Martedì 18 novembre 2025 si è svolto il seminario “Ponte sullo Stretto: confronto tecnico-scientifico su aspetti geologici e sicurezza del progetto”, nella Sala dei Presidenti di Palazzo Giustiniani presso il Senato della Repubblica. Il video integrale del seminario è disponibile sul sito di Radio Radicale a questo link.
Dopo il mio intervento introduttivo, in cui ho chiesto ai relatori di attenersi rigorosamente e unicamente agli aspetti tecnico-scientifici del progetto, e dopo un breve intervento di presentazione del progetto da parte dell’Amministratore delegato della Società Stretto di Messina, Pietro Ciucci, sono intervenuti diversi relatori.
Prima sessione (40 minuti):
Carlo Doglioni, Professore ordinario di Geodinamica, Università La Sapienza di Roma, già presidente INGV;
Gianluca Valensise, Dirigente di Ricerca – Sismologo INGV e consulente della Società Stretto di Messina.
Seconda sessione (80 minuti):
Iunio Iervolino, Professore ordinario di Tecnica delle costruzioni, Università Federico II di Napoli e Università di Pavia; rappresentante dell’Università Federico II di Napoli quale responsabile scientifico della Valutazione delle Azioni Sismiche Transienti dello Stretto di Messina;
Federico Mazzolani, Ingegnere, Professore emerito di Tecnica delle costruzioni, Università Federico II di Napoli;
Giorgio Diana, Ingegnere, Professore emerito e Direttore della galleria del vento CIRIVE, Politecnico di Milano, nonché membro dell’Expert Panel della Società Stretto di Messina;
Mario de Miranda, Ingegnere specializzato in ponti e grandi strutture, già professore allo IUAV di Venezia.
Nelle repliche è intervenuto anche Fabio Brancaleoni, ingegnere e professore ordinario di Scienza delle Costruzioni dell’Università Roma Tre, nonché già consulente della Società Stretto di Messina.
I professori/dottori/ingegneri Valensise, Iervolino, Diana e Brancaleoni sono stati indicati, dietro mia richiesta, dalla Società Stretto di Messina.
I professori/dottori/ingegneri Doglioni, Mazzolani e de Miranda sono stati contattati dal mio ufficio.
Sessione domande (50 minuti)
Al termine delle due sessioni si è svolta una ricca sessione di domande e risposte, grazie alla presenza di decine di esperti presenti nel pubblico, che hanno animato il confronto a un livello scientificamente molto alto.
Quattro elementi su cui servono ulteriori dati e analisi
Da questo dibattito sono emersi almeno quattro elementi che necessitano di maggiori dati e analisi, che proverò a riassumervi qui di seguito.
(i) La presenza di una faglia sismica potenzialmente attiva sotto la fondazione di una torre e di altre due faglie potenzialmente pericolose nell’area.
L’attenzione degli esperti su questo punto si è concentrata sul sistema di faglie che attraversano lo stretto di Messina e sulle loro caratteristiche (se “attive/capaci” o meno). In particolare sulla cosiddetta “faglia di Cannitello”, che si trova sotto una delle torri alte 399 metri che sorreggono il peso del ponte, nel lato calabrese. Nel suo intervento iniziale, Doglioni si è soffermato sulla pericolosità sismica dell’area dello Stretto specificando che: dal 1985 ad oggi sono stati registrati oltre 5000 terremoti; l’area può essere epicentrale per tre diversi sistemi di faglie in essa attive (sistema di Messina, Capo Peloro e Scilla) e che si sovrappongono nello Stretto; nell’area si rileva il tasso di deformazione misurato maggiore d’Italia (oltre 80 nanostrain/anno).
Doglioni ha spiegato che una faglia è “attiva e capace” se si è mossa negli ultimi 40 mila anni, potenzialmente anche negli ultimi 700 mila. Per verificare se sono avvenuti questi movimenti vi è una tecnica scientifica che prevede di scavare una trincea nel terreno, detta “paleosismologica”. Rispetto alla faglia di Cannitello, indicata anche nel progetto del Ponte, Doglioni ha sottolineato che si tratta di un ramo del sistema della faglia di Scilla, sistema che si sviluppa su vari piani paralleli che possono attivarsi in caso di terremoto. Non essendo state scavate trincee specifiche per questa faglia, non è possibile sapere se arrivi in superficie o meno ma, ha fatto notare Doglioni nella sua presentazione, le immagini disponibili mostrano una rottura di pendio che potrebbe essere di per sé un’indicazione che sia attiva. Per dimostrare che, al contrario, la faglia di Cannitello non sia attiva bisognerebbe avere prova che la stessa sia “sigillata” da sedimenti antichi di almeno 40mila anni. Questa prova ad oggi manca, in quanto nel progetto vengono riportati dati di sedimenti relativi a soli 11700 anni. Di conseguenza, è stata la conclusione di Doglioni, “non si può affermare che questa faglia non sia attiva”, così come non lo si può dire di altre faglie presenti sotto gli ormeggi dei cavi del Ponte, in quanto anche qui mancano trincee che lo documentino.
