Il nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI), definito ad aprile 2025 e recentemente pubblicato dal Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud, ha riaperto il dibattito sul destino dei piccoli comuni italiani. Il documento aggiorna la strategia avviata nel 2014 per contrastare lo spopolamento e introduce una novità controversa: l’ipotesi di “spopolamento irreversibile” per una parte significativa del territorio nazionale. Si tratta di aree in cui il declino demografico accelerato, l’invecchiamento della popolazione e la rarefazione dei servizi fanno ritenere molto improbabile una ripresa insediativa.
La formulazione ha suscitato critiche da parte di ricercatori, amministratori e attivisti, che ne contestano sia l’impostazione che le conseguenze. L’Unione Nazionale dei Comuni Montani (UNCEM) ha chiesto di rimuovere la formula, temendo che possa diventare uno strumento per giustificare inattività o abbandono da parte delle amministrazioni. A giugno, oltre 150 soggetti, tra cui docenti universitari, sindaci, urbanisti e operatori culturali, hanno sottoscritto un appello pubblico contro la logica dell’“irreversibilità”, che a loro avviso equivale a «un accompagnamento alla buona morte, un’eutanasia». I firmatari chiedono una revisione del Piano, invitano i Consigli comunali a pronunciarsi in merito e offrono collaborazione per costruire strategie concrete di rilancio.
Il PSNAI affronta il tema demografico suddividendo il territorio in quattro scenari: aree dove è ancora possibile invertire la tendenza allo spopolamento; zone in cui si può stabilizzare la natalità; altre in cui si può solo rallentare la decrescita; e infine territori da accompagnare in un declino considerato irreversibile. Secondo le ultime proiezioni ISTAT, oltre l’82% dei comuni delle aree interne perderà popolazione entro il 2043, con picchi del 93% nel Mezzogiorno. Nel solo 2024, sono 358 i comuni italiani a zero nascite, concentrati quasi esclusivamente nelle aree interne del Paese. Nei comuni ultraperiferici, inoltre, il rapporto tra over 65 e under 15 è di circa 2,5 a 1. Si tratta di territori a forte squilibrio demografico e con servizi minimi in contrazione: è a questi che il Piano sembra applicare l’etichetta più drastica.
Per sostenere le strategie territoriali, il Piano prevede una dotazione ulteriore di 310 milioni di euro, integrabili con risorse del PNRR, fondi europei e cofinanziamenti regionali. Ogni area selezionata potrà attivare interventi nei settori di sanità, scuola e mobilità.
«Il problema talvolta non sono le risorse, ma la capacità di spenderle», osserva Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e promotore della legge 158/2017 sui piccoli comuni. «Oggi ci sono più di due miliardi di euro stanziati per realizzare comunità energetiche rinnovabili nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Ma il rischio fortissimo è che quei soldi non vengano impiegati, perché l’impianto burocratico e legislativo è troppo farraginoso». Per affrontare la crisi dello spopolamento, aggiunge Realacci, bisogna cambiare prospettiva. «C’è una bellissima frase di Proust: un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi. Il problema è che troppo spesso questi territori vengono guardati con l’occhio languido del coccodrillo. Si dice ‘poverini’, e si dà per scontato che il loro destino sia il declino».
Le aree interne, inoltre, rappresentano nella loro interezza un polo strategico, oltre che un prezioso capitale culturale e produttivo: «Il 92% delle DOP e IGP italiane ha a che fare con i piccoli comuni, così come il 70% dei grandi vini. Se lasciamo che questi territori si svuotino, perdiamo una delle colonne portanti del Made in Italy», prosegue Realacci. Questo accade anche con la manifattura. A Belforte del Chienti, paese di circa 1.800 abitanti nell’area del cratere delle Marche, «Ha sede la Nuova Simonelli, la Ferrari delle macchine da caffè industriali. Esportano in tutto il mondo il 90% della produzione e sostengono il territorio: asilo, cultura, sport, campus di ricerca».
Definire alcuni territori come “non recuperabili” comporta rischi anche ambientali. Secondo ISPRA, il 94% dei comuni italiani è soggetto a pericolosità da frane, alluvioni o erosione costiera, e nelle aree interne il livello di rischio è spesso più elevato: la pericolosità da frana è pari al 10,9%, contro il 5,6% dei comuni urbani. Senza presidio umano, la gestione del suolo diventa impossibile. L’abbandono progressivo di interi comprensori può infatti comportare conseguenze dirette sulla capacità di prevenire e affrontare eventi estremi.
Lo stesso vale per i boschi. UNCEM, nel 2024, ha chiesto al Ministero dell’Agricoltura di sbloccare 40 milioni di euro già stanziati per la prevenzione degli incendi boschivi nelle aree interne. A preoccupare non è la superficie boschiva in crescita, ma la mancanza di gestione attiva: tratti inaccessibili, non curati, che non producono reddito né sicurezza. «L’Italia importa l’80% del legno vergine per l’industria dell’arredo, pur avendo un patrimonio forestale in crescita», appunta Realacci. «In Finlandia oggi esistono migliaia di cooperative che gestiscono i boschi in equilibrio. Tagliano quanto ricresce. Questa è un’esperienza da prendere a riferimento».
