Pubblicato il 08/09/2025Tempo di lettura: 7 mins
La vicenda della composizione del Nitag ha avuto un involontario merito: quello di sollevare il problema del rapporto tra scienza e sanità pubblica nel nostro Paese. Non a caso ben tre interventi su Scienza in rete hanno già affrontato la questione: quello di Stefania Salmaso, quello di Stefano Cagliano e quello di Maurizio Bonati. Sulla composizione del Nitag si sono scontrati il punto di vista della politica attenta alla presenza nel Nitag di tutte le possibili voci (comprese quelle più vicine ad alcune posizioni governative diffidenti nei confronti delle politiche vaccinali e più lontane da un approccio scientifico) e quello di chi è convinto, come scrive Bonati, che «Essere tecnico non è sufficiente per garantire appropriatezza (o competenza) se non si utilizza un approccio metodologico scientifico condiviso e di riferimento (quello delle evidenze in ambito medico)».
Il forte dibattito che si è acceso sull’argomento mi ha colpito, perché ci sono molti altri segnali di altrettanta o addirittura maggiore gravità che testimoniano della scarsa visione di sanità pubblica non solo del ministro e del governo in carica, ma di gran parte dell’intero sistema dentro e attorno al Servizio sanitario nazionale (SSN), un sistema che coinvolge anche le università, i centri studi, i sindacati, gli ordini professionali e i media fino ad arrivare ai cittadini. Segnali però che non ricevono attenzione. Farò un esempio tra i tanti possibili: il rapporto ospedale-territorio.
È necessario a questo punto un tentativo di (ri)definire il significato del termine “sanità pubblica”. Della sanità pubblica circola una vecchia definizione attribuita universalmente a Charles-Edward Amory Winslow, batteriologo, che fondò nel 1915 il Dipartimento di Salute Pubblica della Yale Medical School, di cui fu presidente fino al suo pensionamento nel 1945. Winslow diede questa definizione in un articolo su Science pubblicato nel 1920: «La sanità pubblica è la scienza e l’arte di prevenire le malattie, prolungare la vita e promuovere la salute e l’efficienza fisica per il risanamento dell’ambiente, il controllo delle infezioni comunitarie, l’educazione degli individui sui principi dell’igiene universale, l’organizzazione dei servizi medici e infermieristici per la diagnosi tempestiva e il trattamento preventivo delle malattie e lo sviluppo di una macchina (machinery) sociale che assicuri a ogni persona nella sua comunità uno standard di vita adeguato per il mantenimento della sua salute». L’articolo di Winslow puntava sin dal titolo (I campi incolti della sanità pubblica) ad allargare i confini della sanità pubblica come scienza e arte.
È evidente che oggi la definizione di sanità pubblica andrebbe rivista adattandola sia a un mondo profondamente cambiato che alle singole realtà nazionali e regionali. Non mi azzarderò a tentare questo adattamento alle esigenze attuali del nostro SSN, ma su alcune questioni sento di potermi sbilanciare. L’approccio di sanità pubblica nel nostro paese, e quindi il funzionamento del SSN, oggi dovrebbe tenere conto per esempio delle profonde modifiche del quadro epidemiologico e dell’evoluzione demografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione e il contestuale aumento del peso della cronicità, dell’esistenza di forti vincoli in termini di risorse sia economiche sia di personale e della necessità di scegliere politicamente tra le diverse opportunità di intervento quanto più possibile in base ad analisi tecniche fondate su prove. Navigare questa complessità richiede che la scienza e l’arte della sanità pubblica siano altamente interdisciplinari per la molteplicità dei fattori in gioco e coltivino sempre nuovi campi, per riprendere l’espressione contenuta nel titolo dell’articolo di Winslow. Possiamo tornare così all’esempio dell’equilibrio ospedale-territorio.
Fare la storia degli ospedali in Italia sarebbe utile, ma è troppo ingombrante in questa sede. Ci si può limitare ad alcune considerazioni di sintesi. Nella pratica totalità delle Regioni ci si è confrontati con una storia di reti ospedaliere frammentate, con strutture per dimensioni e organizzazione inadeguate agli standard ospedalieri ritenuti necessari per garantire efficacia e sicurezza. Allo stesso tempo è emersa la necessità di trasferire quanto più possibile la risposta ai bisogni della popolazione anziana e delle persone con condizioni croniche al livello territoriale, e quindi domiciliare e residenziale. Queste linee di tendenza hanno portato nel 2015 al Decreto Ministeriale 70, che ha fornito i riferimenti necessari per una razionalizzazione delle reti ospedaliere pubbliche e private, premessa indispensabile per un investimento nell’assistenza territoriale ritenuta universalmente più adatta alla gestione della cronicità. Sottolineo questo collegamento perché un difetto diffuso nel dibattito sulla crisi del nostro SSN è quello di ragionare per silos, come testimoniato dalle frequenti dichiarazioni di chi chiede o promette un incremento percentuale della spesa per un settore (tipici esempi sono quelli della salute mentale e della prevenzione, per i quali si richiede o promette di solito il 5% della spesa) senza tenere conto che se aumenti una percentuale ne devi diminuire proporzionalmente un’altra. Discorso che non vale solo per la spesa ma anche per il personale.
