A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti…

Ugo Foscolo, Sepolcri

«Non è decoroso per una società obbligare un uomo a fare questo da solo. Probabilmente è l’ultimo giorno in cui sono in grado di farlo io stesso». Queste parole, molto note tra chiunque abbia studiato il problema del fine vita in modi laici, erano scritte su un foglio lasciato da Percy William Bridgman, quando fu trovato morto suicida, il 20 agosto 1961.

Si era sparato al petto con una pistola. Bridgman, che ha ricevuto il premio Nobel per la fisica nel 1946, oltre a decine di altri premi scientifici, è stato tra i più importanti fisici e filosofi della scienza nella prima metà del Novecento. A lui si deve l’invenzione della fisica delle altissime pressioni, dell’analisi dimensionale e dell’epistemologia operazionale. Si batteva pubblicamente, da libertario conservatore, per l’indipendenza della scienza dalla politica e amava godersi ogni aspetto della vita, sempre con passione e alte capacità. Non solo in laboratorio, ma anche come scalatore di montagne, pianista, giardiniere… o idraulico e carpentiere. Quando scelse di morire si trovava nella fase terminale di un tumore metastatico.

Il tormentato percorso della legge sul fine vita e la rinnovata attenzione al tema a seguito della scelta delle gemelle Kessler di ricorrere al suicidio assistito fa emergere in chi pratica la ricerca storica echi delle morti, terminali o no, che figure scientifiche o intellettuali molto note si sono autoinflitte, per evitare di patire inutili sofferenze fisiche e psicologiche. O di chi fatto altre scelte, talvolta prendendo posizione sul contesto socio-personale (filosofico) del fine vita. Uno spaccato della pluralità dei modi nei quali ognuno, in maniera diversa, vuole la libertà di scegliere, o di non scegliere, come morire.

A nessuno interessa sapere come morirono mio padre, i miei nonni o gli amici che ho visto andarsene. Qualcuno chiedeva consapevolmente di essere aiutato a farla finita, altri si disperavano perché non volevano morire, altri affrontavano l’avvicinarsi della dipartita scherzando, altri sono morti senza sapere che a ucciderli erano stati i familiari o il medico “per il loro bene” e altri hanno scelto il suicidio (da loro commesso o quello assistito all’estero). Qualcuno ha sofferto in modi terribili, senza chiedere niente, ed era sospettoso perché temeva che venisse affrettata la sua dipartita, e non voleva.

Le persone famose del passato tendono (o tendevano quando le giovani generazione cercavano anche riferimenti storici) a costituire dei modelli e a generare aspirazioni, e il loro pensiero è (era) visto meno come un’opinione (quello che penso io del fine vita). Non si può essere esaustivi sul tema, e quasi ogni lettore conoscerà un caso che ho dimenticato o non conosco, ma le scelte di fine vita di personaggi famosi in condizioni terminali o di sofferenza, le possiamo catalogare usando diversi tratti. Ho scelto il loro interesse a rendere pubbliche o no le proprie scelte e le motivazioni.

Una folla di scelte estreme

Cominciamo da chi l’ha fatto rimuginando tra sé e sé, senza farne un esempio e un argomento. Ludwig Boltzman si suicidò, impiccandosi a Luino nel 1906, mentre era in convalescenza a seguito di un grave episodio depressivo: era bipolare. Materialista, darwiniano e inventore della meccanica statistica e di una delle più famose equazioni della fisica, non aveva mai parlato di eutanasia. Lo scrittore Foster Wallace, anche lui gravemente bipolare, morì suicida, ma quasi nulla disse di eutanasia o suicidio. Si suicidarono per depressione o disturbo mentale anche Virginia Wolf (disturbo bipolare, ma contraria al suicidio), Hernest Hemingway (depresso, alcolista e affetto forse da encefalopatia traumatica), il matematico Kurt Goedel (affetto da grave paranoia, si lasciò morire per inedia e anoressia autoinflitta), Walter Benjamin (depresso cronico che scelse un’overdose come “ultima libertà”). Freud prese accordo col suo medico e fu aiutato a morire, per le terribili sofferenze e lo sfiguramento causato dal cancro, ma non si è mai espresso esplicitamente sul tema. Per quanto riguarda Alan Turing, che da due anni stava assumendo estrogeni per la castrazione chimica ed era gravemente depresso, non si può dire se si suicidò o morì per inalazione accidentale di cianuro.

