Nel rapporto rilasciato ai primi di giugno dall’Istituto superiore di sanità Malattie cardiovascolari: fattori di rischio, mobilità sanitaria e mortalità nelle Regioni italiane, il commento ai risultati inizia con parole fatte per chi vuol capire. «Negli ultimi vent’anni – scrivono gli autori – si è assistito a una forte riduzione della mortalità per malattie cardiovascolari in Italia e nel mondo; tuttavia, le malattie cardiovascolari restano una delle principali cause di decesso nei Paesi industriali e di carico di malattia».
Così esordisce il paragrafo più interessante di un’indagine fatta non solo sui rischi di quelle malattie, ma in particolare su come siano distribuiti nelle diverse parti del Paese. Un’indagine tutta da leggere. Per le differenze di cura interzonali, differenze son state trovate, certo, anche per la diversità di progressi e quindi sì: «Si sono acuiti i differenziali territoriali con un meridione sempre più svantaggiato».
A fronte dei fattori di rischio comportamentali coinvolti nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari (fumo, sedentarietà, eccesso ponderale, consumo di frutta e verdura) «I dati non mostrano alcun reale miglioramento dal 2008 a oggi». E per l’eccesso ponderale le cose non vanno meglio, perché coinvolge il 43% della popolazione, con il 33% di sovrappeso e il 10% di obesità. Così, il paradosso – l’ennesimo – che vive il Sud Italia è essere martoriato dal fatto che un cibo povero insieme a ricavi miseri si trovano in case di persone o con poca salute o in sovrappeso o obese. Sì, le differenze sociali sono suggellate dai chili, perché il 18% di quanti hanno difficoltà economiche è obeso, mentre il 9% di chili ne ha di meno, di denaro di più.
Il rapporto denuncia in modo onesto (ma tardivo) che: «Le malattie del sistema circolatorio […] rappresentano la principale causa di decesso in Italia e in Europa e contribuiscono al 20% negli uomini e al 16% nelle donne degli anni persi in totale dalla popolazione». Queste malattie sono la prima causa di morte e causano il 30,8% di tutti i decessi e il 18,1% di quelli sotto i 75 anni (dato riferito al 2021, ultimo anno disponibile).
Sono problemi gravi «che insorgono già nella fascia di popolazione giovane-adulta» scrive il rapporto, e per i suoi autori e autrici causano in qualche modo il deterioramento legato all’invecchiamento con disabilità e alterazione cognitiva progressiva.
Nel rapporto, però, c’è un omissis: se sono menzionati ipertensione, ipercolesterolemia, consumo giornaliero di sale, si tralascia invece il resto. Nel nostro Paese c’è una sorta di avversione per certe parole. Non così all’estero, almeno nelle sedi sacre della ricerca scientifica (prima di Trump, cioè). Sui danni del colesterolo e dell’ictus l’American Stroke Association scrive che: «La relazione tra colesterolo e sottoclassi lipidiche e il rischio di primo ictus è complessa, in parte perché l’ictus può verificarsi attraverso diversi meccanismi oltre all’aterosclerosi».
Ecco, quindi, l’omissis del rapporto ISS. Sembra che l’aterosclerosi sia lì al lavoro ogni volta che si prepari qualche danno alla parete arteriosa.
Esordisce lei
Un paradosso attuale è che se le migliori condizioni del vivere hanno permesso una vita lunga a gran parte degli 8,1 miliardi di persone che popolano il mondo, resta il fatto che «le malattie legate all’aterosclerosi sono la principale causa di morte negli Stati Uniti e nel mondo», come sostiene il sito del National Heart, Lung and Blood Institute statunitense. Non a caso «gran parte delle malattie cerebrovascolari può essere attribuita all’aterosclerosi e all’ipertensione» scrivevano negli anni Settanta due figure illustri della medicina statunitense, Raymond Adams e Maurice Victor, nel loro Principles of Neurology. «L’identità del processo ateromatoso nelle arterie del cervello, dell’aorta, delle coronarie o nelle altre arterie non può essere fonte di discussione», insistevano i due. Dunque, se parliamo di danni simili è inutile bussare altrove, la porta cui rivolgersi è sempre una. Ma è solo la prima delle due scoperte sull’aterosclerosi. Per evitare confusione bisogna esser chiari come riescono a fare i due neurologi: «…Sebbene si conosca che l’aterosclerosi inizia nell’infanzia e nell’adolescenza – scrivono Adams e Victor – è probabile che provochi guai sino in età media o avanzata. L’ipertensione […] aggrava il processo». Così come l’ipercolesterolemia, i consumi eccessivi di sali quotidiani, l’assenza di attività fisica, per esempio, o il DNA che non funziona bene senza essere proprio malato.
