Oggi Kosĕvo è un quartiere residenziale nel centro di Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina. Si trova tra la parte più antica della città e la parte più moderna. Ed è stato il quartiere olimpico dei Giochi Invernali del 1984, con il centro sportivo “Zetra” e la magnifica sala del ghiaccio che era stata il palcoscenico della cerimonia di apertura e chiusura delle Olimpiadi. Tutto bombardato e incendiato durante la guerra civile 1992-1995. Stessa la sorte dell’adiacente storico stadio cittadino costruito nel 1947. Oggi entrambi sono stati ricostruiti e fanno parte di un enorme complesso sportivo, che comprende la facoltà di Sport e cultura fisica, la piscina, gli alloggi anche per studenti, lo zoo cittadino, uno dei cimiteri e l’ospedale pediatrico e materno-infantile. Il complesso ospedaliero ospita anche il centro di traumatologia: una delle “chirurgie a lume di candela” durante l’assedio di Sarajevo – il più lungo assedio nella storia bellica della fine del XX secolo, protrattosi dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Contrapposte erano le forze del governo bosniaco, che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia, contro l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS), che miravano a distruggere il neo-indipendente stato della Bosnia ed Erzegovina e a creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.
Dalla guerra classica…
Quando arrivo a Sarajevo per la prima volta durante l’assedio, nel comprensorio della città ci sono circa 62.000 bambini sotto i 14 anni, il 20% della popolazione assediata. Secondo il governo bosniaco, sino ad allora erano stati uccisi almeno 1.250 bambini e 14.000 feriti, con una media di cinque o sei ricoveri al giorno nel reparto pediatrico dell’ospedale di Kosĕvo.
L’incontro in ospedale con il primario della chirurgia pediatrica e i referenti ospedalieri e istituzionali è per fare il punto della situazione e dei bisogni a cui come comunità internazionale (Organizzazione mondiale della sanità) vogliamo dare una mano a far fronte. La riunione si traduce nel racconto e nella visita agli ultimi ricoverati: un neonato di tre mesi con una gamba amputata dopo essere stato colpito da un cecchino, bambini feriti dalle schegge dei bombardamenti. Molti hanno subito amputazioni. La stima è che il 40% di loro rimarrà invalido. Alcuni hanno perso uno o entrambi i genitori.
… al lascito delle mine
L’assedio è terminato da alcuni mesi quando torno all’ospedale di Kosĕvo. È una giornata di sole e bambini e ragazzi sono all’aperto, molti amputati, con manici di scopa come protesi. Un gruppetto gioca con un pallone fatto con stracci legati. In reparto, tra i ricoverati, un bambino a cui è stato amputato un piede e presenta ferite e fratture multiple alla gamba controlaterale. Nell’esplosione, lui e altri due bambini sono rimasti feriti e una donna è morta. È cambiata l’utenza, sempre giovani, feriti e poi amputati, ma non da cecchini serbi o munizioni vaganti, bensì dalle mine antiuomo. Quelle mine antiuomo con cui avrei dovuto fare i conti qualche giorno dopo per poter attraversare un terreno a sud-ovest di Mostar.
Questi sono i ricordi e le molte immagini che improvvisamente mi tornano alla memoria e si agitano, mentre leggo sul giornale che Volodymyr Zelensky ha firmato il decreto per l’uscita dell’Ucraina dalla Convenzione internazionale che vieta l’utilizzo, lo stoccaggio, la produzione, la vendita e la distribuzione delle mine antiuomo, e inoltre impone ai Paesi l’obbligo di ripulire le aree colpite, assistere le vittime e distruggere le scorte. Ma perché mai? Un provvedimento inutile, se non forse dannoso proprio per la popolazione ucraina, che fa regredire nel faticoso e doloroso percorso del riconoscimento dei crimini di guerra. Una Convenzione a cui Russia, Stati Uniti e Cina, con altri 30 Paesi, non hanno mai aderito, e la cui ratifica avvenne a Ottawa nel 1997, anche per il tragico contributo degli esiti a distanza che le mine antiuomo sparse in Bosnia ed Erzegovina producevano.