Si possono identificare profili spiccatamente valoriali che caratterizzano diverse scelte individuali. Oltre a Bridgman, a rivendicare la libertà di scegliere come morire o la legalizzazione dell’eutanasia, decidendo per il suicidio, messo in qualche modo in atto autonomamente o con aiuto, furono il noto saggista Arthur Koestler nel 1963 (Parkinson e leucemia), lo storico e filosofo della medicina Mirko Grmek nel 2000 (malattia di Charchot-Marie Tooth), il filosofo Gilles Deleuze nel 1995 (fibrosi polmonare), il filosofo e sopravvissuto all’olocausto Jean Améry nel 1978 (dolore cronico e depressione), lo psichiatra e filosofo Thomas Szaz nel 2012 (anzianità e traumi fisici), lo scrittore e accademico Hermann Burger nel 1989 (depressione), il filosofo marxista e nipote di Marx Paul Lafargue nel 1911 (si suicidò con la moglie scrivendo che aveva esaurito le cose da fare), il filosofo e giornalista André Gross nel 2007 (patto di suicidio insieme alla moglie terminale per Alzheimer), l’ecologo australiano David Goodall nel 2018 (che a 104 anni decise che ora di chiudere e ricorse al suicidio assistito), e sono solo alcuni.

Si potrebbe continuare: non si possono dimenticare Primo Levi, Mario Monicelli, Carlo Lizzani e Lucio Magri che scelsero il suicidio per condizioni di sofferenza insostenibili: i primi tre dovettero lanciarsi nel vuoto, e, come Deleuze, Monicelli e Lizzani definirono disumano negare il diritto all’eutanasia. Magri riuscì ad andare in Svizzera. Dichiarandosi a favore del diritto di essere aiutati a morire, queste persone rivendicano come valori quelli dell’autonomia, della dignità, del rifiuto del prolungamento meccanico della vita, della libertà di scelta (indipendentemente se la vita era alla fine o poteva ancora procedere, ma in modo indesiderato).

Coloro che hanno fatto questa scelta non hanno parlato, in generale, di compassione o di etica medica; alcuni hanno difeso con scritti e azioni la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito per la disumanità di prolungare la vita in condizioni di dolore insopportabile e perché la proibizione è più dannosa.

Chi sostiene la dignità che passa attraverso la cura

Ci sono poi coloro che hanno scelto di continuare nella sofferenza, in quanto contrari ad anticipare la fine. Hanno difeso una dignità che passa attraverso la cura e non la morte indotta, accolto la sofferenza come affermazione della vita o dell’appartenenza o vicinanza a Gesù Cristo, assunto il ruolo di esempi morali e di fondo hanno criticato la modernità che svaluta la vita.

Tra coloro che hanno rivendicato il rifiuto del suicidio o dell’eutanasia nel fine vita, spicca Jéròme Lejeune, che morì per cancro terminale nel 1994: fino all’ultimo si espresse contro l’eutanasia e rifiutò ogni trattamento che abbreviasse la vita. Anche il neurologo e sopravvissuto all’olocausto Viktor Frankl, che morì a 92 anni nel 1997, difese il valore e la dignità della sofferenza, per cui non si dovrebbe scegliere la morte per evitare il dolore.

Il teologo e tra i fondatori dei principi della bioetica, Paul Ramsey, morto nel 1988 dopo una lunga malattia, considerava l’uccisione di un paziente un “collasso morale” della medicina e che la vita andasse preservata anche nel dolore e nell’incapacità. La medicina intesa come qualcosa di astorico nei valori e nell’etica. Da storico della medicina lo trovo davvero singolare, per essere eufemistico: che la vita sia un dono o una condizione indisponibile e debba avvenire in modo naturale è una tesi legittima, che dovrebbe però fare i conti, a meno di un sentimento di indifferenza e disprezzo per il dolore altrui (atteggiamento che non dovrebbe appartenere al cristianesimo), con quanto la morte naturale è cambiata nel tempo. Oggi si muore naturalmente, e sono la maggioranza delle morti, soprattutto in modo degenerativo, dopo mesi o anni di sofferenze spesso non trattabili, trascorrendo le ultime settimane in condizioni che non si vede quale dignità possano contenere. Un secolo fa, e ancor più andando ulteriormente indietro, le morti erano quasi solo acute, o perché si veniva uccisi dalle infezioni o perché non c’erano trattamenti con la ventilazione artificiale, gli anticoagulanti e la chirurgia era più pericolosa del non fare niente.