Per il cuore, quanto sapevamo sulla cardiopatia ischemia risaliva al 2021, ovvero ai 9,44 milioni di morti nel mondo; perché questo ci diceva l’indagine Global Burden of Diseases (GBD) del 2021 Burden of disease scenarios for 204 countries and territories, condotta in 204 Paesi e che aveva potuto fornire allora il miglior quadro disponibile dell’andamento futuro della salute. Forse un’anagrafe credibile per la diffusione presente e futura delle principali malattie. Con la speranza tra le mani che «per le principali cause di morte tra il 2022 e il 2050 […] si prevede che la cardiopatia ischemica rimarrà la principale causa di morte fino al 2050 a livello globale, seguita in ordine decrescente dall’ictus».
Però non si erano ancora fatti i conti con le possibilità di Lancet, tornata sull’argomento con un articolo e un editoriale ad aprile 2025 . «Per decenni l’approccio clinico alla malattia coronarica – si legge nel secondo – è stato incentrato sugli effetti acuti dell’occlusione coronarica e sul suo culmine nell’ischemia miocardica, un focus che ha plasmato sia le strategie diagnostiche che quelle terapeutiche».
Poi le novità di Lancet
Con queste parole la cultura dell’infarto è entrata nelle case insieme a Emergency, non quella dell’aterosclerosi. Precisa Lancet: «L’attenzione dell’assistenza medica si è concentrata prevalentemente sul riconoscimento dei sintomi e sul trattamento degli eventi acuti, perdendo opportunità di diagnosi precoce e prevenzione della malattia». Ma la rivista aggiunge guai, perché afferma: «Miliardi di dollari in finanziamenti per l’assistenza sanitaria continuano a essere spesi per identificare e gestire l’ischemia coronarica [mentre] i meccanismi dominanti per l’infarto del miocardio sono la rottura o l’erosione della placca aterosclerotica e, in misura minore, la formazione di noduli calcifici che possono emergere in una fase molto più precoce della malattia».
Dunque, se un cardiochirurgo infila i suoi magici tubicini nelle coronarie per rimettere tutto a posto, riesce ad azzerare i danni di una, ripeto, una placca o ha messo a posto le coronarie intere?
Il regista Nanni Moretti è stato ricoverato per un infarto mercoledì 2 aprile all’ospedale San Camillo di Roma. Ma la cosa era già successa pochi mesi prima, il primo ottobre 2024. Occorre leggere. Su Lancet, abbiamo visto, c’è il lavoro della Commissione studio su Ripensare la malattia coronarica: un invito all’azione, frutto di oltre due anni di lavoro da parte di 24 esperti internazionali guidati da Rasha Al-Lamee (Imperial College London, Regno Unito). Sottolineano, gli esperti, l’urgenza di un cambio di prospettiva. Occorre cioè cambiare il modo in cui abbiamo affrontato sinora il problema occupandoci dei milioni di infarti e trascurando quanto era venuto prima nel corso della vita. Lancet «auspica una transizione da un approccio incentrato sull’ischemia a uno che dia priorità all’ateroma e una ridefinizione della coronaropatia come condizione cronica che richiede un intervento proattivo in ogni fase della vita».
È un momento cruciale per la comprensione della malattia coronarica aterosclerotica, osserva l’editoriale. Occorre tener conto non solo delle novità della IA, ma di ogni genere di modifica e cambiamento. Aggiunge ancora l’editoriale di Lancet: «L’importanza cruciale della gestione dell’aterosclerosi deve essere comunicata in modo da raggiungere le persone a livello individuale, rendendo il messaggio accessibile e attuabile e incoraggiando la popolazione a impegnarsi in azioni pratiche e piacevoli che possano promuovere la salute cardiovascolare». Inoltre occorrerà tener conto che i cambiamenti proposti dalla Commissione potrebbero doversi adattare a condizioni sanitarie disagiate e difficili, con risorse economiche limitate come nel Sud del mondo, ovvero il Sud-est asiatico e l’Africa, dove il peso delle malattie cardiovascolari è in aumento. Questo è un problema dell’umanità: «I progressi nella riduzione della mortalità per coronaropatia si sono arrestati. La coronaropatia rimane una delle principali cause di morte in tutto il mondo e un’enorme fonte di carico di malattia».
