Che impatto avrà nella lotta alla violenza di genere e al contrasto dei femminicidi l’introduzione del reato penale di femminicidio approvato recentemente e all’unanimità dal Senato nel disegno di legge 1433? Siamo di fronte a un passo in avanti o, come direbbe Catharine MacKinnon, a una strategia storicamente determinata di contrasto ai retaggi patriarcali senza contrastarli realmente?
Il femminicidio descrive un fenomeno fondato su una solida struttura sociale che trae la sua spinta propulsiva dalla sovrastruttura sociale di genere, che è una struttura oppressiva comune alla maggioranza delle società. Come avevamo spiegato anche qui, il femminicidio denuncia e descrive il legame tra la singola condotta “femminicidiaria” e la struttura sociale patriarcale oppressiva che l’ha generata. Che si tratti di una condotta strutturale è dimostrato dalla perpetrazione nel tempo di condotte analoghe compiute da diversi e lontani soggetti, non correlate le une alle altre ma realizzate con continuità, seguendo sempre lo stesso schema culturale e comportamentale.
La bozza del testo di legge pubblicizzata a marzo era stata ritenuta da diverse giuriste e dai movimenti transfemministi molto fumosa e problematica e nei lavori delle Commissioni è stata quindi modificata nella parte iniziale, resa più stringente nell’indicare la fattispecie di reato. Il testo di legge approvato al Senato è il frutto di un compromesso, di un lavoro svolto congiuntamente, non senza conflitti, tra maggioranza e opposizione. Questo per alcuni punti di vista rappresenta già un dato positivo della legge: lo stesso presidente del Senato ha affermato che si tratta di un «risultato di grande valore che dimostra come su temi fondamentali le istituzioni sappiano andare oltre l’appartenenza politica».
Non è dello stesso avviso la senatrice Ilaria Cucchi, secondo la quale «i buoni presupposti che si erano creati in Commissione Giustizia sono stati disattesi; la promessa di un lavoro comune totalmente mancata».
Ma al di là delle dichiarazioni politiche è importante entrare nel merito del testo di legge e leggerlo alla luce del contesto sociale nel quale andrà a operare e di altri provvedimenti a esso collegati per poterne comprendere la effettiva portata.
Niente posto nelle case rifugio
Se leggiamo e mettiamo a confronto i dati e i report di molte istituzioni riusciamo a capire che il femminicidio e la violenza di genere sono un’emergenza nazionale. L’abbassamento dell’età anagrafica delle vittime e di chi commette il reato di femminicidio è un dato allarmante; la violenza sessuale e psicologica è in aumento. Le risposte culturali e sociali che lo Stato italiano ha messo in campo sono insufficienti e per molti aspetti non intervengono a livello strutturale come invece dovrebbero.
Prendiamo il caso dei Centri anti violenza, che sono uno strumento politico, culturale e sociale fondamentale nella lotta alla violenza di genere e ai femminicidi. Il rapporto riferito al 2024 di D.i.Re, una rete di centri anti violenza, fornisce una fotografia reale sulle dimensioni della violenza di genere in Italia. Nel 2024 i centri della rete hanno accolto complessivamente 23.851 donne, rispetto alle 23.085 nel 2023, con un aumento di 800 casi circa e un trend in crescita per donne straniere anche senza documenti. Oggi in Italia non si hanno posti letto nelle case rifugio per accogliere tutte le persone che ne hanno bisogno, neanche ricorrendo alla supplenza delle case rifugio non istituzionali.
Il lavoro nei Centri si svolge principalmente grazie al volontariato, viste le risorse economiche ancora insufficienti nonostante si registrino ogni anno scostamenti positivi. Ci si aspetterebbe che un testo di legge che si prefigge di contrastare la violenza dedicasse attenzione a questo aspetto. E invece come vedremo non è così.
