Un anno fa, su queste pagine, si raccontava di uno studio che aveva fatto molto discutere: in quasi cinquemila preadolescenti, sesso biologico e genere sembravano lasciare “impronte” in reti neurali in parte diverse, suggerendo che ciò che chiamiamo sesso e ciò che chiamiamo genere non coincidono neppure nel cervello. 

In uno scenario polarizzato, in cui il tema è entrato sempre più nella cronaca politica, la domanda di fondo è semplice solo in apparenza: che cosa sanno davvero oggi le neuroscienze su sesso, genere e identità? Con l’articolo “Sex and Gender Identities Are Emergent Properties of Neural Complexity“, pubblicato su Behavioral Sciences, proviamo a rispondere a questa domanda da un’angolatura diversa: non cercando il “cervello maschile” o il “cervello femminile”, ma partendo dalla complessità dei nostri circuiti cerebrali e chiedendoci perché la diversità di identità sembri quasi inevitabile in un sistema così complesso. 

Cosa ci dice oggi l’imaging cerebrale su sesso e genere

Gli studi che confrontano il cervello di persone assegnate maschi o femmine alla nascita non mancano: differenze medie di volume, spessore corticale o connettività funzionale si trovano, specie in campioni molto grandi. Meta-analisi e studi su migliaia di adulti mostrano, per esempio, variazioni di volume in alcune regioni e nella connettività di grandi reti, ma con una fortissima sovrapposizione tra i due gruppi: la maggior parte dei cervelli si colloca in una zona “intermedia” in cui maschi e femmine sono interlacciati.

Negli ultimi anni, ai classici confronti “maschi vs femmine” si è aggiunto un passo in più: misurare anche il genere, inteso non come anatomia ma come ruoli, comportamenti, aspettative sociali e vissuto identitario. Il grande progetto ABCD negli Stati Uniti è stato uno dei primi a farlo in modo sistematico: nei bambini di 9–10 anni, il sesso assegnato alla nascita si associava soprattutto a differenze in reti sensori-motorie, mentre le misure di genere si collegavano a pattern di connettività più diffusi, che coinvolgevano attenzione, cognizione sociale ed emozioni. Altri lavori stanno ampliando il quadro. Studi su adolescenti mostrano che gli indicatori di gender diversity (come il desiderio di essere trattati come un altro genere o l’esplorazione di ruoli non tradizionali) sono associati a differenze molto sottili in strutture sottocorticali. In altre parole, se si guardano solo volumi o spessori, le tracce neurali della diversità di genere sono deboli.

Parallelamente, modelli di deep learning applicati a immagini MRI strutturali riescono a classificare il sesso con un’accuratezza vicina al 90%, sfruttando pattern distribuiti in tutto il cervello. Questo risultato è spesso citato come prova che esiste un “brain sex” ben definito. Tuttavia, se si osservano con attenzione le mappe di importanza dei modelli, emerge che maschi e femmine differiscono in media, ma condividono gran parte dei pattern rilevanti: è più simile alla differenza statistica tra due distribuzioni che non a due “tipi di cervello” separati.

Commenti e revisioni recenti mettono l’accento proprio su questo punto: le differenze esistono, ma non differenziano. Possono aiutare la ricerca di base, ma non permettono di “leggere” l’identità di una persona da una scansione, né di decidere chi è “veramente” uomo, donna o – soprattutto – altro.

Dal cervello binario al cervello complesso

Qui entra in gioco la prospettiva proposta su Behavioral Sciences: invece di chiederci se il cervello sia “maschile” o “femminile”, chiediamoci come un cervello altamente complesso generi così tanti modi diversi di essere persona.