In sintesi, l’articolo cerca di mettere le cose a posto in termini cronologici. Insiste sulla presenza di una malattia di nome aterosclerosi che inizia a danneggiare le arterie, prima che intervenga la trombosi, così che nell’arterie semi-danneggiate troviamo tracce di un danno aterosclerotico sul quale si è bloccata una trombosi. Danno che però può riprendere nel tempo.
Ma non è l’unico segno del mondo inquieto in cui viviamo.
Per iniziare Leonardo, l’Egitto, poi Framingham e Oms
A metà novembre 2017 il nome Leonardo è stato associato a 450 milioni di dollari, cifra raggiunta all’asta di Christie’s dal Salvator Mundi, un’opera del pittore toscano. Secondo le cronache del 1507 fu Leonardo a descrivere l’autopsia di un anziano in un ospedale di Firenze e ad attribuire le cause del decesso a un’arteria «che nutre il cuore…arida, rimpicciolita e avvizzita», ovvero alla quasi-chiusura di una coronaria, forse all’aterosclerosi. Risulta che sia stata questa la prima osservazione storica della malattia, mentre Leonardo non è stato il primo a trovarne le tracce. La genealogia dell’aterosclerosi ci rimanda molto più indietro, a mummie risalenti a 3.300 a.C., sebbene rilievi posteriori siano stati «in mummie … datate dal 1580 a.C. al 525 d.C. [e] dimostrano che questa alterazione era largamente diffusa nell’antico Egitto», come scriveva JE French nel suo Aterosclerosi in Patologia generale.
Altre novità vennero alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, quando in quasi metà delle morti statunitensi era nota la causa cardiovascolare, ma non si conosceva altro. Un passo fu compiuto da patologi statunitensi che ebbero l’idea di studiare le condizioni dei soldati morti in battaglia. Nelle autopsie di persone cadute in Corea e poi in Vietnam, i patologi ebbero parecchie sorprese. Il resoconto che fece JAMA degli eventi nel 1953 era accompagnato da un articolo dove si legge: «è molto allarmante scoprire che, su 300 autopsie di giovani soldati uccisi in azione o in incidenti che non mostravano alcuna evidenza clinica di malattia coronarica in vita, il 77,3% presentava segni evidenti di arteriosclerosi coronarica all’esame autoptico. L’età media è stata indicata in 22,1 anni. Le affermazioni degli autori ci lasciano con l’impressione che oltre il 77% dei giovani nel nostro Paese soffra di malattia coronarica». Insomma, in persone ventenni in apparenza sane, l’aterosclerosi aveva già mostrato di cosa fosse capace. Era iniziata una produzione di malati apparentemente sani, di persone che esibiscono a sé e agli altri la propria salute mentre hanno già le arterie segnate, pronte a far scherzi.
Nel frattempo c’era stata una novità significativa sul piano scientifico. Sì, perché se molti oggi non direbbero nulla sulle cause di morte, nel 1948 a Framingham, una città statunitense, l’istituto federale National Heart Lung and Blood Institute, che abbiamo già incontrato, organizzò il Framingham Heart Study (o Fhs). A metà degli anni Quaranta quasi la metà dei decessi statunitensi aveva una causa cardiocircolatoria, ma medici e cardiologi sapevano molto poco su come o perché si sviluppava la malattia. Lanciato nel 1948, lo studio storico Framingham ha seguito la malattia aterosclerotica per tre generazioni.
Alla fine degli anni Cinquanta, si decise che sarebbe stata l’Oms a occuparsi delle cause possibili, ma non si capiva come. E la polemica scientifica divenne così aspra e divise a tal punto gli studiosi che nel 1958 la stessa Oms fu chiamata a scelte precise. Si decise cioè che per raccogliere i reperti occorreva selezionarli in base alla gravità, indicativa a sua volta di un invecchiamento. Così si arrivò a distinguere tre lesioni, diverse per aspetto e gravità e indicative delle condizioni di malattia: la stria lipidica, la placca fibrosa e la lesione complicata.