Inoltre, il contesto in cui spiegherà i suoi effetti l’introduzione del reato penale di femminicidio è molto più articolato e troppo complesso per poter essere affrontato ogni volta, in ogni singola aula di un tribunale, come accade per ogni reato penale. La punibilità è cosa diversa dalla prevenzione e dalla trasformazione delle condizioni che agiscono sul perpetuarsi del fenomeno del femminicidio. L’articolo 577 bis da introdurre nel codice penale, così come da formulazione, punisce con la massima pena chiunque provochi la morte di una donna, attraverso «atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna, ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna».
Uno degli aspetti più discussi della legge riguarda proprio l’introduzione formale del femminicidio nel corpus dell’ordinamento giuridico. Il dibattito che ne è scaturito è estremamente articolato e in questa sede ne affronteremo solo alcuni aspetti.
Basta il nome?
Se nominare un fenomeno significa conferirgli un’identità, un significato inequivocabile, permettendo di riconoscerlo, comprenderlo e farlo esistere allora dovrebbe essere considerato positivamente il fatto che nel nostro paese il femminicidio sia stato definito e reso reale dentro la legislazione e che nel farlo vi sia una inequivocabile marcatura negativa di reato. Perché dunque il consenso non è unanime? Per dare una risposta che tenga conto della complessità del fenomeno possiamo pensare al percorso del reato di stupro. Solo nel 1996 diviene reato contro la libertà personale con l’introduzione dell’art 609-bis nel Codice penale italiano. Prima di questo passaggio lo stupro era considerato un delitto contro la morale; era addirittura permesso il cosiddetto matrimonio riparatore a seguito della violenza perché il codice penale non solo non era neutro, ma scritto a vantaggio di una società maschile e patriarcale ed era entrato in vigore in pieno regime fascista.
Questo passaggio giuridico sostanziale fu il frutto di una grande mobilitazione dei movimenti femministi, delle giuriste e delle avvocate. Fu un fatto epocale anche se tardivo, perché la rivoluzione culturale ebbe inizio nel 1965 con la storica vicenda di Franca Viola, che rifiutò di sposare il suo stupratore. Un grande spartiacque può essere collocato nel 1975 con il massacro del Circeo che determinò nella grande maggioranza dell’opinione pubblica italiana un’ondata d’indignazione che portò nelle piazze donne di ogni età e anche uomini per pretendere una inversione radicale nella comprensione e nella lotta alla violenza sessuale nella società e nel diritto.
Lo stupro come pratica e come reato è stato sconfitto? La risposta è no: secondo una ricerca promossa dalle istituzioni europee, infatti, il 18% delle donne italiane, quasi 1 su 4, dichiara di aver subito violenza sessuale, mentre il 12,9% di aver subito una violenza non sessuale, tanto da arrivare al 25,9% se si tiene conto della violenza psicologica.
Questo ragionamento può valere anche per il reato di femminicidio, ovverosia è importante il suo riconoscimento, ma senza una strategia più ampia è un atto politico attraverso l’uso, o l’abuso per alcuni, del diritto penale. Per Paola Di Nicola Travaglini, giudice di Corte di Cassazione, «a fronte dei diritti di carta delle donne esistono obblighi effettivi e sostanziali dello Stato di attivare azioni positive per garantirli». Per cui assumere una prospettiva di genere implica «dare un corpo sessuato ai protagonisti della vicenda giuridica» e per questo, introdurre nel codice penale la tipizzazione del delitto di femminicidio significa «per la prima volta nella storia giuridica del nostro paese rendere visibile la violenza contro le donne e il contesto su cui si consuma, non più celata dietro termini neutri». Di Nicola Travaglini sostiene dunque che i femminicidi non diminuiranno dando loro un nome e un riconoscimento specifico nel codice penale, ma in questo modo esisteranno: «Quando si nomina si pensa e, dunque, si costruiscono le categorie indispensabili per prevenire».
Questa posizione non è condivisa da una parte delle giuriste italiane, e neanche dai movimenti transfemministi, per i quali la strategia più adatta non è l’introduzione di una nuova fattispecie di reato, ma una strategia di prevenzione a medio e lungo termine che ragioni sull’insieme delle pratiche sociali, politiche, pubbliche e istituzionali che di fatto giustificano o favoriscono la violenza maschile. Secondo questo approccio, insomma, si deve partire dall’inizio e non dalla fine: non dalla pena, ma dall’educazione e da una trasformazione sociale.
