Ero entrato da poco come studente nel laboratorio di Ematologia e Oncologia dell’Istituto Superiore di Sanità. Per la mia tesi di laurea sperimentale volevo lavorare con i geni, col DNA, con l’RNA… Sono stato fortunatissimo, sarei entrato nel mondo dei geni HOX, e da lì in quello dei tumori. E avrei fatto biologia molecolare, avrei sequenziato il DNA, avrei studiato i promotori dei geni, la loro regolazione, e la loro deregolazione nel cancro.
Ma, appena entrato, di cancro ovviamente sapevo poco e niente. Un giorno Luciano e Alessandra, i ricercatori esperti a cui facevo riferimento, parlavano davanti a un panino dell’ultimo concorso per un posto da ricercatore in laboratorio; l’argomento della prova scritta era stato uno molto caldo in quel momento, gli oncogeni. Parlavano di Myc, Myb, Src… Ovviamente partirono le mie domande. Mi raccontarono un po’ di questi geni strani che stavano in alcuni virus ma anche nel nostro genoma e provocavano il cancro, e mi diedero da leggere un articolo. Fu la prima volta che entrai in contatto con il lavoro e con il nome di David Baltimore e forse per questo mi rimase in testa più di tanti altri che avrei studiato in seguito.
Solo col tempo, con l’aumentare delle mie conoscenze, mi sarei reso conto di quanto il lavoro di David Baltimore sia stato enorme. E di come sia difficile oggi ricordarne in poche righe la figura professionale identificando i suoi meriti scientifici in un settore limitato. In più di 800 articoli pubblicati Baltimore ha studiato in maniera approfondita dal punto di vista sperimentale argomenti fondamentali per la biologia, dalla caratterizzazione dei virus, specialmente i virus oncogeni, alla loro biologia molecolare, le loro polimerasi, la loro capacità di interagire, di integrarsi, di interferire con le cellule che li ospitano. Ha studiato la capacità di quei virus di causare tumori, ha studiato in dettaglio il funzionamento di quelle cellule tumorali, come la produzione di immunoglobuline in cellule leucemiche infettate da quei virus, e da lì ha approfondito i suoi studi ai meccanismi molecolari di ricombinazione alla base della produzione degli anticorpi.
C’è, ovviamente, la scoperta, arrivata nel 1970 e condivisa con Howard Temin (con cui condividerà anche il premio Nobel nel 1975 insieme a Renato Dulbecco), della trascrittasi inversa nei virus a RNA (e quindi dei retrovirus), un enzima capace di produrre una molecola di DNA partendo da una di RNA, e di stravolgere così il dogma centrale della biologia molecolare, per cui l’informazione genetica passa dal DNA all’RNA alla proteina e non si torna indietro. Invece si torna anche indietro. Ma alla scoperta (fondamentale) della trascrittasi inversa ci arriva aprendo (assieme ad Howard Temin) la porta sul mondo degli oncogeni.
E di alcuni di essi Baltimore studierà in dettaglio anche la struttura genetica, spiegando in che modo dei geni assolutamente funzionali nella cellula sana si ritrovino a funzionare in modo anomalo e incontrollato nel tumore.
E poi negli anni ’80 arriva l’AIDS, e Baltimore si mette a studiare come funzionano i geni del virus HIV-1. E poi si interessa di un altro argomento fondamentale, l’infiammazione, con la caratterizzazione molecolare del suo principale fattore di controllo NF-kB…
Nel 1995, durante uno dei Keystone Symposia di biologia molecolare e cellulare di Cold Spring Harbor, si chiede quali saranno le prossime Big question cui rispondere, perché ormai tanto è stato fatto, ma da allora pubblicherà altri 300 articoli.
La cronologia e l’argomento delle sue pubblicazioni raccontano, a chi li sa leggere, di uno scienziato dotato sia di una grande capacità di scavare, di approfondire il suo argomento, sia di una grande curiosità e capacità di estendere il suo interesse a quello che scopriva man mano, durante il suo percorso.
Chi lo ha conosciuto lo descrive come un leader, una persona a cui fare riferimento; ha guidato laboratori e diretto centri di ricerca prestigiosi come il Whitehead Institute for Biomedical Research (che ha contribuito a fondare), il California Institute of Technology (Caltech) e la Rockefeller University.
Ma è stato anche uno scienziato attento ai risvolti etici di quella rivoluzione scientifica a cui stava partecipando: è stato uno degli organizzatori della Conferenza di Asilomar nel 1975, nella quale i ricercatori più attivi in quel momento nel mondo della biologia molecolare si fermarono per interrogarsi sulle possibili conseguenze di quello che stavano scoprendo e imparando a fare, ovvero lavorare col DNA, modificare, inserire e togliere geni, passarli da un organismo a un altro.
E prima di essere un ricercatore è stato un uomo impegnato umanamente e politicamente. In un’intervista straordinaria racconta di come, proprio mentre era impegnato a portare avanti l’esperimento con cui avrebbe dimostrato l’esistenza della trascrittasi inversa che gli avrebbe valso il Nobel, chiuse il suo laboratorio per protestare contro l’invasione della Cambogia da parte del suo governo («…it was a two-day experiment. I showed it was there. I stopped work for awhile to protest against the Cambodia Invasion, got back in the lab, finished the experiments, and published them. That was June 1970»)
Dalla sua enorme produzione io ho selezionato un brevissimo articolo, pubblicato nel 1987 su Cancer, la rivista della American Cancer Society, in cui David Baltimore spiega che nonostante l’enorme l’importanza della recente scoperta degli oncogeni nella biologia dei tumori, per vedere le conseguenze di quelle scoperte ci vorrà tempo.
E aveva ragione, ci è voluto molto tempo. Abbiamo passato decenni a sapere che ci sono questi geni attivi nei tumori, a scoprirne di nuovi, a capire cosa fanno e come funzionano. Oggi però iniziamo a saper produrre inibitori specifici per bloccarli e fermare la crescita del tumore, o ideare terapie a mRNA che trasformino quegli oncogeni da punti di forza del tumore al loro tallone d’Achille.
Il messaggio che leggiamo oggi, tanti anni dopo, in quell’articolo è che scoprire come funzionano le cose, come Baltimore ha fatto per tutta la sua vita da ricercatore, è fondamentale anche se in quel momento non siamo in grado di usare quella conoscenza. Qualcuno, tra qualche anno, forse saprà cosa fare con quello che stiamo scoprendo oggi.
Questa è la vera forza della ricerca.