La placca primitiva
«Morire per la propria fede – scriveva Oscar Wilde – è il peggior uso che un uomo possa fare della sua vita». Morire per una placca non credo sia un uso tanto ragionevole della propria vita, ma può accadere, purtroppo. Le cose descritte accadono nelle arterie maggiori, in quelle di dimensioni grandi e medie, le sole capaci di conoscere l’aterosclerosi. A toccarle le si riconosce facilmente rispetto alle altre, ma a osservarle, anche al microscopio, si vede che conservano una parete relativamente più spessa, con tre strati che gli addetti ai lavori chiamano tonaca esterna, media a interna. Queste arterie debbono reggere l’urto della spinta del cuore e non sorprende che la parte esterna sia ricca di fibre elastiche, che la media somigli a fagotti di fibre muscolari lisce per consentire la dilatazione arteriosa e, infine, che l’interna sembri un supporto per la parete interna di cellule endoteliali sparse ovunque nel corpo. Forse per come son fatte, non sono strutture longeve.
Le prime lesioni della stria grassa compaiono molto presto, nell’infanzia. Ed è difficile coglierne l’origine perché, per esempio, non è semplice distinguere le responsabilità cellulari da quelle chimiche nella genesi della malattia. In seguito, però si possono distinguere fasi diverse nella progressione. Nella fase 2, con il segno del danno endoteliale s’innescano processi chimici che aprono la strada a reazioni infiammatorie o immunitarie che attivano diversi processi. Sì perché le prime tracce di aterosclerosi sono un misto tra la creazione di una striatura gialla o di cellule schiumose, le foam cells, e la morte nel sito del danno endoteliale. Ma mentre la circolazione del sangue comincia a essere disturbata per la crescita della placca, all’interno dell’arteria, ormai si vedono ammassi cellulari che sembrano crescere con un tempo rallentato. L’attività cellulare ha il ritmo di sempre, sulla superficie del cappuccio fibroso si mantiene la placca che avanza compatta, mentre aumenta il volume in parallelo contro il tempo. La placca sembra avanzare secondo un doppio codice cronologico. E le cose vanno avanti così sino al momento capitale, quando cioè si arriva apertura o rottura della placca. Forse sotto l’endotelio c’era troppa pressione e la placca ha ceduto, come i suoi rivestimenti fibrosi. O può darsi che la causa fosse una micro-emorragia nella zona lesionata, causa di un trombo, a sua volta causa di un possibile d’infarto cardiaco o cerebrale. Ecco perché il National Institute of Health scrive: «l’aterosclerosi può causare morte e disabilità».
Questa è la sintesi delle informazioni raccolte solo sulla cronologia dei fatti.
Ma si potrebbe far molto, dal DNA all’impiego e ai prodotti dell’IA. Qualcosa di futuribile, però, in modo paradossale è già stata fatto. Con un volo fantastico nello spazio, immaginando di stare tra gli astronauti di una missione, cioè a 400 chilometri sopra di noi, in un viaggio a 28 mila chilometri orari. Che le ossa di una persona lì dentro per mesi, quasi in assenza di gravità, diventino più fragili lo sapevamo già. Eppure nel settembre 2022 Nature scriveva che «la microgravità sottopone il sistema vascolare della persona suscettibile a variazioni aterosclerotiche». Anche se non siamo abituati a collegare spazio e aterosclerosi, dovremo imparare a farlo.
Il tempo della fine
Non è finita, perché novità informative potrebbero venire dal nuovo mensile Nature Medicine, che in un editoriale del gennaio di quest’anno le descrive come «d’importanza cruciale per il futuro della medicina». E come sarà, allora, la medicina nel 2055? «I progressi nella multi-omica (che integra genomica, trascrittomica, proteomica e metabolomica) potrebbero consentire una previsione precisa del rischio individuale di malattia», pronostica la rivista.
Nel frattempo, una grossa indagine di JAMA del 2025 concludeva che su 30 milioni di persone maratonete negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2023 si erano avuti 176 arresti cardiaci e che la mortalità era scesa dal 71% prima del 2010 al 34% dopo. Forse un segno di miglioramento del sistema dell’assistenza? Può darsi, ma non un successo contro l’aterosclerosi. Più o meno negli stessi anni la molto probabile associazione atero-trombotica mista con ipertensione aveva causato il 40% di casi, ovvero non era cambiato nulla.
Così è fatta la storia umana e della medicina, forse anche dell’aterosclerosi.