Peraltro, i segnali di inversione non mancano. Il Rapporto Montagne 2025, pubblicato da Rubbettino, parla di un saldo migratorio positivo di circa 60mila persone nel biennio 2022-2023, soprattutto nelle aree montane italiane del Nord e del Centro. Un dato che suggerisce come la montagna continui ad attrarre famiglie, lavoratori e pensionati, in forma temporanea o stabile, soprattutto dove esistono condizioni minime di abitabilità, reti civiche e servizi essenziali.
Sono diversi i luoghi, dati per spopolati e privi di prospettive, che hanno avviato percorsi di rigenerazione. Alcuni hanno ricostruito servizi, attivato reti sociali e creato nuove economie, dimostrando che anche nei territori più fragili è possibile invertire la tendenza. È il caso di Ostana, borgo delle Valli Occitane in provincia di Cuneo, passato da cinque abitanti negli anni Settanta a oltre 80 residenti stabili. La ripresa è frutto di una strategia di lungo periodo basata su architettura sostenibile, servizi essenziali, banda larga e un’offerta culturale continua. Ostana è oggi uno dei comuni simbolo della rigenerazione alpina, anche a livello europeo.
Un’altra esperienza significativa è quella di Castel del Giudice, in Alto Molise, dove l’amministrazione ha promosso un piano integrato che ha portato alla realizzazione di: una RSA di comunità ricavata nell’ex scuola, che oggi impiega decine di persone; un meleto biologico collettivo avviato su terreni incolti; un albergo diffuso, Borgotufi, nato dal recupero di abitazioni abbandonate, e un laboratorio di formazione dedicato al paesaggio, alla forestazione e allo sviluppo sostenibile. Più che sulla crescita demografica, il progetto ha puntato sulla riattivazione delle funzioni locali e sulla costruzione di una nuova economia di prossimità. Un piano che si è rivelato vincente.
Più mediatica ma meno strutturale è invece la formula delle case a un euro, applicata in diversi borghi italiani. A Fabbriche di Vergemoli, in Toscana, il progetto ha raccolto oltre 140 richieste, molte da famiglie di ritorno dall’estero, trasformando gli edifici abbandonati in alloggi per famiglie e turisti, e investendo nella promozione del paese. «È una buona iniziativa, ma spesso non è la casa il problema, è tutto ciò che manca intorno: lavoro, scuola, connessioni, trasporti. Senza un ecosistema di servizi, è difficile invertire una tendenza strutturale», avverte Cecilia Tomassini, ordinaria di demografia all’Università del Molise. «Un buon indicatore su cui puntare è, per esempio, il lavoro femminile, che oltre a favorire condizioni di equità crea le condizioni per mettere radici, e per considerare la genitorialità come un progetto possibile».
Secondo Tomassini, le dinamiche insediative nelle aree interne richiedono strumenti di lettura più accurati e strategie costruite dal basso. Gli interventi di ripopolamento, racconta, devono partire dai bisogni specifici di ciascun territorio. «Le aree interne non sono tutte uguali. Neppure dentro una stessa regione. Le risposte devono essere costruite su misura, a partire da ciò che serve davvero in ogni contesto». Per accompagnare l’invecchiamento della popolazione residente nelle aree interne, in particolare quelle periferiche e ultraperiferiche, l’Università del Molise coordina il progetto Age-it, finanziato dal PNRR, che sperimenta soluzioni di telemedicina, monitoraggio remoto dei parametri vitali, e assistenza di comunità.
Tra gli strumenti più efficaci per rafforzare la tenuta dei territori soggetti a spopolamento, Tomassini indica soprattutto l’aggregazione tra comuni, che sembra mancare nel Piano SNAI. «Ragionare da soli è complicato. Con budget limitati, mettere insieme le forze è una delle poche mosse intelligenti che i comuni possono fare per restare vivi».
Una strategia già adottata nell’Alta Sabina, dove un gruppo di piccoli comuni ha firmato un patto anti-spopolamento, unendo forze e risorse per gestire insieme servizi, infrastrutture e iniziative di valorizzazione del territorio. La logica trova riscontro anche nell’esperienza di Vittorio Demicheli, ex dirigente sanitario e oggi vicesindaco di Cabella Ligure, comune montano con meno di 500 abitanti: «Qui in tutta la valle non c’è neanche più un medico. Se uno deve rifare una ricetta e non è abile con l’e-mail, deve fare 30 chilometri», racconta. Le soluzioni proposte, dalla telemedicina all’infermiere di comunità, restano spesso sulla carta, per mancanza di risorse o compatibilità con l’organizzazione sanitaria. «Il nostro unico messo comunale, da settembre a giugno, si occupa quasi esclusivamente di portare i bambini in età scolare dalla frazione al capoluogo», prosegue. In un contesto segnato da frane che isolano i paesi, linee telefoniche che saltano per giorni, banda larga ancora assente, la vera forma di resistenza sembra essere l’unione: «Già da tempo qui riusciamo a tenere aperta una scuola solo avendo costituito un unico plesso scolastico che raccoglie una decina di comuni», conclude. «Da soli, nessuno ce l’avrebbe fatta».