A seguire, è intervenuto il dott. Valensise il quale ha spiegato che terremoti particolarmente forti, convenzionalmente oltre la soglia di magnitudo 5.5, sono generati da grandi faglie. Facendo riferimento a uno studio di Sgroi et al. del 2025, che mostra le strutture trasversali e presumibilmente attive delle faglie di Capo Peloro e dello Ionio, Valensise ha notato come la sorgente del terremoto da 7,1 gradi che nel 1908 fece oltre 80 mila vittime tra Messina e Reggio Calabria si incastri perfettamente fra quelle due faglie. Questi limiti fisici escluderebbero che tale sorgente possa essere più lunga e quindi che possa generare terremoti più forti. Valensise non ha mostrato preoccupazioni circa la faglia di Cannitello, anzi il suo intervento si è concentrato tra l’altro a spiegare come non si tratti di una faglia ma di un “terrazzo marino”. Lo ha fatto ad esempio commentando il lavoro dell’ingegner Paolo Nuvolone, autore di uno studio su cinque delle faglie presenti nello Stretto, già consulente del comune di Villa San Giovanni. Nuvolone – secondo Valensise – ha notato come, rispetto alla faglia di Cannitello, siano ben visibili le alterazioni topografiche, accludendo un’immagine in cui, ha commentato Valensise, “in realtà vedo una scarpata con della vegetazione”. Anche in un passaggio successivo Valensise ha ribadito come dalle immagini dell’ ing. Nuvolone “questa scarpata ha poco della faglia ed è molto simile alle scarpate che si vedono alle spalle”. Lo stesso Valensise ha riconosciuto che, facendo riferimento alla letteratura scientifica, non c’è accordo unanime rispetto alla potenziale presenza e attività delle faglie dello Stretto. Alcuni autori, ad esempio, ritengono che in alcuni casi si tratti di scarpate o di terrazzi marini. Le mappe disponibili, in cui le faglie sono riportate in punti diversi, anche di chilometri, da autori diversi, ha concluso su questo punto Valensise, “mi fa sospettare che in terraferma non siano mai state viste”.
Riguardo a questo punto, nella sessione domande, il professore Stefano Pampanin dell’Università La Sapienza di Roma ha ricordato l’esempio del terremoto che nel febbraio 2011 ha distrutto la città di Christchurch, in Nuova Zelanda, pur avendo una Magnitudo di 6,2 , molto più bassa di quella del terremoto di Messina del 1908, e che sulla carta non appariva preoccupante nemmeno per i più esperti sismologi. Pampanin, che ha ricordato di aver trascorso in Nuova Zelanda 16 anni della propria carriera, ha affermato che l’effetto disastroso del terremoto è stato definito dagli studiosi “i tre pugni”, poiché nella zona si sono attivate tre faglie che hanno colpito da vicino, da lontano e dal basso.
Viste le diverse interpretazioni circa la faglia, ho chiesto (e la mia non è stata l’unica domanda in questo senso) “perché non fare ulteriori studi sulla faglia?”. A questa domanda Valensise ha risposto che la Società Stretto di Messina ha commissionato altre analisi all’Ogs (Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale), in particolare “una serie di rilievi sismici terra-mare” che “si faranno quanto prima, credo la prossima primavera”, ma, di fronte alla richiesta specifica di vari esperti dal pubblico sull’opportunità di fare approfondimenti con una trincea paleosismologica, ha ribattuto che “tutti parlano di faglie, ma nessuno le mostra” e quindi sarebbe impossibile capire dove scavare tale trincea. Replicando, il professor Mario de Miranda (già professore dello IUAV di Venezia) ha ricordato come la faglia sia esplicitamente indicata in alcuni dei documenti del progetto del Ponte pubblicamente disponibili.
