Hebe de Bonafini è venuta a mancare il 20 novembre 2022.
In casa mia le trasmissioni di Gianni Minà erano un appuntamento a cui non si poteva mancare: fin da piccola ascoltavo quella voce inconfondibile e familiare parlare di Argentina, di desaparecidos, e ricordo la sua intervista a Hebe de Bonafini.
Ho avuto modo di incontrare Hebe a Roma, più di 25 anni fa. Quando finalmente riuscii a vederla (era arrivata in ritardo) mi sembrò una signora di una certa età, come mia nonna o le mie zie. Appena iniziò a parlare mi apparve invece come una gigante. Hebe è una delle figure simbolo delle Madres de Plaza de Mayo di Buenos Aires. «Una madre che ha trasformato la sua vita in pietra di inciampo per i collusi con la dittatura argentina», così la definì Gianni Minà.
Le Madres de Plaza de Mayo in Argentina sono uno dei più noti esempi di costruzione di memorie collettive, di narrazioni alternative frutto dell’intreccio tra biografie personali e storia nazionale. Quella che poi è diventata l’organizzazione Madres de Plaza de Mayo (MPM) è stata la prima presa di parola pubblica contro la dittatura. Furono le donne ad alzare la voce, a sfidare il terrorismo di Stato e, insieme, a costruire una memoria militante e dissidente trasformando il proprio dolore in una pagina di storia del Paese.
Le Madres incarnarono con i loro corpi di donne di mezza età, estranei «per costituzione» alla sfera pubblica, una nuova capacità di generare spazi e tempi politici, lontani dagli spazi e dai tempi della politica tradizionale.
In presenza della morte senza accettarla
Furono un gruppo di donne, semplici casalinghe abituate ad assistere all’attività dei figli senza porsi troppe domande, cresciute nel rispetto delle autorità costituite che, dopo il golpe militare del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Dal 30 aprile 1977, ogni giovedì, senza mai saltarne uno, le Madres hanno marciato, fatto la rondas, nella piazza. Forti solo del fazzoletto bianco che si annodavano sotto il mento, delle fotografie dei figli appese sul petto, seppero inventare varchi con il proprio corpo per far sapere al mondo quello che accadeva sotto una dittatura.
Dopo aver vissuto un’esperienza abissale che le ha tenute per quasi trent’anni in presenza della morte senza accettarla, le Madres de Plaza de Mayo hanno fatto del “dar vita” un potere irrevocabile.
Nel 1986 Hebe de Bonafini è stata tra le protagoniste della scissione nell’associazione che allora guidava, a seguito delle divergenze nate dall’offerta di riparazioni economiche per la perdita dei figli del presidente argentino Raúl Alfonsín. De Bonafini prese radicalmente posizione contro le madri che avevano accettato il denaro e decise, insieme ad altre, di abbandonare l’organizzazione originaria – da quel momento contrassegnata come “Línea Fundadora” – e fondare l’Asociación Madres de Plaza de Mayo. Dopo la scissione, l’Associazione presieduta da De Bonafini ha iniziato un articolato percorso di attivismo, affiancando le continue rivendicazioni di giustizia per le sparizioni operate dal regime alla creazione di una forte sensibilità antimperialista e anticapitalista. In un’intervista, Hebe definì il movimento “un’organizzazione politica, con uno scopo di liberazione”.
Anche con il movimento delle nonne, le Abuelas che si battevano per il ritrovamento e la restituzione dei bambini sottratti dal regime militare, ci fu una netta presa di distanza che riguardò non solo la questione della riparazione economica ma soprattutto la rivendicazione verso i “nipoti” e la loro restituzione alle famiglie dei desaparecidos. Per le abuelas i nipoti una volta ritrovati dovevano tornare dalle famiglie cui erano stati strappati mentre per le Madres i figli sono del mondo e i nipoti avevano il diritto di scegliere con chi continuare a vivere.
Madre di tutti gli oppressi del mondo
Dalla tutela dei diritti delle popolazioni indigene, alla solidarietà alle lotte dei neozapatisti e i rapporti con i presidenti socialisti Hugo Chávez e Fidel Castro la postura politica di Hebe è paradigmatica di una parabola che parte dalla risignificazione e collettivizzazione della maternità per creare una soggettività politica autonoma e indipendente. Hebe de Bonafini ha fatto del suo corpo un archivio di memoria storica e della sua vita un esempio di militanza attiva e consapevole, partendo dal lutto privato e arrivando ad abbracciare la lotta per la giustizia sociale.