Producevano? Nell’ambito del monitoraggio che il Centro nazionale per l’azione contro le mine (MAC) di Sarajevo svolge in ottemperanza alla Convenzione di Ottawa, sino ad agosto del 2024: 1.781 persone sono rimaste ferite a seguito di incidenti con mine dalla fine delle ostilità, 624 mortali. 134 sminatori sono rimasti vittime di mine terrestri durante le operazioni di sminamento umanitario in Bosnia-Erzegovina e 53 sono morti. Tre decenni dopo la guerra: 956,36 chilometri quadrati di territorio bosniaco – quasi il 2% del territorio nazionale – sono ancora considerati un’area contaminata dalle mine, con un impatto diretto sulla vita di oltre 845.000 cittadini. Più di 80.000 mine e 64.000 residuati bellici esplosivi sono stati rinvenuti e distrutti a opera di 17 organizzazioni accreditate per lo sminamento. Dal 1996, con la sola eccezione del 2019 e 2020 ogni anno si sono registrati morti per mine antiuomo in Bosnia ed Erzegovina.
50 milioni le mine ancora sepolte
Le mine non fanno discriminazioni tra combattenti e non combattenti e la maggior parte rimane inesplosa per anni, ferendo, mutilando, o uccidendo la popolazione civile anche molto tempo dopo il cessate il fuoco. Nel tempo, la pioggia, le inondazioni e altri fattori climatici finiscono con il modificare e spostare i campi minati. Quindi, senza registrazioni e con l’impatto del tempo, anche metereologico, definire le aree minate dopo un conflitto è molto difficile. Possono essere danneggiate anche le popolazioni di rifugiati, che se riescono a ritornare nei loro luoghi di origine non hanno familiarità con le mine e la loro ubicazione. Sono oltre 50 i Paesi, tra cui l’Italia, che nel corso del tempo hanno prodotto mine antiuomo, sia per i propri stock che per rifornire altri Paesi. Attualmente la produzione è in corso solo in quattro nazioni: India, Myanmar, Pakistan e Corea del Sud, sebbene anche USA, Russia, Corea del Nord, Cuba, Singapore, Việt Nam, India e Pakistan siano coinvolti e detengano le maggiori scorte di mine antiuomo. È recente la dichiarazione della Bielorussia che intende investire 800 milioni di euro nella produzione di nuove mine antiuomo. Alcuni gruppi armati o gruppi ribelli in vari Paesi producono mine antiuomo, per lo più di tipo artigianale.
Si stima che siano circa 50 milioni le mine terrestri sepolte oggi in almeno 61 Paesi, e che siano 300.000-400.000 i sopravvissuti alle mine in tutto il mondo che necessitano di assistenza. Per un Paese che si sta riprendendo dalla guerra, la presenza delle mine provoca un grave onere ambientale, sociale ed economico e, per le vittime, una tragedia continua per molti anni a venire.
Le vittime delle mine necessitano di ricoveri e interventi chirurgici e riabilitativi ripetuti anche a molta distanza dall’evento traumatico. La maggior parte subisce anche la perdita dell’indipendenza, richiedendo la cura dei membri della famiglia per lo svolgimento delle attività di vita quotidiana, dovendo far fronte a disabilità e all’impossibilità di lavorare. La stragrande maggioranza dei sopravvissuti si trova in Paesi con scarse risorse finanziarie, strutturali e organizzative per fornire assistenza sanitaria o riabilitativa ai cittadini e in particolare ai disabili.
Inoltre, negli anni successivi ai conflitti, ai rischi causati dai “residui bellici esplosivi” sparsi sui territori o conservati nei depositi e che sono difficili da identificare e da eliminare, si aggiungono i rischi causati dalla produzione stessa e imputabili allo smaltimento delle materie prime e dei residui o all’inappropriata conservazione di queste armi.
La produzione di una mina antiuomo può costare solo 3 dollari, ma rimuoverla costa 300-1.000 dollari.
Tra le vittime civili un terzo sono bambini e bambine
Il 70% delle vittime delle mine terrestri è composto da civili e un terzo di questi sono bambini e bambine, che hanno perso i piedi o gli arti inferiori, con lesioni genitali, cecità e sordità, a causa delle esplosioni. In queste giovani vittime il danno psicologico minaccia di trasformarle in una generazione perduta, alimentando un’eredità di odio che potrebbe condannarle a ripetere le battaglie che hanno segnato la loro infanzia. La questione dello sminamento è tra le persistenti e pesanti conseguenze dei conflitti civili in Afghanistan, Cambogia, Mozambico, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo.
