Pubblicato il 19/05/2025Tempo di lettura: 9 mins
Di recente su Scienza in rete Stefania Salmaso e altri per conto della Associazione italiana di epidemiologia hanno commentato la bozza di Piano Pandemico Nazionale con particolare riguardo al ruolo della epidemiologia. L’intervento sottolineava l’importanza di usare «la foresta di esperienze» fatte durante la pandemia.
Prendo spunto da questo intervento per fare qualche considerazione su come il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del nostro Paese ha fatto (o non ha fatto) tesoro della lezione che ci è stata data dalla pandemia in modo da riversare quanto imparato anche nel Piano pandemico. L’espressione “lezione” la troviamo usata anche ne L’Osservatore Romano del 22 dicembre 2022 (Imparare la lezione dalla pandemia per non fare gli stessi errori), citazione che, dopo il recente Conclave, mi è parsa attuale.
In realtà più che di “lezione” dovremmo parlare di “lezioni” della o dalla pandemia, lezioni che cambiano a seconda del punto di vista di chi le fa. Per esempio, secondo un recente articolo pubblicato su Nature le lezioni da un punto di vista “scientifico” sono tre e le riprendo da un commento fatto da Anna Cortelazzo: la rapidità di mutazione del virus, l’importanza del sequenziamento genomico e le sfide nella comunicazione scientifica.
In alcuni casi le lezioni sono nate all’interno di uno specifico ambito disciplinare, come nel caso dell’inglese Royal College of Anaesthetists che ha identificato 10 lezioni, alcune delle quali estendibili a tutto il sistema sanitario, e ha concluso citando l’affermazione attribuita a Sir Simon Stevens (Chief Executive del National Health Service inglese per sette anni), secondo cui la pandemia ha offerto «un’opportunità per pensare in modo molto innovativo e potenzialmente molto radicale, […] piuttosto che limitarsi a tornare ai vecchi modi di fare le cose».
Una rassegna delle principali tipologie di “lezioni” che si possono trarre dalla pandemia va molto al di là delle mie capacità e quindi mi concentro su quelle che dovevano e dovrebbero essere utilizzate per innovare i modelli di funzionamento del SSN. Da questo punto di vista ho trovato molto stimolante e tuttora valido l’intervento su Scienza in rete di Eugenio Paci, che già nel maggio del 2020, in modo anticipatorio, identificava alcune lezioni e delle conseguenti linee di azione di sistema, come andare verso una visione integrata di invecchiamento e fragilità, ripartire dalla sanità pubblica territoriale e qualificare il sistema informativo.
La pandemia ha innescato una crisi del SSN
Di fatto la pandemia ha innescato una crisi del SSN che ha reso sempre più difficile il volo del calabrone, per usare l’immagine molto efficace cui ha fatto ricorso in un suo libro dall’omonimo titolo Francesco Taroni, per definire la capacità di funzionare del SSN contro ogni previsione: proprio come il calabrone che, date le sue caratteristiche – corpo grosso e ali piccole – non dovrebbe essere in grado di volare, ma lo fa. Il dibattito scaturito da questa crisi ha prodotto molti documenti-appello a partire da quello cosiddetto “degli scienziati” pubblicato su Scienza in rete giusto un anno fa e seguito in tempi recenti da altri, come quello sottoscritto da oltre 130 associazioni, quello di un gruppo di studiosi ed esperti (inizialmente firmato da 40 persone) e quello dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Mentre si dibatte e giustamente si fanno appelli, il Piano pandemico deve comunque andare avanti; e allora provo io a sintetizzare alcune lezioni dalla pandemia che per forza avremmo dovuto imparare e che necessariamente costituiscono le precondizioni generali perché quel Piano specifico funzioni. Eccole, assieme a un mio commento che spiega perché dal mio punto di vista mancano le precondizioni per un Piano pandemico che sia realmente operativo ed efficace in tutte le Regioni:
- necessità di un adeguamento del livello del finanziamento del SSN: in realtà nonostante gli sforzi del Governo per dimostrare che così alto il finanziamento del SSN non lo è stato mai, rimane largamente al di sotto della media degli altri Paesi confrontabili (tutti i documenti e gli appelli forniscono dati al riguardo) e comunque non in grado di rilanciare il funzionamento complessivo del Sistema;
