Pubblicato il 22/11/2025Tempo di lettura: 3 mins

Si è chiusa la COP 30, come previsto senza menzionare nel testo finale (il global mutirāo)  la fine programmata dei combustibili fossili. Se ne tornerà a parlare nel 2026 in un incontro per non lasciare cadere nel dimenticatoio l’obiettivo più importante. Magra soddisfazione. Nemmeno c’è stata chiarezza sull’obiettivo altrettanto impegnativo di fermare la deforestazione. 

Delusione, quindi, ampiamente prevista data la spaccatura fra gli 80-90 paesi che vogliono accelerare e gli altrettanti che fanno fumare i freni – stati arabi, Russia, India, pure gli Stati Uniti che peraltro non erano presenti. 

Dovendo andare avanti si trovano motivi di piccoli progressi (baby steps, come li ha definiti il rappresentante di un paese africano): ad esempio triplicare i fondi per l’adattamento agli impatti climatici destinati ai paesi vulnerabili, da 100 a 300 miliardi di dollari, a partire dal 2035.

Parallelamente, la Conferenza ha rilanciano modelli di “governance multilivello” – che coinvolgono governi nazionali, enti locali e comunità indigene – e si è dato l’avvio alla cosiddetta Action Agenda che mira a tradurre gli impegni già presi in progetti operativi, visto che a giudicare dal testo finale l’obiettivo sembra restare ancora l’improbabile 1,5°C. Il tutto molto faticoso e burocratico, ma utile per continuare il lavoro iniziato a Parigi.

Una piccola vittoria del paese ospite è stata il lancio del Tropical Forests Forever Facility (TFFF): il chiacchierato fondo finanziario con un portafoglio iniziale di 5,5 miliardi di dollari, per arrivare idealmente a125 miliardi, destinato a sostenere 53 paesi che si impegnano concretamente a difendere le loro foreste. In questo contesto, almeno il 20% dei pagamenti sarà diretto alle popolazioni indigene e comunità locali. 

Il blocco dei paesi vulnerabili – piccole isole, Africa subsahariana – lascia il meeting visibilmente insoddisfatto, ovviamente, a parte il non scontato aumento dei fondi per l’adattamento, certo ancor insufficiente.
Poco prima che la bozza facesse l’ultimo giro fra le delegazioni, il commissario Wopke Hoeskstra è sbottato: «L’attuale bozza di accordo non contiene alcuna base scientifica… nessuna transizione dai combustibili fossili… Solo debolezza. Non lo accetteremo in nessun caso. … Potete contare sul fatto che faremo tutto il possibile per raggiungere il nostro obiettivo». 

Apprezziamo lo sforzo ma non si poteva ottenere di più, viste le accaniate resistenze dei petrostati. Ci consola Luca Bergamaschi, direttore di Ecco, no profit italiana molto attiva sul clima: «Il risultato è un testo di compromesso che dà una prima risposta, non scontata nell’attuale contesto geopolitico, di come colmare il divario tra le politiche attuali e l’obiettivo di 1.5°C. Bene il ruolo dell’Europa nel portare tutti i Paesi ad accettare un aumento dell’ambizione. L’Accordo riafferma innanzitutto l’Accordo di Parigi come stella polare della cooperazione internazionale e dimostra che la maggioranza dei paesi, con l’Europa al centro, può anca farcela”. 

Il Brasile, in qualità di paese ospitante, ha assunto un ruolo di facilitatore e, contemporaneamente, ha cercato di tenere viva l’ambizione su fossili e foreste – annunciando che, assieme alla Colombia, svilupperà una roadmap con presenze volontarie per la transizione dai combustibili fossili e lo stop alla deforestazione, al di fuori del testo formale della conferenza.  «Abbiamo bisogno di una tabella di marcia per pianificare un modo equo per invertire la deforestazione, superare i combustibili fossili e mobilitare le risorse necessarie per questi obiettivi.» Ha testardamente ripetuto nel discorso finale il presidente Lula da Silva. 

La COP 30 chiude i battenti lasciando attivisti, lobbisti, indigeni e delegati dei governi disperdersi stanchi ma sollevati fra i vapori della città alle porte dell’Amazzonia. Ma, come si suol dire, non finisce qui.