Nel corso dell’invasione russa dell’Ucraina, entrambi gli eserciti hanno fatto uso di bombe a grappolo, come denunciato da Human Rights Watch. Kiev ha anche chiesto di riceverne di nuove, in particolare dagli Stati Uniti. Quindi, non solo nella guerra del Donbass del 2014, ma anche in quella in corso la popolazione dell’Ucraina orientale ha subito, e continuerà a subire, gli effetti mortali o gravemente mutilanti a opera di chi si alterna nel controllo del territorio. Comunque, è soprattutto la Russia a farne uso, inizialmente con i miliziani del Gruppo Wagner e successivamente con l’esercito regolare. Pratica già messa in atto, per esempio, in Cecenia, in Siria e in Africa.
All’inizio dell’invasione dell’Ucraina entrambi gli eserciti hanno usato bombe a grappolo di vecchia generazione risalenti all’epoca sovietica, di cui il 30% rimane inesploso.
Nel secondo anno di guerra gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina bombe a grappolo di nuova generazione: munizioni di artiglieria da 155 mm che devono essere lanciate da terra con gli obici e che hanno un dud rate del 2,35%. (Il termine dud rate si riferisce al tasso di fallimento di un’esplosione, ovvero la percentuale di submunizioni all’interno di una bomba a grappolo che non esplodono al momento del rilascio, rimanendo attive e potenzialmente pericolose come mine terrestri).
Le mine antiuomo, progettate per danneggiare o uccidere le persone, sono innescate da una pressione o da fili d’inciampo. Variano notevolmente nelle dimensioni, nelle forme e nei modelli, se ne contano fino a 340 tipi. Possono avere un raggio di azione specifico o essere onnidirezionali con un’azione a 360 gradi. L’involucro può essere in legno, ferro, resina sintetica, di colore diverso per camuffarsi nel terreno, tra l’erba o gli alberi. Alcune mine oltre all’esplosivo, per lo più tritolo, contengono biglie metalliche o frammenti metallici per provocare danni generalizzati.
Aumentare l’efficienza delle bombe semplificandone l’uso non riduce i rischi e le tragiche sequele del loro utilizzo. L’ampiezza dei campi minati con mine di diversa struttura e finalità offensiva (ordigni anti-tank e anti-uomo), spesso difficili da scorgere, trasformano interi territori, anche quelli sotto il proprio controllo, in trappole già durante il conflitto. Bonificare un territorio minato implica la disponibilità di un numero di mezzi appropriati per la bonifica: limite evidenziato anche in Ucraina sia nell’impiego che nella fornitura dei soli ordigni e non degli strumenti per la bonifica successiva. Durante la guerra vi è l’intervento di genieri che tracciano sentieri e corridoi ripuliti per pochi metri di terreno per consentire il movimento delle truppe. Tutto ampiamente documentato, ma inefficace o insufficiente a contrastare la guerra e costruire una cultura di pace.
Il decreto di Zelensky rappresenta quindi più una dichiarazione liberatoria da un vincolo già violato, mentre la decisione di Polonia, Lettonia, Estonia, Finlandia e Lituania di ritirarsi dalla Convenzione di Ottawa per difendere i confini con Russia e Bielorussia è una sciagurata scelta qualora ricorressero a posizionare mine antiuomo sul proprio territorio. In un mondo in cui le guerre si combattono con droni, missili a lunga portata e sventolando la minaccia nucleare, ricorrere alle mine antiuomo è espressione della disperazione attribuibile alle azioni terroristiche.
Ogni guerra è disumana. Nelle guerre si possono assumere decisioni tanto crudeli da travalicare ogni limite di orrore. Disseminare il terreno di mine antiuomo e usare ordigni speciali, che hanno come scopo terrorizzare la popolazione e provocare stragi di cittadini inermi, è una di queste e costituisce un crimine contro l’umanità che si aggiunge alle responsabilità del conflitto.
Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica Italiana