Ha ragione Eva Benelli: la legge che si vuol fare sul fine vita è cattiva prima di tutto in senso morale, oltre che essere una cattiva legge. Che le gerarchie dei cattolici – prima i cristiani – potessero essere cattive lo sapevamo. Basta studiare la storia, affrettandosi però, prima che qualche ministro la censuri. Si sta ripetendo quel che accadde con la legge 40, che per meri capricci ideologico-superstiziosi venne ispirata dal Vaticano (ma il cardinale Ruini diceva di non volerla in quanto la fecondazione assistita è intrinsecamente peccato); una legge pessima e immorale, cioè volta a far del male alle donne e alle coppie in cerca di una nuova vita da allevare e a cui dare amore. Quella legge, salvo poche cose, è stata smontata dalle corti e dai tribunali. Succederà anche per quella sul fine vita? Alcuni costituzionalisti ne parlano come fosse già cadavere.
Anche se rispetto alla prima stesura dalla bozza sono stati eliminati alcuni aspetti estremi (i quattro anni d’attesa prima di poter fare di nuovo richiesta di suicidio assistito ridotti a sei mesi e il richiamo alla tutela della vita dal concepimento) è come per la legge 40. Il messaggio che questa proposta trasmette è: noi giudichiamo un peccato contro Dio mettere fine alla propria o altrui vita, a prescindere, perciò chi davvero vuole farlo deve superare ulteriori intralci intollerabili, come l’obbligo incostituzionale di sottoporsi a cure palliative, oltre alle sofferenze che sta già patendo.
E poi, va bene (forse) far pagare la prestazione, ma stabilire per legge che gli strumenti e i dipendenti sanitari, pagati anche con le tasse dei pazienti, non possano essere implicati, è da stato etico. E incostituzionale.
C’è un aspetto del fine vita sul quale quasi tutti sorvolano e che questa legge naturalmente ignora. Anzi, in ultima istanza potrebbe incentivare. Lasciamo da parte, anche se il controfattuale in questo caso lascia il tempo che trova, il problema del valore della vita e a chi appartenga. Cioè cosa ci sarà scritto, alla fine, all’articolo 1 del testo. In Italia si può scrivere quel che si vuole in una legge: “indisponibilità di un diritto alla vita”? Oltre che un ossimoro sembra un insulto all’intelligenza.
La questione di fondo si chiama: libertà. E la può capire anche un bambino di cinque anni (copyright Denzel Washington in Philadelphia).
Che la vita appartenga a me o a Dio poco importa, la Costituzione e la legge 219 del 2017 dicono che devo essere informato delle decisioni mediche che mi riguardano e che impattano sulla sua durata. E dicono che sono libero di decidere. Mettiamo il caso che io sia molto credente e che rifiuti l’eutanasia nonostante tutti, medico e familiari, siano mossi da compassione perché si rendono conto che sto patendo le pene dell’inferno. Sono affari miei: mettiamo che io creda che soffrire mi avvicini a quello che patì per tutti noi per salvarci, Cristo sulla croce, e che la sopportazione del dolore mi spalancherà automaticamente le porte del paradiso. Faccio del male a qualcuno se ci credo e scelgo di soffrire? Quale è il rischio che un medico o i parenti decidano di terminare comunque la mia vita perché pensano che sia per il mio bene e magari non sono credenti? Dipende. Se vivo in un paese dove l’eutanasia è legale è basso. E abbiamo anche dei dati, perché tutto è più trasparente. Se sono cittadino di un paese dove non è legale, oppure ottenerla è come cercare di scalare l’Everest senza ossigeno, anche un bambino di cinque anni capisce che la probabilità è maggiore. Ecco un problema che le leggi sul fine vita, nei paesi civili, si pongono, che non è solo di consentire l’esercizio in positivo di un diritto, alla salute, ma anche di garantire il diritto, in negativo, che nessun altro decida per me.
