Pubblicato il 27/10/2025Tempo di lettura: 6 mins

Forse anche nel campo della ricerca sull’HIV è tempo di dire basta al paternalismo, sotto diversi punti di vista. 
Il primo punto di vista è quello espresso da Michel Kazatchkine, che è un medico francese ed è stato direttore del Fondo Mondiale contro Aids, Tubercolosi e Malaria, inviato speciale del segretario generale dell’Onu per Hiv/Aids in Europa dell’est e Asia centrale. Insomma, Kazatchkine sa di cosa parla quando prende la parola per aprire la ventesima European Aids Conference dell’European Aids Clinical Society (EACS), che si è svolta a Parigi tra il 15 e il 18 ottobre scorsi.

 Il suo è un intervento preoccupato. I cambiamenti geopolitici ed economici stanno mettendo a rischio vent’anni di progressi, dice. Le repentine decisioni del presidente Trump. appena dopo la sua elezione, riguardo alla chiusura delle attività del fondo Pepfar, alla dissoluzione dell’USAID e all’abbandono delle politiche di sostegno alla salute globale stanno già causando perdite di vite. In particolare, a luglio scorso UNAIDS calcolava che si tradurranno in 6 milioni di nuove infezioni HIV e 4 milioni di morti correlate all’AIDS in più nel mondo entro il 2030. Tutto questo anche perché gli Stati Uniti sono stati negli ultimi dieci anni i donatori più generosi per quanto riguarda la salute globale. Insieme ai dollari, sta per andare perduta l’enorme mole di conoscenze, dati e informazioni che gli USA posseggono. 

Ora la domanda è: si tratta di una tempesta passeggera nella storia degli Stati Uniti che, una volta trascorsa, lascerà posto al vecchio consenso sugli obiettivi di sviluppo che Trump ha completamente abbandonato? Oppure si tratta di un’ondata più grande che rischia di spazzare via le democrazie liberali?

Purtroppo ci sono segnali negativi anche da altri Paesi. In Francia sono stati annunciati tagli significativi all’Official Development Assistance (ODA). Regno Unito, Germania, Olanda e Svizzera, nel contesto della guerra in Ucraina, hanno ribadito che scenari peggiori per il finanziamento alla salute globale sono altamente probabili. E già la Germania pochi giorni fa ha fatto sapere che finanzierà il Fondo globale per la lotta a Aids, Tubercolosi e Malaria con un miliardo di dollari, il 23% in meno di quanto aveva promesso. Mentre anche il Regno Unito dice che sta pensando di togliere un 20% alla cifra indicata precedentemente. L’Ocse ha stimato che gli aiuti allo sviluppo crolleranno di una percentuale compresa tra il 9 e il 15% nel 2025, dopo un abbattimento del 9% nel 2024. Una situazione difficile. Ma, prosegue Kazatchkine, dobbiamo ammettere che il sostegno avuto dagli USA negli ultimi anni ha bloccato alcune riforme strutturali e di governance necessarie per la salute globale. Forse la crisi di oggi si può trasformare in un punto di svolta per un nuovo ordine mondiale nel quale i paesi a medio e basso sviluppo assumano un ruolo centrale nelle decisioni sulla salute mondiale e nel controllo dei fondi internazionali. Insomma, dobbiamo sfruttare il momento per pensare di rivedere una politica sulla salute globale che potremmo definire paternalistica?

Riflessioni analoghe sono state fatte da Yazdan Yazdanpanah, direttore dell’agenzia francese per le infezioni emergenti (ANRS), nella sua relazione dal titolo Siamo preparati per le pandemie? La risposta alla domanda è: no. Il rischio di pandemie è in crescita e i motivi sono molti: l’aumento esplosivo delle connessioni con scambi di beni e persone dovuto a viaggi più veloci ed economici, il cambiamento climatico, l’urbanizzazione, il cambio d’uso dei territori. A questi si aggiungono i tagli ai finanziamenti di cui parlavamo prima, le ineguaglianze tra nord e sud del mondo, l’atteggiamento antiscientifico di una parte della popolazione, la perdita di fiducia, tutte cose che riducono la capacità di prepararsi a una prossima pandemia.