- una politica del personale in grado di rendere più attrattive le professioni sanitarie e le strutture pubbliche: in realtà ci sono gravi carenze nell’attrattività della professione infermieristica e nelle specialità dell’area dell’emergenza-urgenza;
- un potenziamento delle attività distrettuali contestuale all’introduzione di nuovi modelli organizzativi e professionali: in realtà le nuove strutture previste e finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sono in larga misura non operative per la gran parte delle funzioni previste e c’è una crisi drammatica della attrattività della medicina generale;
- una maggiore razionalità e flessibilità delle reti ospedaliere regionali (comprensive delle strutture pubbliche e private) con una concentrazione delle attività complesse, una distribuzione più capillare dei presidi ospedalieri della cronicità e una migliore integrazione delle strutture private accreditate: in realtà nella stragrande maggioranza delle Regioni le reti ospedaliere pubbliche sono frammentate e disperse, con problemi sia di efficienza nell’uso delle risorse sia di sicurezza delle cure, mentre quelle private continuano nella maggioranza dei casi a svolgere attività programmata di area chirurgica in competizione con quelle pubbliche;
- un potenziamento della offerta ospedaliera di posti letto di area critica: in realtà i posti letto previsti e finanziati in più sono stati fatti solo in parte, ma mancherebbe in ogni caso il personale per farli funzionare;
- una politica di maggior tutela della popolazione anziana: in realtà è stata fatta una Legge delega nel 2023 (la legge 33) fatta solo di principi, magari in larga parte condivisibili, che doveva poi essere seguita da decreti attuativi che dovevano darle sostanza. Di decreto però ne è uscito solo uno nel gennaio 2024, del tutto deludente, come si può leggere qui, mentre anche quello in arrivo sugli standard delle strutture residenziali per anziani presenta nell’attuale versione grossi limiti, come la presenza infermieristica garantita nelle 12 ore e non nelle 24;
- l’incremento della capacità di presa in carico domiciliare con il contributo della telemedicina e di nuove figure come l’infermiere di famiglia e di comunità: in realtà in molte Regioni ci sono gravi ritardi nell’attivazione di questa figura, come pure la presa in carico domiciliare della cronicità è pochissimo praticata, data anche quella che è ancora la scarsa operatività della telemedicina;
- un potenziamento delle attività di prevenzione e promozione della salute: in realtà a fronte della grande validità sulla carta del Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 e della attenzione comunicativa all’approccio One Health, cui è stata dedicata la recente edizione italiana del G7 Salute, il macrolivello prevenzione è largamente sottofinanziato, con un teorico 5% del Fondo sanitario nazionale che lo stesso ministro Schillaci vorrebbe in alcune dichiarazioni portare al 7-8% senza però che ci sia in itinere alcun provvedimento in tal senso;
- una crescita della cosiddetta sanità digitale: in realtà lo strumento tipico della sanità digitale, e cioè il Fascicolo sanitario elettronico, è assai poco utilizzato in molte Regioni (nel monitoraggio ufficiale risulta che nel periodo settembre-novembre 2024, ultimo dato disponibile, solo il 18% dei cittadini aveva utilizzato il Fascicolo sanitario elettronico nei 90 giorni precedenti alla data di rilevazione)
- una crescita del ruolo della epidemiologia e una qualificazione dei sistemi informativi: per il commento rimando al già citato intervento di Stefania Salmaso e della Associazione italiana di epidemiologia).
Un SSN più debole di prima della pandemia
Di fatto, in un contesto come quello descritto, un’eventuale nuova pandemia troverebbe un SSN più debole di quello di inizio 2020. Basti pensare al fatto che alla crisi della medicina generale si sta rispondendo alzando il massimale degli assistiti e che la maggioranza dei Pronto soccorso italiani si regge grazie ai medici libero-professionisti o alle cooperative.
