Il mondo si confronta oggi con scenari demografici sempre più diversificati. In alcune aree del pianeta la popolazione continua a crescere, anche se meno rapidamente rispetto al passato. In altri contesti, come in Italia, le nascite continuano a diminuire e la popolazione invecchia progressivamente. In questo scenario, il nodo cruciale non è tanto il numero di figli che si fanno, ma piuttosto l’autonomia riproduttiva: quanti, davvero, hanno la possibilità di scegliere se e quando diventare genitori? 

Secondo il Rapporto sulla popolazione del mondo 2025 dell’UNFPA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva, la vera emergenza non riguarda il numero assoluto delle nascite, bensì l’impossibilità per molte persone di realizzare i propri progetti riproduttivi. Una realtà che accomuna Paesi con alti e bassi tassi di fecondità. In Italia, per esempio, solo il 36% della popolazione prevede di avere il numero di figli desiderato, mentre una quota significativa — il 34% tra gli over 50 — dichiara di averne avuti meno rispetto alle proprie intenzioni.

Come sottolinea Elena Ambrosetti, demografa e ordinaria di Demografia dell’Università La Sapienza di Roma, «La nostra società fatica ad adattarsi ai cambiamenti. Abbiamo una visione semplicistica del mondo: sovrappopolazione da una parte, denatalità dall’altra. Ma la realtà è più complessa e segnata da profonde disuguaglianze». A livello globale, convivono infatti situazioni di gravidanze indesiderate e difficoltà ad avere figli, spesso all’interno delle stesse società o addirittura delle stesse persone nell’arco della vita.

In Italia, il tema si intreccia con un lungo processo di transizione demografica. Il tasso di fecondità è passato da 1,42 figli per donna nel 2008 a 1,2 nel 2023. Se un tempo il problema era la difficoltà ad avere figli per ragioni economiche, oggi si sommano fattori culturali e sociali. Come evidenziato dalla ricercatrice Francesca Luppi, demografa e ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nelle economie avanzate sta avvenendo un cambiamento generazionale nelle preferenze: i dati del Rapporto Giovani 2024 dell’Istituto Toniolo dicono che dal 2012 al 2022 la quota di giovani tra i 18 e i 34 anni che dichiarano di voler almeno un figlio è scesa dal 95% all’85%, e che è cresciuta la percentuale di chi si dichiara esplicitamente childfree (15% nel 2022), con un’incidenza maggiore tra le donne (18%) rispetto agli uomini (12%). 

Il fenomeno è accompagnato da un cambiamento nella percezione della realizzazione personale: nel 2021 il 40% dei giovani dichiarava di ritenere possibile sentirsi pienamente realizzato anche senza diventare genitore. Un dato superiore rispetto alla quota di chi afferma di non desiderare figli, e indicativo di un nuovo modo di interpretare il concetto di famiglia e successo individuale.

Tuttavia, il desiderio di genitorialità non è del tutto scomparso. Il modello della famiglia con due figli resta dominante tra chi esprime l’intenzione di diventare genitore. Ma anche in questo gruppo si osserva una riduzione del numero ideale di figli, soprattutto dopo la pandemia. La possibilità di realizzare tali progetti è fortemente condizionata da fattori esterni: per il 69,4% dei giovani, la situazione economica personale o del partner è decisiva, e per oltre il 53% lo è la stabilità lavorativa. 

A questi elementi si aggiungono le persistenti disuguaglianze di genere. Le donne italiane, secondo i dati EMiNC 2024, dedicano in media 12 ore al giorno tra cura e lavoro domestico, contro le 9-10 degli uomini. La carenza di servizi per l’infanzia, i congedi poco equi e una distribuzione diseguale delle responsabilità familiari pesano in modo significativo sulle scelte riproduttive, soprattutto per le donne.

Il rapporto State of Southern European Fathers 2024  evidenzia che anche i padri desiderano essere più presenti, ma incontrano ostacoli culturali ed economici. Il 53% rinuncia al congedo parentale per motivi economici e solo il 29% utilizza strumenti di flessibilità lavorativa. Si tratta di un problema strutturale, che riguarda non solo la famiglia, ma anche le imprese, le politiche e il sistema dei servizi.

Tra  le iniziative da menzionare a livello europeo c’è il progetto 4E PARENT – Equal, Engaged, Early, Empathetic, appena concluso, capeggiato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dove le quattro E stanno a indicare gli obiettivi stessi del progetto:  promuovere un modello di mascolinità accudente, attraverso il coinvolgimento attivo dei padri fin dal concepimento. Eva Benelli racconta che nonostante tutto il lavoro svolto, durante la discussione dell’ultima legge di Bilancio, la proposta di modifica dei congedi riservati ai papà non è passata: anzi, non è stata neanche discussa, rientrando tra gli emendamenti bocciati a priori.