Secondo questa impostazione, la tecnica legislativa che è sempre stata utilizzata allo scopo è quella di descrivere tali fattispecie senza fare alcun riferimento al movente di genere né al contesto di violenza di genere nel quale l’omicidio è maturato. La principale motivazione posta alla base delle critiche, provenienti dalla maggioranza della dottrina penalistica, riguarda la scelta di non nominare la violenza di genere in quanto tale per evitare di stigmatizzare espressamente la sovrastruttura sociale di genere. Si finisce così nel “fallire” non riuscendo a dare copertura a tutti i casi di omicidi di donne per motivazioni di genere, perché ne restano fuori per esempio i casi di omicidi per ragioni di misoginia e transfobia.
È a partire da questo contesto che occorre interrogarsi sull’opportunità di introdurre nell’ordinamento italiano, sull’esempio delle legislazioni latinoamericane, una fattispecie ad hoc di femminicidio, ossia di uccisione di una donna per mano di un uomo in un contesto di genere o con un movente di genere. L’introduzione di un’incriminazione ad hoc del reato di femminicidio può quindi avere senso solo se sorretta da un approccio radicalmente inverso a quello simbolico-nominale.
In Europa tra i paesi che hanno già legiferato contro i femminicidi ci sono Croazia, Cipro e Malta; altri, come Grecia, Serbia, Austria, Germania e Francia non sono ancora intervenuti con un riconoscimento legale vero e proprio. Su questo tema, i Paesi europei vanno in ordine sparso ma il quadro di riferimento è unico, quello della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul.
Diversi paesi del Sudamerica, quali Messico, Costa Rica, Guatemala, Cile, El Salvador, Perù, Nicaragua, Bolivia hanno introdotto il reato di femminicidio. Tra questi, fino a qualche tempo fa, c’era anche l’Argentina ma il Presidente Milei, grande alleato e sponsor del governo italiano, ha deciso di eliminarlo dal codice penale annunciandolo al Forum economico mondiale di Davos di gennaio 2025, sostenendo che «l’uguaglianza tra i sessi è parte della legislazione occidentale, il resto sono privilegi».
In nessun paese l’introduzione del reato ha determinato una diminuzione del numero dei casi di femminicidio o di violenza. Questo elemento da una parte dipende dalla diversità di rilevazione dei dati, dalla cultura sociale del paese che determina fortemente la volontà di denunciare da parte delle persone vittime di violenza e da un’altra dal fatto che un fenomeno sistemico globale ha bisogno di una strategia articolata per essere combattuto.
Ma i soldi non ci sono
Per dare un ulteriore elemento di valutazione alla reale portata di questo disegno di legge occorre leggerlo in combinato disposto con altri provvedimenti: il bilancio dello stato e le risorse allocate sul tema e la strategia della prevenzione. I resoconti e i pareri della V Commissione permanente “Programmazione Economica e Bilancio” dimostrano che la lotta al femminicidio e alla violenza deve essere attuata secondo il principio di invarianza finanziaria a carico dello Stato, vale a dire senza alcuna previsione di risorse economiche. All’ art. 14 del disegno di legge possiamo leggere: «Salvo quanto previsto dagli articoli 4,11 e 12, dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni competenti provvedono agli adempimenti ivi previsti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente».
Se il perimetro di azione rimane l’invarianza finanziaria, cioè nessuna risorsa aggiuntiva destinata a rafforzare gli strumenti di contrasto alla violenza di genere, significa che si tratta di un’operazione monca. Per contrastare un fenomeno culturale radicato e trasversale servono interventi più strutturali, possibili solo con lo stanziamento di fondi. Senza risorse, per esempio, per la formazione oramai obbligatoria degli operatori di Giustizia o nelle scuole, la protezione e la prevenzione saranno impossibili da praticare.
