Carl Zimmer ha scritto sul New York Times che con James Dewey Watson, morto il 6 novembre all’età di 97 anni, scompare l’ultimo protagonista della scoperta più iconica del secolo passato. La mente di Watson era morta da almeno sette anni, o anche prima, cioè da quando gli fu diagnostica una demenza vascolare. Intanto, il DNA, la più famosa ma non l’unica doppia elica molecolare che esiste in natura, non è più l’alfa e l’omega della vita. L’RNA, però, non si presenta così esteticamente suggestivo né la sua storia romanzabile per la superficialità mediatica; nemmeno troverà probabilmente un Salvator Dalì che lo trasfiguri misticamente. 

Leggendo qualche necrologio dedicato all’“onesto Jim”, prevale la storia di un genio scientifico in laboratorio, che nell’arena pubblica si trasformava in un caustico denigratore e sprezzante razzista. Come se esistessero due Watson: Jekyll e Hyde. La sua biografia e la percezione pubblica della sua figura sono interessanti sotto il profilo psicologico e sociologico, perché emerge la sua incapacità di capire i contesti e il narcisismo provocatorio, che producevano conseguente per lui dannosissime. E lui si giustificava affermando che le sue uscite razziste erano solo una forma di onestà intellettuale,  come diceva nell’ultima intervista, nel 2019. Un autoinganno da manuale. Il suo alter ego era, appunto, “l’onesto Jim”.
Qualcuno gli credeva. Per il sociobiologo Edward O. Wilson, che si diceva suo amico ma lo giudicava la persona “più sgradevole” che avesse conosciuto, «Jim non [era] razzista». Anche il biologo Richard Dawkins si spese in sua difesa, quando Watson disse che sarebbe stata una scelta responsabile usare un test genetico per non mettere al mondo un figlio omosessuale. Dawkins lo arruolava tra chi difende la “nuova eugenica”, fondata sulla libertà di scelta e non sulla coercizione statale o pregiudizi sociali.

Un genio scientifico? Proprio no

Ma chi era allora James Watson? Trenta anni fa, quando pubblicai un libro sulla storia della biologia molecolare, mi feci l’idea che fu un formidabile promotore e manager della ricerca nell’ambito della biologia molecolare, un bravo mentore e un buon autore di manuali scientifici e di libri di pura provocazione. Che fosse un genio scientifico ritengo, invece, che sia semplice mitologia. 

I suoi collaboratori hanno sempre detto che su questioni scientifiche prendeva posizione di pancia, in modo intuitivo. Non mi viene in mente una sua scoperta o teoria scientifica di qualche rilievo dopo la doppia elica del DNA, nel 1953. Peraltro, anche in quel caso, il suo ruolo creativo fu scarso. Ebbe fiuto e fu abile a raccogliere dati. Mise le mani sulle immagini di Rosalind Franklin e si fece spiegare dal suo compagno di stanza i legami chimici che potevano tenere insieme le basi del DNA. Francis Crick, che divise con lui il Nobel nel 1962, ha scritto: «Non fummo io e Jim a scoprire il DNA, ma la molecola che scoprì noi».

Anche Crick aveva un ego di tutto rispetto, ma era anche autoironico e autocritico. Continuò a produrre contributi nell’ambito della biologia molecolare – il dogma centrale e gli studi sul codice genetico – per passare quindi alle neuroscienze e sviluppare un’influente teoria della coscienza. Scrisse originali saggi scientifici. Watson zero. 

La doppia elica, pubblicato nel 1968 è considerato uno dei più importanti libri del 1900: certo, è divertente da leggere, sparla di Rosalind Franklin trasformandola così in un’icona femminista (malgrado la realtà), getta fango un po’ su tutto ma travisa la storia e dice cose senza senso, come gli fece notare Crick, e come si evince dal libro di Robert Olby Storia della doppia elica. Gli scritti divulgativi di Watson sono del tutto autoriferiti e sempre infarciti di giudizi sprezzanti verso altre persone. Nulla dicono di scientificamente interessante.

Vale il contrario per i suoi manuali di biologia molecolare. Biologia molecolare del gene, pubblicato nel 1965, è di mirabile fattura didattica. Nel 1983 portava a termine, in collaborazione, Biologia molecolare della cellula, e nel 1992 la stesura di DNA Ricombinante. Sono testi di qualità notevole per studiare biologia molecolare a livello universitario e post-universitario. 

Watson fu coinvolto nella vicenda “Asilomar” in tre modi. Fu anche per un suo atteggiamento prepotente nei riguardi di un ricercatore che usava la tecnologia del DNA ricombinante, esemplificando i rischi di fughe dai laboratori di virus ricombinati, che Paul Berg e amici, scrissero nel 1973 la lettera su Science, che invitava alla moratoria. Ipocritamente, la firmò anche lui. Partecipò alla Conferenza di Asilomar l’anno dopo, e negli anni a venire ne parlò malissimo per la cattiva immagine che gli scienziati avevano dato di sé. Su quest’ultimo punto penso avesse ragione.