Dal canto suo, Doglioni ha ribadito quanto già affermato nel suo intervento d’apertura, cioè che sulla base delle caratteristiche evidenziate non si può affermare che quella di Cannitello non sia una faglia attiva, mentre quella riconosciuta sul fondo marino è attiva e capace. Il prof. Giovanni Barreca, dal pubblico, è intervenuto ricordando i propri studi sulle faglie nell’area e, in una nota inviata al mio ufficio nei giorni successivi, ha spiegato che con il suo team, in un articolo scientifico del 2021, ha mostrato “per la prima volta l’esistenza di una nuova faglia, lunga circa 34,5 km, compatibile con un terremoto di magnitudo M=7. La faglia attraversa longitudinalmente lo Stretto e la sua attività recente è confermata da una dislocazione del fondale marino di circa 80 metri”.
Su questo punto, il dott. Valensise ha risposto a Barreca affermando che si trattava di studi su “faglie superficiali, non profonde” e quindi non preoccupanti dal punto di vista sismologico, e che non fosse utile “uscire dal seminato e discutere di cose fantasiose”. Lo stesso Doglioni, con una nota inviatami nei giorni successivi all’incontro, è tornato sul punto già esplicitato nel convegno, specificando che la struttura di Cannitello e altri piani adiacenti, come la faglia di Pezzo che passerebbe sempre sotto la torre del Ponte sul lato calabrese, fanno parte del “sistema di Palmi-Scilla”, ben più lungo di 50 km. Doglioni mi ha inoltre condiviso una riflessione sulla faglia di Paganica che ha generato il terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009 e che, prima di quell’evento, era considerata inesistente o minore.
A sua volta, dopo aver ascoltato gli interventi da remoto, il professor Stefano Sylos Labini della Sapienza di Roma, i cui studi sulle faglie nell’area sono stati citati da più parti durante il convegno, ha inviato al mio indirizzo e a quello del dott. Valensise (e altri in copia) una nota in cui afferma che “le indagini condotte finora dalla Società Stretto di Messina sono totalmente carenti a livello sottomarino: capisco che queste indagini siano più complicate e costose di quelle sulla terra emersa, ma sono indispensabili per avere il quadro completo sulla situazione sismotettonica dello Stretto di Messina”. Sylos Labini ha inoltre criticato la citazione impropria da parte di Valensise, durante il seminario, di una pubblicazione scientifica di cui lo stesso Sylos Labini è stato co-autore con il geomorfologo giapponese Takahiro Miyauchi all’inizio degli anni ’90, per sostenere l’interpretazione che la faglia di Scilla sia sostanzialmente non una faglia ma “una frana”. Sylos Labini, nella nota scritta, ha precisato che il suo lavoro con Miyauchi parla di “gravitational fault” (quindi faglia estensionale con una forte componente gravitativa) e non di “una frana”, perché, se avessero voluto riferirsi a una frana, nella pubblicazione scientifica avrebbero invece utilizzato il termine “landslide”.
(ii) La stabilità delle fondazioni e dei blocchi d’ormeggio in caso di superamento dei valori di accelerazione di picco al suolo (Peak Ground Acceleration, PGA) massima prevista negli scenari di rischio sismico del progetto del Ponte
Noi cittadini siamo abituati a considerare i terremoti sulla base della loro magnitudo (M) e ci spaventiamo quando sentiamo di un terremoto di M 6 o 7. Tale valore indica effettivamente l’energia rilasciata dal terremoto. Tuttavia, la pericolosità sismica è legata non solo alla magnitudo, ma anche ad altri parametri, tra cui un indice noto come accelerazione di picco al suolo (Peak Ground Acceleration, PGA), che rappresenta l’accelerazione massima del terreno durante il sisma (cioè quanto si muove il terreno nel momento in cui è interessato dal sisma). La PGA viene espressa in “g” , pari all’accelerazione di gravità e descrive le oscillazioni orizzontali o verticali del suolo: sono queste oscillazioni a causare i danni principali alle costruzioni, perché – soprattutto in presenza di componenti verticali elevate – un edificio può perdere aderenza con le fondazioni, sollevarsi e collassare sotto l’azione del proprio peso. Questo significa che, a parità di magnitudo (M), i valori di PGA possono essere molto differenti in zone differenti, in funzione delle caratteristiche geologiche e geotecniche del terreno e della sua storia sismica. (Nota: La PGA si esprime come “g”, cioè l’accelerazione di gravità (pari a 9,81 m/s²); ad esempio un valore di PGA di 0.1 g significa accelerazione pari al 10% della gravità, quindi 0,98 m/s²; 0.5 g equivale a metà della gravità; un valore di PGA pari a 1.0 g significa accelerazione pari alla gravità (molto elevata); le norme – che si avvalgono delle migliori documentazioni tecnico-scientifiche – possono prevedere che le costruzioni siano progettate per resistere a PGA di 0.1, di 0.5, oppure di 1 o 2.)