Un concetto chiave è la degenerazione neurale (neural degeneracy): circuiti diversi, distribuiti in regioni differenti, possono produrre lo stesso risultato funzionale. È una proprietà ben nota in genetica e sempre più considerata nelle neuroscienze: esistono molte configurazioni possibili per sostenere, per esempio, la capacità di camminare, parlare o riconoscere un volto. Questo concetto è applicabile anche all’identità: non esiste un unico “circuito dell’essere uomo o donna”, ma una moltitudine di configurazioni possibili che, in combinazione con il contesto culturale, danno luogo a identità di genere diverse.

Questa prospettiva si appoggia anche ai dati su come il cervello costruisce il senso del sé. Studi di neuroimaging mostrano che il sentirsi un “io” coerente (ovvero riconoscersi come la stessa persona nel tempo e percepire di essere agente delle proprie azioni) emerge dall’interazione tra più reti neurali, incluse la default mode network (coinvolta nell’autoriflessione) e le reti fronto-parietali di controllo. Identità e agentività non sono qualità monolitiche, ma dimensioni che possono dissociarsi, modularsi e diventare più stabili o più fluide a seconda delle condizioni. 

Se mettiamo insieme questi pezzi (degeneracy, reti del sé, plasticità identitaria) il cervello non appare come un organo progettato per produrre due soli tipi di identità fisse, ma come un sistema evolutivamente predisposto a generare e sostenere diversità.

Un viaggio evolutivo: la diversità non è un incidente

Come fanno i miei scienziati preferiti, gli antropologi (gli storiografi delle scienze naturalistiche), per capire meglio quanto la diversità sia un principio emergente che va di pari passo con la complessità cerebrale, occorre inglobare nel discorso dei punti di vista dimenticati nel dibattito pubblico: la diversità di ruoli di genere e di identità non è un’invenzione recente dell’“ideologia moderna”, ma è documentata in molte culture e periodi storici, fino alla preistoria. 

La paleoantropologia e l’archeologia hanno ormai messo in discussione l’idea di una divisione netta e universale dei ruoli (“uomini cacciatori, donne raccoglitrici”). Studi su sepolture di cacciatori-raccoglitori mostrano, per esempio, che in diversi gruppi le donne partecipavano alla caccia grossa in modo sistematico, non come eccezione.

Le scienze sociali e la storia comparata segnalano una grande varietà di categorie di genere, ruoli non binari, figure sociali che non rientrano nello schema “uomo/donna”, dalle two-spirit di molte popolazioni native americane ai ruoli terzi o quarti in altre culture. Questa varietà culturale è coerente con un cervello capace di generare molte configurazioni identitarie, piuttosto che con un organo rigidamente binario.

In questo quadro, come sostiene il nostro articolo su Behavioral Sciences, è lapalissiano che identità di sesso e genere siano proprietà emergenti della complessità neurale: prodotti stabili ma dinamici di reti cerebrali altamente flessibili che interagiscono per tutta la vita con ormoni, ambiente sociale, norme culturali, esperienze soggettive. 

Cosa sappiamo, cosa non sappiamo

Proviamo allora a mettere in fila alcuni punti relativamente solidi:
gli studi di neuroimaging e morfologia cerebrale trovano differenze medie legate al sesso assegnato alla nascita. Ma queste differenze si sovrappongono enormemente: non permettono di assegnare con certezza il sesso di una singola persona dalla sola immagine del cervello;

  • quando si misura anche il genere (ruoli, comportamenti, vissuti identitari), emergono pattern di connettività diversi da quelli legati al sesso biologico, spesso più diffusi e legati a funzioni complesse come la cognizione sociale. Questo suggerisce che il cervello è sensibile alle norme e alle aspettative sociali, non solo ai fattori biologici;
  • studi specifici su persone transgender o gender-diverse indicano associazioni tra identità di genere e il modo in cui il cervello rappresenta il corpo o integra segnali enterocettivi, anche se i risultati non sono sempre convergenti e l’effetto dei trattamenti ormonali è complesso da isolare;
  • le grandi revisioni diagnostiche internazionali – come l’ICD-11 dell’Organizzazione mondiale della sanità – hanno già recepito questi cambiamenti: l’“incongruenza di genere” non è più classificata come disturbo mentale, ma come condizione legata alla salute sessuale. 