Nel 2016 è uscito il Piano Nazionale della Cronicità, che poneva le basi per un trasferimento nella sanità pubblica italiana del Chronic Care Model, un modello già vecchio di decenni che prevede un approccio alla cronicità proattivo, interprofessionale e di comunità. In sostanza quel piano costituiva la base ideologica prima della Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e poi del Decreto Ministeriale 77 del 2022, che definisce gli standard organizzativi di riferimento dei servizi territoriali e quindi delle Case della Comunità, degli Ospedali di Comunità, delle Centrali Operative Territoriali, degli infermieri di famiglia e di comunità e della telemedicina.
Nonostante il DM 70 prevedesse una serie di principi organizzativi tecnico-scientifici nella riorganizzazione delle reti ospedaliere (dando valore per esempio ai volumi adeguati di attività come prerequisito di un’assistenza sicura ed efficace o l’adozione del modello hub and spoke per le reti cliniche), è stato ampiamente disatteso dalla grande maggioranza delle Regioni, anche per un progressivo indebolimento del livello di controllo centrale sulla sua applicazione, con un’ovvia ricaduta sulle strutture previste dal DM 77 rimaste in larga misura sulla carta nella stragrande maggioranza delle Regioni (ricordiamoci dei silos). Al report di monitoraggio sullo stato di applicazione di questo Decreto dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, aggiornato al secondo semestre 2024, risultavano infatti pienamente operative solo 46 Case della Comunità sulle 1717 programmate. Il combinato disposto della mancata applicazione dei due decreti influisce verosimilmente in modo negativo sulle due più grandi criticità percepite dei cittadini in tema di salute, cioè le liste di attesa per la specialistica e l’intasamento dei Pronto Soccorso, compreso il fenomeno del cosiddetto boarding, l’affollamento dei pazienti in attesa di ricovero.
Su questo tema cruciale del rapporto tra ospedale e territorio all’interno del SSN i contributi scientifici sono stati pochissimi e quando il Ministero due anni fa ha nominato una Commissione per la revisione dei DM 70 e 77 (che avrebbe dovuto auspicabilmente occuparsi anche della loro applicazione) è andata molto peggio che con il Nitag. Infatti, in una prima versione la Commissione è stata formata da 18 rappresentanti, tutti maschi e con una prevalenza di clinici universitari; per arrivare poi, dopo una levata di scudi meno clamorosa ma altrettanto energica di quella contro il Nitag, a una composizione prima di 52 e poi di 76 componenti che, come prevedibile, in due anni non ha prodotto nulla. Ma, e qui sta il punto, non è stata dedicata alcuna attenzione a livello né tecnico-scientifico né mediatico a questo vuoto su un tema che fa la differenza (ricordiamoci ancora una volta i silos). Certamente in un’ottica di sanità pubblica stiamo parlando di un tema dal peso molto superiore a quello della pur importantissima politica vaccinale.
Mi sono chiesto allora da cosa dipenda questo vuoto nella ricerca e nella pratica di sanità pubblica del nostro paese. Mi sono venuti in aiuto l’espressione contenuta nel titolo dell’articolo di Winslow citato all’inizio e un passaggio contenuto nel pure già citato articolo di Bonati, in cui a proposito della salute dei singoli e delle comunità si parla dell’importanza del «supporto di un lavoro di ricerca che si sviluppa in un territorio abitato non da “voci”, ma da evidenze di efficacia, sicurezza, costo e valore aggiunto». Ecco, molti temi di forte rilevanza organizzativa e programmatoria nella vita e nella crisi del nostro SSN corrispondono a campi ancora in larga misura incolti e a territori non abbastanza abitati della nostra sanità pubblica. Quello che ho rapidamente ricostruito per l’equilibrio ospedale-territorio vale anche per il ruolo della residenzialità per gli anziani (che è fuori sia dal DM 70 che dal DM 77), per la ridefinizione dei ruoli professionali (il cosiddetto task shifting) e per la risposta assistenziale organizzata alle demenze, solo per limitarmi ad alcuni dei temi a me più familiari. Tutti temi su cui a una carenza dell’attività di ricerca, corrisponde una carenza culturale sia dei professionisti che dei cittadini e della politica. Per cui concordo ancora con Bonati: abbiamo bisogno in sanità pubblica sia di più ricerca che di più health literacy a tutti i livelli, «in particolare per i politici che si interessano di sanità e per i sanitari che si interessano di politica, perché significa non solo sviluppare consapevolezza, competenze e partecipazione attiva dei cittadini per rafforzare il SSN, ma contrastare le disuguaglianze, create anche dalla non conoscenza».
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