Diverse figure di spicco, orientate laicamente o materialisticamente e favorevoli all’eutanasia, hanno scelto di affrontare comunque l’avvicinarsi alla fine e bere fino all’ultimo il calice, con argomenti come il rifiuto della consolazione religiosa, l’accettazione della finitudine naturale della vita, l’impegno etico condotto fino alla fine e l’ironia e la serenità. L’elenco sarebbe lungo e include, David Hume, Bertrand Russell, Jacques Monod, Jean Paul Sartre, Albert Camus (morì in un incidente d’auto ma è chiaro come la pensasse), Christopher Hitchens e José Saramago. Richard Dawkins e Michel Onfray sono vivi, vegeti e favorevoli all’eutanasia, ma dicono che accoglieranno serenamente la morte, qualunque sia la condizione.

Nel luglio-agosto del 1974 The Humanist pubblicava un testo intitolato “A Plea for a Beneficent Euthanasia”, che Monod e Russell sottoscrissero, insieme a una cinquantina di scienziati, medici, accademici, intellettuali e leader religiosi (i più numerosi, ma solo protestanti ed ebrei). Firmarono anche: Linus Pauling (due Nobel), Sir George Thomson (Nobel), Joseph Fletcher, Rabbi Daniel Friedman. Rev. D. R. Sharpe, Ernest Nagel, Charles Frankel, O. Ruth Russell e altri.

Che ognuno trovi le sue ragioni

In una società aperta o anche solo eticamente decente, ognuno si riferisce o riflette, se vuole, sull’esempio che preferisce e dovrebbe poter scegliere nel fine vita, esercitando la libertà personale, nella misura in cui rispetta la libertà altrui. Ognuno, famoso o meno, trova le sue ragioni, cioè razionalizza o spiega o si autoinganna più o meno in libertà sul perché sta facendo quello che fa o chiede quello che sta chiedendo o non fa quello che gli altri si aspetterebbero facesse.

In una democrazia liberale si può cambiare idea su tutto, fino al momento in cui si perde irreversibilmente e completamente coscienza. La libertà sarebbe una condizione davvero favolosa per decidere, forse soprattutto nel fine vita. Ognuno dovrebbe poter far valere un’ultima volta i propri valori, dai quali si è fatto più o meno sempre guidare se non danneggia altri (incluso pretendere o ricattare qualcuno per farsi uccidere, quando questi non lo vuole fare). Sostenere che queste persone stanno in realtà chiedendo altro, e che le cure palliative possono essere una risposta è una menzogna detta in malafede: ci sono pochi studi sul numero di persone che scappano dagli hospice o che anche nell’hospice chiedono di essere aiutati a morire (quando hanno qualche sprazzo di lucidità e non sono sedati) e solo nei paesi illiberali o nelle dittature le persone vengono sottoposte a trattamenti ai quali si oppongono.

Il pluralismo è una sorgente inesauribile per il miglioramento umano, scientifico, sanitario, morale, sociale, politico, economico. Se viene più o meno rispettato nei contesti suddetti, per quali ragioni non sarebbe eticamente accettabile la scelta di morire? Se posso scegliere dove e quando comprare della verdura (una scelta davvero irrilevante), in base al prezzo, alla qualità, alla simpatia per i venditori, al tipo di frequentazione del negozio e via dicendo, perché (accidenti!) non posso decidere l’ultima cosa che farò e mi capiterà nella vita? Inclusa l’opzione di chiedere aiuto. Qualunque cosa io pensi e qualunque cosa decida. Stante che, come quando compro le banane, non faccio male a nessuno (che sia parte del mondo empirico), se mi si dà quello che chiedo. Il peso di Dio e dello stato etico collettivista andrebbe lasciato alle opinioni di ciascuno, in un mondo dove la nostra specie ha dato storicamente il meglio di sé nella libertà dei valori laici.