A parità di M, un terreno poco compatto tende a generare PGA più elevate al suolo. Questo perché, se il terreno è poco compatto, l’onda sismica si propaga, da un punto più o meno profondo della terra (ipocentro) verso la superficie (epicentro e area epicentrale), viaggiando più lentamente e con oscillazioni più ampie. Il valore di PGA è quindi uno dei parametri chiave, in tutto il mondo, per progettare edifici e infrastrutture capaci di resistere ai terremoti. Proprio su questo punto, Doglioni ha ricordato come le misurazioni del parametro di PGA abbiano fatto enormi progressi negli ultimi 15 anni, ossia dalla progettazione del Ponte a oggi, e che questi progressi abbiano permesso di misurare con maggiore precisione la PGA in area epicentrale (cioè nella zona del suolo “irradiata” dalle onde di un terremoto avvenuto in profondità), scoprendo che può arrivare a valori due o tre volte maggiori rispetto a quanto previsto dai limiti di legge. Il progetto del Ponte, nel calcolare l’ipotetica resistenza strutturale dell’opera, si basa su una magnitudo teorica di 7,1 e sul valore base di PGA, legale e vincolante, pari a 0,58 g (con valori di picco alle alte frequenze previsti a 1,5g). Questo valore, ha ribadito Doglioni, è più alto rispetto al minimo di legge che, per quella zona, è fissato a 0,42 g. Quindi il progetto rispetta la normativa italiana per le costruzioni.
Ma – aggiungo io – la scienza (che anche il nostro Paese ha grandemente alimentato), è più avanti e accurata della norma. Infatti, rispetto a questo valore, Doglioni ha sottolineato come terremoti reali e recenti studiati in Italia abbiano mostrato che sia i valori base di PGA sia i picchi alle alte frequenze possono essere molto più elevati di quelli previsti nel progetto del ponte, rispettivamente 0.58 g e 1.5 g. Fra gli esempi riportati, Doglioni ha parlato del terremoto di Amatrice (2016), magnitudo 6, per il quale si è registrato un valore di PGA base di 0,8 g con picchi alle alte frequenze oltre 2 g. Un altro esempio è un terremoto registrato nei Campi Flegrei nel marzo di quest’anno, di magnitudo 4.4, per il quale all’epicentro si è registrata una PGA base di 1g. Sempre Doglioni ha specificato che le accelerazioni che potrebbero derivare dai terremoti non sono in grado di dare problemi all’impalcato (vale a dire la parte sospesa del ponte), ma che la situazione è molto diversa per quanto riguarda i punti di ancoraggio dei cavi e le fondazioni delle torri.
A questo proposito, il professor Iervolino, che si è occupato delle analisi di scenario di rischio per il progetto del Ponte sullo Stretto, nel suo intervento ha specificato che il valore di PGA non è rilevante per la sismica dell’opera e ha ribadito come l’analisi del rischio sismico possa essere solo “probabilistica”, dal momento che l’incertezza del verificarsi dei terremoti non permette di adottare un “metodo deterministico puro”. Iervolino, come già nel documento della Società Stretto di Messina Vento, sisma, cavi e altri elementi strutturali: realtà e certezze (pubblicato il 27 febbraio 2025) di cui è co-estensore insieme a Brancaleoni, Diana, Valensise e altri esperti non presenti al convegno, ha ribadito che il costruendo Ponte sarebbe soggetto a “periodi di vibrazione di interesse sismico certamente superiori a 1 secondo e inferiori a 33 secondi”, e pertanto, non raggiungendo frequenze di vibrazione abbastanza alte, non sarebbe interessato dai valori di PGA indicati da Doglioni.
(iii) Le deformazioni e gli effetti dei venti
Uscendo dall’ambito strettamente sismico, altre interpretazioni contrastanti sono state quelle dei professori Giorgio Diana in un senso, e di Federico Mazzolani e Mario de Miranda in senso contrario, con gli interventi dal pubblico dei professori Santi Rizzo (già Università di Palermo e componente del comitato scientifico di Stretto di Messina Spa dal 2003 al 2005) e Antonino Risitano (già Università di Catania), sulle incognite nella progettazione di un ponte sospeso lungo più di due volte i ponti attualmente operativi nel mondo, sulle possibili deformazioni della struttura anche in relazione alla percorribilità ferroviaria del Ponte, sull’opportunità di ulteriori prove di fatica sui cavi principali (che si stanno effettuando, ha affermato Diana) nonché sulla necessità di ulteriori indagini in galleria del vento, dal momento che quelle effettuate hanno individuato diverse instabilità – ad esempio per l’impalcato in presenza di traffico, o per le torri e i cavi d’ormeggio – per le quali non esiste ora alcuna risposta progettuale verificata da nuove prove e analisi pienamente positive.
