e nemmeno nel luogo più remoto della Penisola ci sono più lupi che esseri umani» commenta Musiani.

Quel che è successo è che la specie si è espansa risvegliando impatti emotivi ed economici che vengono costantemente sollecitati. Il lupo «È l’unico grosso predatore che può essere individuato come target, con le inevitabili conseguenze del caso». La decisione di cambiare lo status del lupo da strettamente protetto a protetto potrebbe avere quindi ripercussioni gravi sulla conservazione di questo animale, che pure è fondamentale dal punto di vista ecologico. Diventerà infatti possibile, per esempio, la caccia sportiva a questa specie; alcune testate giornalistiche internazionali riportano il timore che questa decisione possa estendersi ad altre specie come la lince o l’orso, che sono già in grande difficoltà in molte zone. Ciò che servirebbe, invece, sarebbe l’allestimento di un vero monitoraggio su scala continentale, anche per contenere il fenomeno del randagismo, che mette a reale rischio la conservazione del lupo. Come spiega in conclusione Ettore Randi: «I vantaggi sarebbero evidenti per tutti in termini di conoscenze e di controllo. Avere per esempio una banca dati europea sulla presenza di lupi, sulle unità riproduttive che chiamiamo impropriamente branchi e sulla presenza degli ibridi, quindi degli incroci con i cani randagi, permetterebbe di capire qual è la dinamica del lupo e da lì studiare interventi opportuni».