Nel libro Le Pazze, un incontro con le madri de Plaza de Mayo, dove Daniela Padoan raccoglie le interviste fatte alle Madres, ci sono le parole della stessa Hebe che con una potenza sconfinata racconta la sua trasformazione di donna, di madre, di rivoluzionaria. Racconta senza esitazione come avvenne il sequestro e la desparición del figlio, di come ha reagito e di come quel trauma e quella lacerazione l’hanno resa la madre di tutti gli oppressi del mondo.
Certo, fu necessario avere un grande coraggio, ma il coraggio ce lo diedero i nostri figli… il coraggio di uscire nello spazio pubblico. Ma devo dirti che il nostro non era coraggio… credo di no; piuttosto penso che fosse decisione, chiarezza su quello che volevamo… spesso, ci aizzarono contro i cani, e noi, per difenderci, imparammo a usare un giornale arrotolato. Cercavano di disperderci con i gas lacrimogeni, e noi imparammo a portare con noi una bottiglietta d’acqua e del bicarbonato. Ci sono tante cose che bisogna imparare, quando si lotta… Noi avevamo la nostra pazzia, e i militari il loro ordine, che cercavano disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di scardinare quello che per loro era normale”
“In realtà quello che è successo è che siamo state partorite dai nostri figli.
“Noi altre siamo uscite dalla cucina per imparare la politica, e, anche se ci mancavano i figli, abbiamo imparato quello che proprio loro avevano desiderato, e lo abbiamo fatto nostro; abbiamo imparato che ci sono maniere di vivere diversamente, e che essere madri di tutti i desaparecidos significa abbracciare tutti, non solo loro, ma anche gli uomini e le donne che lottano, e quelli che non hanno la forza di far sentire la loro voce, perché sono troppo emarginati “
“Per farci mettere al mondo, per farci partorire da loro, abbiamo dovuto capire chi fossero, e così la loro lotta ha cominciato a essere la nostra.
Nel discorso pronunciato in Plaza de Mayo il 30 aprile 2012 in occasione del 35° anniversario dell’associazione, Hebe de Bonafini offre il senso di una resistenza politica generosa e libera: «Ci sono cose molto forti: il ferro, il bronzo, il marmo. Ma mi sembra che più forte del cuore delle Madres non ci sia niente (…) Noi non abbiamo fondato niente. Noi Madres abbiamo creato e abbiamo partorito. Abbiamo creato questa forma di lotta e di scontro senza volerlo e senza saperlo (…) Sentiamo la necessità di mettere il nostro corpo e di mettere quanto di meglio abbiamo perché un giorno, quando si parlerà di noi, si dica che noi Madres abbiamo partorito in continuazione, non soltanto figli meravigliosi, abbiamo partorito felicità, giustizia, amore, comprensione, solidarietà».
Le Madres de Plaza de Mayo davanti alla Casa Rosada sono una delle immagini più angosciose del secolo scorso per una vera coscienza democratica. Gli U2 hanno dedicato loro una canzone Mothers of the Disappeared, Saramago le ha candidate al premio Nobel per la pace. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini le sostenne apertamente.
Fu proprio durante la cerimonia del Nobel che Hebe e tutte le Madres assieme coniarono una formula riferita ai loro figli, che sarà da lì in poi ricamata sui loro fazzoletti, e che diventò anche la cifra di elaborazione collettiva di un lutto personale e politico al tempo stesso: Aparición con vida cioè ricomparsa in vita. Erano diventate, con quella scritta, le madri di tutti gli scomparsi, i cancellati dalla vita sociale.
Spesso le madres ed Hebe sono state paragonate alla figura di Antigone, perché entrambe si ribellano alla legge iniqua, entrambe arrivano spontaneamente all’azione politica dall’universalità dei valori e dei sentimenti umani violati dalla politica. Entrambe agiscono il conflitto fra sangue e legge, fra famiglia e politica, fra privato e pubblico, anche se l’agito di Antigone è individuale mentre quello delle Madres è corale e collettivo.
È dentro la lotta, non di resistenza ma di trasformazione, che c’è la grande potenza generativa di un nuovo concetto di maternità e genitorialità che va indagato e assunto.