Allo stesso tempo, i limiti della conoscenza sono importanti quanto i risultati:

  • molti studi sono correlazionali e non permettono di dire se certe differenze cerebrali “causino” una certa identità di genere o ne siano invece l’effetto, o il prodotto congiunto di biologia e contesto;
  • le misure di genere usate nei grandi dataset sono a volte riduttive (per esempio, si basano su giochi o comportamenti stereotipicamente maschili/femminili riportati dai genitori), e non catturano l’esperienza soggettiva profonda dell’identità;
  • gran parte dei dati proviene da pochi Paesi ad alto reddito, con norme culturali specifiche: non sappiamo ancora quanto questi pattern si generalizzino a contesti sociali molto diversi;
  • gli effetti osservati sono spesso piccoli: per studiarli servono migliaia di soggetti, il che è un’ottima notizia se si teme che un singolo esame possa “decidere” chi è davvero una persona.

Complessità neuroetica: perché conta per il dibattito pubblico

Per facilitare l’intersezione del dialogo pubblico con gli studi sulla complessità, abbiamo introdotto il concetto di Complexity Neuroethics: un quadro che prova a mettere in relazione quello che sappiamo sul cervello con le domande etiche e sociali sull’identità. L’idea di fondo è che, se accettiamo seriamente la complessità neurale e la degeneracy, dobbiamo accettare anche che la diversità di identità è un esito atteso, non una deviazione da un modello “normale”. 

Questo non significa che le neuroscienze debba “decidere” le leggi o dire quale sia la soluzione giusta in materia di terapie o percorsi di transizione: le scelte su cura, diritti e tutele restano inevitabilmente politiche e sociali, negoziate tra valori, esperienze vissute e considerazioni pratiche.

Le neuroscienze possono fare due cose essenziali:

  1. sgonfiare le semplificazioni pericolose. Le evidenze non supportano né l’idea di un cervello rigidamente binario che renderebbe “innaturale” ogni diversità, né l’idea che esista un singolo marcatore neurale in grado di certificare chi è “veramente” uomo, donna o altro;
  2. ricordare che la variabilità è la regola. In un sistema complesso come il cervello umano, le traiettorie identitarie diverse non sono un’anomalia statistica, ma parte del repertorio possibile che l’evoluzione ha reso disponibile proprio per aumentare l’adattabilità dei gruppi umani nel tempo. 

In un contesto in cui le decisioni politiche possono influenzare l’accesso alle cure, il benessere e la sopravvivenza delle persone gender diverse, la cosa più onesta che le neuroscienze possono offrire è un invito alla prudenza: evitare di usare risultati preliminari per giustificare restrizioni o negazioni di percorsi di cura, ma anche evitare di promettere più di quanto i dati consentano, presentando il cervello come un “tribunale” che emette verdetti.

Un cervello complesso per identità complesse

Il messaggio che emerge dalla letteratura recente e dalla prospettiva della complessità è meno spettacolare di quanto a volte si legge sui social, ma forse più utile.

Il cervello “vede” (o, in gergo, “codifica”) il sesso, nel senso che alcune caratteristiche anatomiche e funzionali differiscono in media tra maschi e femmine. Vede anche il genere, nel senso che le norme, i ruoli e le aspettative sociali lasciano tracce nelle reti che sostengono attenzione, emozioni, cognizione sociale. 

Ma soprattutto, il cervello vede la diversità: è costruito in modo tale da poter supportare molti modi di essere sé stessi, molti modi di vivere il proprio corpo, il proprio genere, le proprie relazioni. Invece di chiederci se un cervello sia “abbastanza maschile” o “abbastanza femminile”, la sfida dei prossimi anni sarà capire come tutelare questa complessità nelle cliniche, nelle scuole, e nelle leggi, senza pretendere di ridurla a una scansione, a un numero o a una categoria rigida.