(iv) La mancata ottemperanza alle oltre 80 raccomandazioni emanate dai comitati scientifici della stessa Società Stretto di Messina nel corso degli anni
Nel suo intervento Mazzolani ha sostenuto che sia le 13 raccomandazioni del Comitato scientifico di SdM S.p.A. del 2011, sia le 68 del nuovo Comitato scientifico del 2024 non hanno ancora avuto risposta. Seguire alcune di tali raccomandazioni, ha sottolineato, potrebbe comportare cambiamenti anche sostanziali tra progetto definitivo ed esecutivo, anche rispetto ai punti fin qui evidenziati. Fra queste, vi è quella di effettuare nuove analisi sismiche con modelli avanzati e registrazioni di terremoti recenti, come pure quella di usare dati accelerometrici aggiornati per valutare meglio le azioni sismiche.
Conclusioni: sono opportuni ulteriori esami e analisi del rischio
Le interpretazioni sopra riportate e sintetizzate dalle tre ore di convegno (sia quelle tendenti a minimizzare il rischio, sia quelle che lo considerano maggiore) hanno dignità tecnico-scientifica confrontabile, in quanto pubblicate su riviste scientifiche valide, sottoposte a revisione tra pari (peer-review). Se dunque le interlocuzioni tra gli esperti intervenuti al seminario convergono su qualcosa, è sull’opportunità di ulteriori esami ed analisi del rischio, a 15 anni dalla prima presentazione del progetto.
Uno degli esperti nel pubblico, il professor Francesco Maria Guadagno di Unisannio, ha riassunto la questione chiedendosi e chiedendo: “Voi andreste a fare una TAC in un laboratorio che usa un macchinario vecchio di 15 anni?” Io credo che la risposta possa essere soltanto “no”. Quando si parla di salute e di sicurezza, personale o delle infrastrutture, bisogna sempre tendere ai migliori standard disponibili. In questo caso, si potrebbe partire dall’applicare modelli di analisi del rischio capaci di tener conto delle incertezze epistemiche.
Alcuni degli esperti nel pubblico, a partire dal Prof. Paolo Zimmaro dell’Università della Calabria, hanno fatto notare che, almeno per quanto riguarda il rischio sismico, tali modelli esistono nella letteratura internazionale e sono implementabili attraverso processi trasparenti, robusti e riproducibili, mediante l’approccio SSHAC (Senior Seismic Hazard Analysis Committee), una procedura per effettuare analisi di pericolosità sismica in modo strutturato, trasparente e scientificamente robusto, specialmente per infrastrutture critiche come centrali nucleari, grandi dighe, ponti di importanza strategica. A maggior ragione visto che, durante le fasi finali del convegno, l’Amministratore delegato di Stretto di Messina Spa, dott. Pietro Ciucci, rispondendo al professor Mazzolani, ha precisato che “il progetto esecutivo verrà fatto in 12 mesi dal momento in cui partirà la progettazione esecutiva, che è il momento dopo l’efficacia della delibera CIPESS, il cui ritardo è stato dovuto a motivazioni di carattere normativo e non tecnico-scientifico”.
In conclusione, a valle della disamina dei dati resi noti durante il seminario e della disponibilità di nuove conoscenze oggi applicabili al progetto, a mio avviso è imprescindibile che la comunità scientifica di settore promuova e prosegua – auspicabilmente con il supporto delle istituzioni – il necessario confronto tecnico-scientifico ai massimi livelli sui punti di contrasto emersi nel seminario.
L’obiettivo non può che essere quello di dare ai cittadini la garanzia, e soprattutto la sicurezza, che quest’opera monumentale poggi sulle solide fondamenta del metodo scientifico e delle migliori conoscenze oggi disponibili.
Nota di contesto: le motivazioni della Corte dei conti per la mancata ratifica della delibera CIPESS, pubblicate lo scorso 27 novembre, non incidono in alcun modo sulla possibilità e sull’opportunità di continuare il confronto tra esperti. Le considerazioni sopra esposte, anche alla prova dell’attualità, restano valide in qualunque scenario amministrativo e progettuale dovesse declinarsi il progetto del Ponte sullo Stretto, essendo volte a dare al Paese e ai cittadini il presupposto conoscitivo ineludibile di cui far tesoro – nei prossimi mesi o anni – nel ragionare concretamente della realizzazione dell’opera.