Sulla formazione obbligatoria per il personale della Giustizia e dei magistrati, il disegno di legge all’art.8 sul rafforzamento degli obblighi formativi in materia di contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica dice espressamente: «Tale formazione si svolge in sede nazionale e decentrata, è curata da esperti di comprovata e documentata conoscenza delle materie, inseriti nell’albo tenuto dalla Scuola superiore della magistratura». Significa che la formazione sarà gestita e programmata dalla Scuola superiore della Magistratura con le risorse umane ed economiche di cui dispone. Se un elemento cruciale come questo non si accompagna a nessuna risorsa aggiuntiva, come non leggervi una mancata volontà di investire realmente sul contrasto ai femminicidi?
E questo è ancora più stridente se si considera il rating dell’Italia nelle classifiche sui processi per vittimizzazione terziaria, cioè il mancato riconoscimento di giustizia anche dal punto di vista della rappresentazione sociale della violenza. La chiamiamo terziaria perché se la secondaria tende a esporre la donna come potenzialmente corresponsabile della violenza subita (“voleva lasciarlo”, “era ubriaca”, “aveva un amante…”) con la terziaria si completa l’opera omettendo di specificare il colpevole, o attenuandone l’atteggiamento, la volontà, il carattere: “era tanto una brava persona”, “un gigante buono”, “un uomo mite, tutto casa e lavoro… Una vera e propria chiamata di correità su base semantica che finisce col sottrarre giustizia oltre che empatia alla donna vittima di violenza, prima ancora che si arrivi a sentenza. Anzi, è in questo clima culturale – che la rappresenta socialmente più vicina all’idealtipo del colpevole che a quello della vittima – che dovrà affrontare poi il già di per sé doloroso processo.
Nelle scuole è anche peggio
Sulla prevenzione realizzata attraverso programmi nelle scuole non solo non vi è nessuna risorsa a bilancio ma dalla lettura del disegno di legge del ministro Valditara sul consenso informato preventivo emerge il contrasto del governo ai programmi di educazione sesso-affettiva nelle scuole. Addirittura all’infanzia e alla primaria saranno vietati, rimandando a quanto contenuto nelle Nuove Indicazioni nazionali che parlano di una generica educazione di rispetto per la donna. Anche il protocollo firmato con la Fondazione Cecchettin in merito alla formazione delle persone studenti sui temi del contrasto e della prevenzione alla violenza di genere risente di un perimetro ristretto e ha suscitato qualche malumore.
«C’è tanta demagogia in questa operazione di facciata. Sappiamo che l’inasprimento delle pene non agisce come contrasto, la prevenzione lo fa. Vogliamo l’educazione già dalla prima infanzia, ma su questo il governo si oppone», commenta Cristina Carelli, presidente di D.i.Re.
Sono state invece individuate risorse per gli aiuti agli orfani di femminicidio: la legge stanzia per loro 10 milioni di euro. Ma soprattutto allarga la platea: gli aiuti varranno per tutti i minori privati della madre se uccisa in quanto donna, anche se l’omicida non aveva un legame affettivo con lei, né al momento né prima del fatto. E anche per i figli di donne sopravvissute a tentativi di femminicidio, ma rimaste gravemente compromesse tanto da non poter più prendersi cura dei figli.
Tuttavia, polemica di questi giorni è la notizia che le già inadeguate risorse economiche allocate sulla lotta ai femminicidi verranno intaccate per finanziare le olimpiadi invernali di Cortina 2026. Il prelievo riguarderà proprio il fondo destinato ai figli orfani di femminicidio appena votato al Senato, insieme ai fondi destinati alle vittime usura e racket.
La discrepanza tra assenza di risorse per formazione e prevenzione e risorse per assistenza rimane, però, e tradisce la posizione ideologica dentro cui questo governo concepisce la sua strategia di contrasto alla violenza. Non da ultimo il fatto che tutto il nuovo impianto normativo riguarda solo le donne nate donne alla nascita, cioè esclude tutte le altre soggettività che sono vittime di violenza di genere, omolesbobitransfobica, patriarcale, strutturale e sistemica nel nostro paese. Il nuovo disegno di legge appena approdato alla Camera ha dunque molti aspetti su cui dovrà essere valutato.