Oggi c’è urgente bisogno di modelli innovativi di collaborazione che non si riferiscano a un singolo attore dominante. La divisione tra noi e loro non tiene più: in questo mondo in cambiamento i paesi sono più simili che diversi. Bisogna però partire dalla constatazione che la tradizionale collaborazione Nord-Sud del mondo nella ricerca ha fallito: l’80% delle pubblicazioni svolte in questa modalità ha come primo nome autori che provengono da Paesi ricchi, e il 90% ha come ultimo nome autori con la stessa provenienza. Anche qui potremmo parlare di una forma di paternalismo o addirittura di colonialismo. I tempi richiedono di passare a una governance condivisa e alla sovranità nella ricerca dei paesi a basso e medio reddito. 
Un altro tipo di paternalismo, ma ugualmente da combattere, è quello che il mondo medico e scientifico ha spesso utilizzato nella comunicazione con il grande pubblico. In una recente indagine su oltre 4000 cittadini francesi, citata da Yazdanpanah, il 62%  degli intervistati era d’accordo sul fatto che c’è molto che non sappiamo sugli effetti a lungo termine dei vaccini a RNA. Tuttavia, l’80% di loro dice di fidarsi di medici e scienziati. «La comunità scientifica dunque ha un obbligo con la popolazione generale. Non dobbiamo più essere paternalistici, ma aperti e onesti. Dobbiamo avere un dialogo bidirezionale su scienza e tecnologia non solo parlando dei loro benefici, ma anche dei loro limiti, dei costi e delle insidie. Solo così ci sarà una convergenza tra scienza e società».

Infine Eve Plenel, attivista per la lotta all’AIDS e direttrice della sanità pubblica di Parigi, ha parlato di un altro paternalismo da sconfiggere, quello delle parole. Nel 2014 Parigi, insieme a UNAIDS, ha lanciato l’iniziativa Fast Track Cities e in dieci anni le nuove diagnosi di infezioni da HIV sono crollate del 33,33%. Come è stato ottenuto questo risultato? La prima cosa da sottolineare, ha detto Plenel, è che «La medicina basata sull’evidenza non basta per spingere all’azione. Se la scienza fosse sufficiente non dovremmo combattere ancora per proteggere i diritti dei migranti ad accedere ai servizi sanitari di base. E non dovremmo spendere anni a dimostrare che la riduzione del danno funziona. Se la scienza fosse sufficiente avremmo già dei programmi per offrire la PrEP  iniettabile alle donne del Sud del mondo. Accanto alla scienza ci vogliono organizzazioni e leader politici coraggiosi». Coraggiosi per esempio nel cambiare i paradigmi, anche linguistici. A Parigi, ha proseguito Plenel, tra le prime cose che sono state fatte c’è quella di aver smesso di usare un vocabolario che minimizza l’oppressione e le ineguaglianze, abbandonando parole vaghe come “gruppi vulnerabili” o “popolazioni fragili”. «Abbiamo cominciato a chiamare le cose con il loro nome. L’incidenza dell’HIV a Parigi nel 21° secolo riguarda quasi esclusivamente uomini gay e bisessuali, migranti dall’Africa subsahariana, donne transgender e lavoratori del sesso». Queste  comunità soffrono di ineguaglianze, razzismo, omofobia, violenza di genere, transfobia, dell’essere messe ai margini ostacolando la loro capacità di agire. Riconoscere legittimità alle loro battaglie è il primo passo, dice Plenel:  «Noi abbiamo mostrato la realtà di queste comunità rompendo con decenni di campagne che, sotto il pretesto di evitare lo stigma, mascheravano la realtà dell’epidemia. Abbiamo riconosciuto l’expertise delle associazioni. Senza paternalismo abbiamo aperto le porte a una rete di piccole associazioni».