Pubblicato il 02/12/2025Tempo di lettura: 4 mins

Da lunedì 10 novembre a sabato 22 novembre 2025 si è tenuta a Belém, in Brasile, la COP30. Hanno partecipato circa 50.000 persone. Meno dei 70.000 presenti alla COP28 di Dubai, più dei 25.000 presenti l’anno precedente alla COP29 di Baku (sede non tra le più felici, anche a causa delle tensioni geopolitiche in quel periodo). Un numero ragguardevole, tenuto conto che Belem si trova nel cuore della foresta amazzonica in Brasile e notevoli erano le difficoltà logistiche da affrontare. La presenza così folta di partecipanti era dovuta alle forti aspettative di significative decisioni – era stata definita anche la “COP della verità” – dopo che a Dubai per la prima volta i combustibili fossili erano stati ufficialmente indicati come la causa del riscaldamento globale, riconoscendo la necessità di una transition away, il passaggio ad altre forme di produzione di energia. (Sulla COP28 di Dubai si veda anche qui). Infatti 1.602 era il numero dei lobbisti accreditati dell’industria fossile, di gran lunga superiore a quello dei delegati dei Paesi più esposti alla crisi del clima.

Certo, qualsiasi passo avanti dalla transition away verso il phase out, la messa al bando dei combustibili fossili, era improbabile, tenuto conto del boicottaggio degli Stati Uniti e dell’opposizione dei paesi produttori. Ma c’erano molti argomenti da trattare: il rispetto del limite dell’incremento del 1,5° al surriscaldamento del pianeta con riferimento alla temperatura globale del periodo preindustriale, indicato dall’Accordo di Parigi, che sembra però ormai impossibile da raggiungere secondo le più recenti previsioni, l’attuazione dei Piani nazionali per la riduzione delle emissioni (i cosiddetti NCDs), la protezione delle foreste tropicali, poi il tema degli aiuti finanziari ai paesi poveri e gli obiettivi di collaborazione per l’attuazione dei piani di adattamento.

Il risultato finale è stato per molti commentatori deludente: alcuni hanno anche posto in dubbio l’utilità di far convergere annualmente migliaia di partecipanti in qualche località del mondo per accapigliarsi per giorni interi su parole e frasi incomprensibili, fino a raggiungere decisioni all’ultimo momento, a notte fonda, mentre la maggior parte dei partecipanti sta facendo le valigie. In effetti, molte proposte di riforma delle COP sono attualmente in esame: tra queste un limite al numero dei partecipanti per ciascuna delegazione e una elaborazione preventiva degli argomenti da trattare.
In realtà, come spesso accade, la decisione finale è fatta di luci e ombre.

L’atto conclusivo, denominato Global Mutirão (sforzi comuni), torna alla consuetudine precedente la COP28 di Dubai di non menzionare i combustibili fossili. Molti hanno rilevato che anche l’Unione europea, pur manifestando il suo dissenso, non ha poi formulato nessuna proposta per avviare il phase out.

Mancano inoltre impegni concreti per fermare la deforestazione, un tema ricorrente e sfuggente fin dal 1992, allorché all’Earth Summit di Rio è fallito il tentativo di adottare una convenzione sull’argomento. 

Ci sono stati però aspetti positivi. Tra questi, la creazione del Belém Action Mechanism,  un pacchetto di interventi a fondo perduto per i paesi vulnerabili, con previsioni anche di lotta alla sempre più diffusa disinformazione climatica, finanziata dai paesi produttori di combustibili fossili. Tra i risultati positivi deve essere anche inserita la triplicazione delle somme dedicate alla finanza del clima entro il 2035 (anche se con un ritardo di sei anni rispetto al 2029 indicato dalla COP di Glasgow e di quanto richiesto dai paesi poveri, beneficiari dei versamenti).

Due sono stati i successi della COP30. Il primo è l’avvio della Belem Mission per promuovere quella che è stata definita la Just Transition. In proposito, vale la pena di ricordare che un Just Transition Fund, come strumento finanziario del Just Transition Mechanism, è stato istituito nel 2021 dall’Unione europea, al fine di fornire sostegno ai territori che devono far fronte a gravi sfide socio-economiche derivanti dalla transizione verso la neutralità climatica: «Il Fondo è volto a garantire che il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi climatici assunti nell’ambito dell’European Green Deal, finalizzato a rendere l’UE climaticamente neutra entro il 2050, avvenga in modo equo e non lasci indietro nessuno» (www.agenziacoesione.gov.it/just-transition-fund/).

La Belem Mission, sostenuta da 88 Stati, prevede il coordinamento di sforzi collettivi di governi, esperti nel settore dell’energia e scienziati per avviare la transizione anche senza una decisione formale della COP. Ma soprattutto prevede il coinvolgimento e la partecipazione della gente, dei lavoratori, delle comunità locali, per aiutare a trasformare principi e obiettivi in pratica. Nulla di vincolante, è vero, ma l’esperienza ha evidenziato che i vincoli spesso non sono rispettati, mentre hanno successo le iniziative basate sulla volontarietà e la partecipazione. Una dimostrazione è data dagli NCD, i Piani nazionali per la riduzione delle emissioni, introdotti tra molte perplessità dall’Accordo di Parigi, basati sulla volontarietà e l’impegno dei singoli Stati. Scadenze e contenuti sono stati per lo più rispettati dagli Stati (il difetto è stato negli obiettivi prefissati, per lo più insufficienti nel garantire il rispetto del limite di 1,5°). 

Il secondo successo della COP30 è costituito dal forte segnale che la maggior parte degli Stati ha lanciato per il mantenimento e il rafforzamento del sistema multilaterale sul clima, in una situazione caratterizzata dagli attacchi al sistema di Stati Uniti e Russia. La diplomazia del clima ha avviato nuove coalizioni di Paesi e una riorganizzazione degli schemi globali: un esempio è costituito dalla Colombia che si è accordata con i Paesi Bassi per organizzare il 28-29 aprile 2026 la prima Conferenza internazionale sulla giusta transizione dai combustibili fossili. 

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