Molte politiche demografiche si concentrano ancora sui numeri — bonus bebè, incentivi, assegni — ma senza rimuovere gli ostacoli concreti alla realizzazione dei progetti di vita. Come sottolinea la demografa Ambrosetti, «Serve un cambio di approccio: non incentivare la natalità a tutti i costi, ma garantire a tutti la libertà di scegliere».

Il confronto con la Francia proposto da Neodemos offre uno spunto utile per leggere le difficoltà italiane in chiave comparativa. Entrambi i Paesi hanno registrato un calo delle nascite: tra il 2010 e il 2023, la Francia ha perso circa 163.000 nascite annue scendendo a 640.000 mentre l’Italia 182.000 fermandosi a 380.000. Tuttavia la Francia mantiene un tasso di fecondità attorno a 1,7 figli per donna, mentre l’Italia è scesa a 1,2, senza aver mai superato stabilmente la soglia di 1,5 dagli anni ’80. Le donne francesi nate nel 1970 hanno avuto in media 2 figli, contro 1,49 delle italiane. Secondo questa analisi, le ragioni di queste differenze sono molteplici. Innanzitutto secondo i dati dell’Eurostat nel 2022 l’Italia ha dedicato alle politiche familiari e per i figli solo l’1,55% del proprio PIL contro il 2,23 della Francia, anche se questa differenza è stata ridotta in parte dall’introduzione dell’assegno unico. 

Questo divario aiuta a spiegare le differenti condizioni dei giovani nei due Paesi. Nel 2024, la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione (i cosiddetti NEET) è nettamente più alta in Italia rispetto alla Francia. Anche la situazione occupazionale evidenzia forti discrepanze: nel 2023, in Italia risultava occupato solo il 29,3% delle donne e il 39,7% degli uomini in quella fascia d’età, mentre in Francia le percentuali salivano rispettivamente al 47% e al 50,7%. Non solo i valori francesi sono decisamente superiori, ma mostrano anche un divario di genere più contenuto.

Un quadro simile emerge guardando agli inattivi: in Francia rappresentavano il 45,9% delle giovani donne e il 41% degli uomini, contro il 64,2% e il 52,9% in Italia. Le differenze sono ampie anche sul fronte dell’istruzione: tra le donne di 25-39 anni, il 36,5% delle italiane è laureata, contro il 54,9% delle francesi; tra gli uomini, le percentuali sono rispettivamente del 23,8% e del 46,5%.

Questi dati offrono un’immagine chiara della distanza che separa la condizione materiale dei giovani italiani da quella dei loro coetanei francesi. Leggendoli alla loro luce, la situazione italiana è la conseguenza diretta di una condizione giovanile che non è riuscita a tenere il passo delle trasformazioni della società.  Inoltre, in Italia prevale la trappola demografica, ovvero la bassa natalità porta a coorti sempre più ridotte di donne in età fertile. Questo fenomeno alimenta un circolo vizioso: con meno donne potenzialmente in grado di avere figli, anche qualora aumentasse la propensione alla maternità, l’effetto sui tassi di natalità complessivi sarebbe comunque limitato. In altre parole, diventa strutturalmente più difficile invertire la tendenza al declino demografico, poiché il “bacino” biologico della natalità si restringe sempre più. L’ultimo report ISTAT (marzo 2025) riporta infatti che  la popolazione femminile,  nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (15- 49 anni),  è passata da 14,3 milioni di unità al 1° gennaio 1995 a 11,4 milioni al 1° gennaio 2025.

Un altro fattore importate da considerare è che continua a crescere l’età media al parto, che si attesta a 32,6 anni (+0,1 in decimi di anno sul 2023): più si ritardano le scelte di maternità più si riduce l’arco temporale a disposizione delle potenziali madri per la realizzazione dei progetti familiari.

Gli interventi necessari per invertire queste tendenze devono mirare a migliorare sensibilmente condizione dei giovani attraverso politiche del lavoro e dell’istruzione innovative con un’attenzione particolare alle differenze di genere e geografiche. 
 I bonus una tantum non bastano. Occorrono politiche continuative che includano:

  • servizi per l’infanzia accessibili e capillari;
  • congedi parentali condivisi e ben retribuiti;
  • sostegno all’occupazione femminile;
  • educazione sessuale e accesso universale alla contraccezione.

A trent’anni dalla Conferenza del Cairo del 1994, che pose i diritti sessuali e riproduttivi al centro dello sviluppo, i progressi sono stati significativi: diminuzione della mortalità materna, maggiore accesso alla contraccezione, riduzione delle gravidanze indesiderate e ampliamento delle leggi contro la violenza domestica. Tuttavia, rimangono profonde disparità, soprattutto per le donne in condizioni socioeconomiche svantaggiate, per le persone LGBTQIA+, con disabilità o anziane.

Il bilancio tracciato nel rapporto UNFPA 2024 invita a non abbassare la guardia. Investire nella salute e nei diritti riproduttivi — conclude il documento — non è solo una questione di giustizia sociale, ma una condizione necessaria per costruire società inclusive, resilienti e capaci di affrontare le sfide del futuro.