Alcuni studi, uno del 1998 e uno del 2007, riportano che nei paesi dove l’eutanasia era illegale, la frequenza di sedazione terminale con scopo di accelerare la morte era simile o maggiore rispetto ai Paesi con depenalizzazione (eravamo nel 1998) o che nei Paesi Bassi, dopo la legalizzazione, l’eutanasia non volontaria è diminuita. Mentre è rimasta stabile o non documentabile in paesi proibizionisti. In uno studio del 2003, l’1-2% di anestesisti italiani che hanno risposto al sondaggio End-of-Life decision making in six European countries hanno ammesso che più del 50% delle loro decisioni di fine vita, sia per pazienti competenti sia incompetenti, venivano prese senza discuterle né con il paziente né con i parenti. Inoltre, quando l’eutanasia era solo depenalizzata, nel 1990 in Olanda, solo il 18% dei casi di eutanasia era segnalato alle autorità. In quel paese, nel 1994, su 5.000 casi, 1.000 (20%) erano eseguiti senza richiesta esplicita, quindi non volontari. Per questo l’eutanasia alla fine fu legalizzata. Per fare venire a galla il sommerso. Chi rischia di più, naturalmente, è il paziente anziano, oncologico in fase terminale, incosciente o vulnerabile, con familiari o medici che decidono per lui, sostenendo che «era meglio così».
Un sondaggio condotto tra medici rianimatori in Italia nel 2006 riportava un 4% di dichiarazioni di aver praticato iniezioni letali, motivati da “coscienza” (lo stato mentale umano più pericoloso), nonostante l’illegalità. Non sono disponibili dati pubblici che distinguano tra casi con e senza consenso esplicito del paziente.
Nella letteratura medica e bioetica si discute, anche se in mancanza di dati empirici del tutto attendibili, sulla natura nascosta e illegale dell’eutanasia involontaria, in contesti dove l’eutanasia è proibita. Nei paesi dove è vietata, pratiche di fine vita avvengono spesso in zone grigie, senza protocolli chiari né supervisione. Tutti, o quasi, conosciamo personalmente casi di palliativisti che hanno consegnato ai familiari una dose letale di morfina per terminare la vita di una persona sofferente, senza che lei lo sapesse. I medici possono tranquillamente decidere autonomamente di abbreviare la vita di pazienti in condizioni terminali, senza consenso formale. Nessuno chiederà l’autopsia.
L’assenza di percorsi legali (come nel suicidio medicalmente assistito o nelle dichiarazioni anticipate di trattamento) impedisce ai pazienti di esprimere chiaramente la propria volontà. Questo accresce il rischio che altri (medici o familiari) decidano in loro vece, presumendo ciò che sarebbe meglio per loro. Dove l’eutanasia è legale (Olanda, Belgio, Canada), i casi devono essere registrati, sottoposti a revisioni etiche e supervisionati da commissioni mediche. Dove è vietata, l’assenza di registrazione rende impossibile valutare l’entità dell’eutanasia involontaria o abusiva. Dove non è vietata, ma è resa talmente complicata e valutata da una commissione nominata dalla Presidenza del Consiglio addirittura, si farà prima a morire per la malattia. Cioè non cambierà molto rispetto a prima.
È paradossale. Non solo ci sono la discriminazione economica, di censo, e la mancanza di rispetto etico per il degrado della relazione medico-paziente, per cui o posso pagare e trovo chi mi aiuta a morire, purché non sia il mio medico ma un estraneo, oppure mi attacco. La discriminazione riguarderà ancora coloro che continueranno a essere eutanasizzati nella penombra delle case, sia senza loro il consenso sia col consenso. Ora anche per sfiducia in un processo farraginoso, avvolto nei fumi dell’incenso ideologico e che finge di rispettare l’autonomia. Anche alla fine della vita si deve faticare, e magari senza riuscire, per provare a esercitare la propria libertà.