Ospitare la trentesima conferenza Onu sul clima, la Cop30, in una città amazzonica – Belém, nello stato brasiliano di Pará – è un gesto politico potente: significa riconoscere che il futuro del pianeta si decide anche, e forse soprattutto, nelle regioni periferiche, tra i popoli e le culture non occidentali, negli ecosistemi ricchi di biodiversità, sulle sponde dei fiumi.

Non a caso questo vertice sul clima è stato presentato come la “Cop del popolo”: un’occasione per riportare al centro del dibattito mondiale la foresta più importante del pianeta e il ruolo dei Paesi del Sud globale nella transizione ecologica. Tuttavia, nei mesi e nelle settimane che hanno preceduto il negoziato, in programma dal 10 al 21 novembre, si è discusso molto di quanto questa Cop sia davvero inclusiva.

Belém è una città con un milione e mezzo di abitanti nel nord del Brasile, distante circa cento chilometri dall’oceano Atlantico. Non è una metropoli con infrastrutture adatte a ospitare grandi eventi internazionali. Per la Cop30 ci si aspettava un numero di partecipanti simile a quello di Cop28 a Dubai – circa 80 mila persone. Ne arriveranno poco più della metà, perché molti sono stati scoraggiati dalla mancanza di alloggi e dai costi inaccessibili delle poche strutture ricettive. «Rispetto ad altre Cop, qui non c’è una fascia di prezzi accessibile: l’offerta è minima e la domanda altissima», spiega Fermin Koop, direttore di Dialogue Earth, organizzazione no profit che cerca di fare informazione su questioni ambientali, valorizzando le voci locali del Sud del mondo.

Secondo un’inchiesta di O Globo, tra le principali testate brasiliane, i prezzi delle camere sono aumentati di oltre settanta volte rispetto allo scorso anno: stanze che costavano 12 euro a notte oggi ne costano 900, con punte di oltre tremila. Il governo brasiliano ha promesso due navi da crociera ormeggiate nel porto come soluzione tampone – ma sono lontane dal centro congressi e difficili da raggiungere. Secondo quanto raccontato dal Guardian, alcuni love motel di Belém sono stati riconvertiti in alloggi temporanei. La crisi degli alloggi ha colpito anche il mondo dell’informazione. Secondo il magazine online Latin American Journalism Review, molti reporter latinoamericani non potranno partecipare per mancanza di fondi o di posti letto.

«Molte redazioni non possono sostenere i costi», racconta Paula Díaz Levi, direttrice del centro studi Climate Tracker Latin America. «È un problema che riguarda l’intero Sud globale: anche quando siamo al centro dell’attenzione, ci tocca guardare da fuori». Anche per chi arriva dall’Europa la situazione può essere economicamente e logisticamente difficile, soprattutto per le piccole testate e i freelance: Materia Rinnovabile, giornale italiano che segue da anni i negoziati sul clima, questa volta non manderà redattori alla Cop.

E non è solo una questione pratica: la logistica, qui, diventa un problema politico. Se per una ong amazzonica, una delegazione insulare o una redazione indipendente il costo medio giornaliero è proibitivo, la Cop che avrebbe dovuto dare voce alla diversità rischia di trasformarsi nella più esclusiva di sempre. L’Observatório do Clima – la più grande rete di associazioni e centri di ricerca che in Brasile si occupano di clima – ha denunciato l’eventualità di una conferenza riservata a chi può permetterselo.

Secondo diversi analisti, però, dietro la crisi logistica si nasconde un tema più profondo: il colonialismo interno che da sempre marginalizza l’Amazzonia nelle gerarchie economiche e politiche del Brasile. La scelta di Belém avrebbe potuto rovesciare questa geografia del potere e degli investimenti, ma il dibattito pubblico è deragliato sulla questione della “città inadeguata”, riattivando il pregiudizio secondo cui una metropoli amazzonica non possa – e non debba – ospitare un vertice globale. È una profezia che si autoavvera: l’assenza di investimenti strutturali giustifica l’esclusione, e l’esclusione disincentiva nuovi investimenti.

Belém incarna così la tensione tra aspirazioni globali e contraddizioni locali: è la Cop che avrebbe dovuto celebrare la centralità dell’Amazzonia, ma rischia di escludere gli amazzonici; la conferenza che parla di transizione ecologica, ma si apre nel segno del petrolio: l’Istituto brasiliano per l’ambiente ha infatti autorizzato la compagnia statale Petrobras a trivellare nel bacino di Foz do Amazonas, nel cuore della costa amazzonica, con il Brasile che resta l’ottavo produttore mondiale di greggio.

Ci sono però anche segnali incoraggianti da cogliere. Dopo tre edizioni in Paesi dove la libertà di espressione era fortemente limitata – Egitto, Emirati Arabi, Azerbaigian – la Cop torna in una democrazia: non accadeva dalla Cop di Glasgow del 2021 che la società civile tornasse a esprimersi liberamente fuori dai centri riservati all’Onu. Ed è soprattutto così che l’attivismo può fare la sua parte e spingere l’asticella dei negoziati più in alto.

Le manifestazioni per il clima in vista della Cop30 sono già in corso: durante la pre-Cop di ottobre a Brasilia, le strade si sono riempite di attivisti, attiviste, rappresentanti indigeni e associazioni. Un gruppo di organizzazioni, sotto il nome di “Flottiglia per l’Amazzonia”, è partito dalle coste dell’Ecuador per raggiungere Belém via mare e chiedere più azione per proteggere foresta e clima.

A proposito di azioni, il Brasile ha già annunciato che stanzierà un miliardo di dollari nel fondo internazionale per le foreste (Tropical Forests Forever Fund), che servirà a remunerare i Paesi impegnati contro la deforestazione. Si attende ora che altri Stati contribuiscano durante la conferenza. Inoltre, sul piano dei negoziati, la Cop30 sarà un passaggio chiave per mettere a punto alcune questioni discusse in precedenza: finalizzare il nuovo obiettivo finanziario globale (New Collective Quantified Goal), rivedere i piani nazionali di riduzione delle emissioni (Ndc) e definire l’obiettivo globale per l’adattamento al riscaldamento globale (Global goal on adaptation), ancora privo di indicatori condivisi.

«Questa sarà la Cop della verità», ha detto il presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva in un’intervista al Corriere della Sera. La verità è riconoscere che il futuro del pianeta si decide soprattutto nelle regioni periferiche, ma anche che bisogna abbandonare i sistemi energetici alimentati da fonti fossili.