Le Madres hanno posto il loro vissuto nato dentro agli spazi domestici per ricollocarlo in uno spazio pubblico nuovo, imprevisto, dirompente: la piazza, teatro delle loro proteste. La stessa Hebe spiegherà bene cosa significasse la piazza per loro: «Negli altri posti non ci sentivamo vicine, mentre in piazza ci organizzavamo tra di noi, ci davamo coraggio a vicenda, ci scambiavamo un abbraccio». Un cammino collettivo, lo definisce Raúl Zibe in Genealogia della rivolta, sottolineando che «Nella Plaza ognuna è sé stessa, mette in campo il proprio corpo, non solo non si nasconde ma piuttosto fa tutto il possibile per essere notata». La stessa Hebe ha detto: «Marciare significa camminare verso qualcosa, e noi crediamo che, se pur camminiamo in circolo, stiamo andando verso una meta. È stato in quel nostro camminare a braccetto, una accanto all’altra, parlandoci e conoscendoci, che abbiamo costruito il nostro pensiero».
Non c’era soltanto il proposito di ottenere giustizia e verità per i loro desaparecidos. Non si trattava di colmare uno spazio lasciato irrimediabilmente vuoto, ma di trasformare quello spazio in un’altra cosa.
La cosa che nell’esperienza delle Madres, tuttavia, si rivela più interessante è il loro modo, imprevisto e dirompente, di risignificare il materno riuscendo a sganciarsi da un modello di soggettività esclusivamente oblativa e sacrificale, prendendo invece le sembianze di una figura dell’impegno politico, dell’azione e del conflitto.
Non è, quindi, soltanto la marcia, l’azione collettiva, il resistere alle aggressioni a caratterizzare questa loro pratica ma c’è anche la postura che ribalta e decostruisce il ruolo della madre dentro una società patriarcale e dentro l’ideologia e la propaganda del regime dittatoriale che combattono. La maternità non rimane allo stato di strazio viscerale, di lutto privato, ma è il tassello di una criminale tragedia collettiva. Niente pianti o lamentazioni sacrificanti, che avrebbero ricondotto le madri al ruolo tradizionale e impolitico di lamentatrici ma un cammino divenuto un vero e proprio circolo di relazioni e condivisione del quotidiano.
Le Madres, dunque, hanno socializzato la maternità, ne hanno ricavato un nuovo paradigma: la maternità come fatto politico, non biologico. Le Madres rappresentavano le madri di tutti i desaparecidos, di tutte le vittime di ingiustizia. Hanno risignificato la maternità sovvertendo il legame tra maternità e sfera privata.
Ed è proprio questo che le Madres ci consegnano: la possibilità di politicizzare in maniera feconda e lungimirante l’amore materno, il quale però non coincide – e questo la loro esperienza lo ha svelato in maniera esemplare – con la versione che ne ha dato e ne dà incessantemente la cultura patriarcale e neo-patriarcale.
Mentre in quegli stessi anni negli Stati Uniti, le femministe giungevano alla conclusione della necessità di riscattare il corpo della donna dalla facoltà di generare, le argentine collocavano quella prerogativa proprio al centro della dimensione pubblica, presentandosi come madres de desaparecidos.
Il loro declinare la maternità fu talmente sovversivo che Giovanni Paolo II non le riconobbe e non le sostenne e quando fu costretto a incontrale, il 5 luglio 1980, fu un incontro freddo. Un Papa, la cui devozione a Maria è diventata la cifra del suo pontificato, che aveva una idea precisa di cosa fosse il materno e il ruolo sociale che doveva incarnare una madre non poteva che combattere questo gruppo di donne in quanto con la loro esistenza mettevano in pericolo secoli di costrutti religiosi e sociali.
La storia delle Madres non è così diffusa e indagata come dovrebbe; anche le elaborazioni dei femminismi contemporanei dovrebbero recuperare la memoria e la pratica collettiva di queste donne, il loro contributo a destrutturare il patriarcato attraverso il materno, il corpo e l’affidamento reciproco. Hanno segnato una traccia importante posizionandosi come donne e madri ma in un senso radicalmente opposto alla declinazione che di queste dimensioni danno le destre ultra conservatrici di oggi.
Questo il lascito: «Tutto questo è nostro. Domani, a cuore aperto e con le braccia tatuate di tanto amore, guarderemo negli occhi i nostri figli, quelli che abbiamo, quelli che verranno, quelli che sono ancora il sogno che i nostri genitori non sognano più, e ricominceremo. Torneremo a lottare per altri impossibili. Perché, ricordiamo, l’impossibile tarda solo un po’ di più».