Il meglio di sé lo diede dirigendo, per 35 anni, il Cold Spring Harbor Laboratory. Sotto la sua guida, dal 1968, diventava la mecca di biologi e medici per la ricerca e lo scambio di idee, e continuava a crescere di prestigio, integrando anche un’importante attività di divulgazione scientifica. Meno fortunata la presidenza dello Human Genome Project, che ha dovuto lasciare dopo due anni (1992), perché il direttore degli NIH Bernardine Healy aveva deciso di non stare ad ascoltare le sue senili paranoie contro i brevetti. Nel 2007 la sequenza completa del suo DNA veniva pubblicata – la seconda di un individuo umano dopo quella di Craig Venter – e qualcuno lo prese in giro perché il 10-15% dei suoi geni venivano da antenati africani (più della media per gli americani del sud degli Stati Uniti discendenti da europei).

In perenne contraddizione con se stesso

Era una contraddizione vivente: aderiva a campagne per i diritti civili o contro gli armamenti, finanziava Bernie Sanders… ma attaccava la sinistra perché non capisce che i mali sociali non derivano dal sistema politico, ma dai geni. E pensava che le persone al vertice della società dovessero aiutare coloro che erano stati meno fortunati alla lotteria genetica. Le cose scientificamente inverosimili che diceva, al di là di legittime opinioni politiche, sono quasi esempio di quello che alcuni psicologi cognitivi chiamano “disrazionalità”, che descrive persone molto intelligenti che fanno scelte o difendono tesi del tutto irrazionali. Nel mondo scientifico abbondano e sono quasi un’epidemia tra gli esperti.

Se uno scienziato è socialmente percepito come un’icona ne possono derivare danni per la percezione pubblica della scienza. Si pensi a Luc Montagnier, un premio Nobel che era sempre in Italia, sostenuto da medici famosi, a raccontare idee insensate, non diverse dall’omeopatia.

Nel 2007 Watson pubblicò il libro Avoiding the boring people, che conteneva passaggi di natura palesemente razzista. Rilasciò un’intervista anche peggiore al quotidiano Sunday Times. Gli costò la messa al bando immediata e generale: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna furono cancellate tutte le presentazioni del libro in luoghi scientifici, e dovette dimettersi da ogni carica, incluso il prestigioso Cold Spring Harbor Laboratory, dove era sovrano indiscusso. Nessuno lo invitava più; lui se le raccontava a modo suo, e nel 2014 mise in vendita la Medaglia Nobel, motivando la scelta con l’ostracismo che stava subendo e l’intento di autofinanziarsi la ricerca scientifica (a 85 anni!). La medaglia fu acquistata all’asta per poco più di 4 milioni di dollari da un magnate russo, che gliela restituì.

L’ultima sua apparizione, nel 2019, fu imbarazzante. Si trattava di un documentario per la serie American Masters, intitolato Decoding Watson e diretto Mark Mannucci. Appariva un uomo anziano e privo di freni inibitori, ma quello che diceva non era una fenomenologia della senilità, perché il regista lo intervistò più volte e in tempi diversi, sulle sue posizioni ideologiche, ottenendo sempre le stesse risposte. Quel che ne è seguito è stato patetico: dopo le affermazioni razziste e misogine, ha chiesto scusa e si è detto mortificato se le sue parole avevano fatto male a qualcuno. Non senza ribadire che trovare differenze razziali nell’intelligenza non è razzismo, perché le prove scientifiche che i neri africani sono meno intelligenti dei bianchi sarebbero “fatti”, che non hanno niente a che vedere col razzismo. La direzione del Cold Spring Harbor Laboratory gli ha ritirato tutte le onorificenze.

Watson ha sempre usato la pancia più del cervello. Come nella sua entusiasta adesione alle tesi del libro di Richard J. Herrnestein e Charles Murray The Bell Cuve (1994). Sì, perché Watson diceva sull’intelligenza dei neri africani esattamente quello che scrivevano Herrnestein e Murray, legando intelligenza e fattori razziali. Per un periodo frequentò il politologo conservatore (Murray), oggi impegnato a spiegare la sua conversione religiosa. Quelle tesi sono state confutate, con argomenti diversi, da quasi tutti gli studiosi di intelligenza, i quali si dividono in merito al peso dei geni nel determinare i livelli di QI, ma sono tutti d’accordo che è una stupidaggine genetica ed evoluzionistica sostenere che esisterebbe popolazioni umane più o meno intelligenti. Diversi colleghi lo hanno invitato a parlare con scienziati che studiano l’intelligenza senza pregiudizi. Ma lui si è sempre rifiutato. A riprova che si può essere scienziati intelligenti, e allo stesso tempo cocciutamente irrazionali.