Un’analisi dei fattori che influiscono su questa crisi di sistema, parallela a quella che vivono le sanità di altri Paesi europei, è al di sopra delle mie forze, ma mi sento di sottolineare il ruolo di alcuni, in primis la scelta governativa di non adeguare il Fondo sanitario nazionale, scelta forse inevitabile, ma dalle altrettanto inevitabili conseguenze: a partire dall’inadeguato trattamento economico del personale per arrivare al trasferimento al cittadino dell’incremento dei costi della cosiddetta long term care, la presa in carico a lungo termine delle persone fragili (leggere qui per farsi una idea del problema).
Un secondo fattore che a mio parere gioca un ruolo decisivo è la scelta politica, ma con ampie complicità esterne alla politica, di rimuovere la “questione ospedaliera” e cioè di non affrontare la frammentazione delle reti ospedaliere pubbliche e la natura autonoma e concorrenziale di quelle private (per un approfondimento sul tema invito a leggere qui).
Il terzo e ultimo fattore che voglio ricordare è quella specie di mutazione antropologica che hanno subito (o cercato?) i medici, sempre meno orientati alle specialità a maggiore valenza sociale e al lavoro nel pubblico e sempre più orientati alle discipline a forte valenza libero-professionale. Una nuova forma di nemesi medica, per tornare al clima degli anni ’70 in cui mi sono formato. Per il resto rimando alla lettura integrata dei documenti e degli appelli che ho citato all’inizio.
Di tutto questo contesto la bozza di Piano pandemico nazionale non sembra tenere alcun conto e questo limite chi conosce bene la situazione attuale del SSN lo avverte subito. Manca infatti una analisi su ciò che è effettivamente accaduto nel nostro Paese e sulle concrete condizioni in cui versa la nostra sanità e ci si è limitati a trasferire alla nostra realtà quanto contenuto nelle linee di indirizzo internazionali. Il rischio di burocratizzazione del Piano, già evocato da Stefania Salmaso e dall’Associazione italiana di epidemiologia, diventa evidente quando la bozza prova a contestualizzare la realtà italiana, descritta però in base agli atti e ai livelli istituzionali coinvolti assieme ai relativi organigrammi e non in riferimento ai dati e alle reali criticità.
Insomma è stata persa «un’opportunità per pensare in modo molto innovativo e potenzialmente molto radicale, […] piuttosto che limitarsi a tornare ai vecchi modi di fare le cose».
P.S. Mentre stavamo chiudendo l’articolo è arrivata la notizia che l’Italia è tra gli 11 Paesi che si sono astenuti in occasione della votazione sull’Accordo pandemico mondiale tenutasi in una sessione plenaria dell’Assemblea mondiale della sanità, il massimo organo decisionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). L’approvazione dell’accordo ha avuto 124 voti favorevoli da parte delle delegazioni degli Stati membri. Gli Stati Uniti erano assenti, mentre tra gli altri Paesi che si sono astenuti ci sono la Russia, l’Iran, Israele, la Slovacchia e la Polonia. Ovviamente si è trattata di una scelta tutta politica, che il ministro Schillaci ha motivato con la intenzione dell’Italia di «ribadire la propria posizione riguardo alla necessità di riaffermare la sovranità degli Stati nella gestione delle questioni di sanità pubblica».
Questa scelta politica è coerente con lo scenario che abbiamo descritto di un SSN del tutto impreparato a trasformarsi ed evolvere per far fronte sia a una eventuale recrudescenza pandemica sia ai problemi che il nuovo quadro epidemiologico, economico e sociale pone in termini di tutela della salute dei cittadini. Un SSN in cui il ruolo della scienza viene marginalizzato, come testimoniato dal ruolo ormai quasi nullo del Consiglio Superiore di Sanità.