Inizio con una premessa fondamentale: i provvedimenti dell’amministrazione Trump contro il sistema universitario e della ricerca sono un’inaccettabile violazione della libertà di ricerca e insegnamento, una grave minaccia alla libera circolazione delle idee, e sono anche una manifestazione di miope stupidità di un’amministrazione che sembra non comprendere il ruolo che queste università (anche e soprattutto grazie alla loro apertura internazionale) hanno avuto nella costruzione della potenza tecnologica, economica, militare e culturale degli Stati Uniti. Harvard, Princeton, Stanford e le altre più prestigiose università sono state e sono tuttora un pilastro fondamentale su cui poggia la “grandezza” americana che Trump dice di voler rilanciare.

Fatta questa premessa c’è però da chiedersi perché queste politiche sconsiderate abbiano un ampio consenso in una parte rilevante dell’opinione pubblica americana. Queste università sono viste come luoghi principali dell’elaborazione del pensiero progressista e della cultura woke, operano in un contesto globale che supera i confini nazionali e, pur con non pochi limiti, lasciano i propri docenti e studenti liberi di esprimere un pensiero critico anche radicale. Quindi queste università incarnano tutto ciò che l’America trumpiana e i suoi adepti odiano maggiormente e di cui desiderano liberarsi.

Esiste però anche un altro motivo più profondo che ha a che vedere con la crescente polarizzazione della società americana e che vede nelle università, soprattutto quelle più prestigiose, uno dei fattori che hanno ad essa contribuito. Purtroppo questa visione ha un fondamento: anche il sistema universitario ha dato il suo contributo al crescere della disuguaglianza e della frammentazione sociale della società americana. 

È noto che il successo di Trump (come quello delle destre populiste europee) è ampiamente legato alla insoddisfazione e rabbia di una parte consistente della popolazione nei confronti della crescente disuguaglianza sociale. Negli USA e in generale nell’Occidente l’ascensore sociale si è fondamentalmente bloccato negli ultimi quarant’anni. Per gli USA esistono molti studi che certificano questo fenomeno. Per esempio questo, del 2017, mostra che a partire dal 1984 negli USA è crollata la absolute income mobility, cioè la frazione di figli che guadagnano più dei loro genitori. Branko Milanovic ha messo in evidenza la drammatica riduzione della quota di reddito e ricchezza che va alla classe media occidentale (Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, LUISS University Press, 2017) , mentre Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2018) ha mostrato la crescita della quota che va ad un ristretto gruppo di super-ricchi (l’1% più ricco della popolazione).

Questa panne dell’ascensore sociale ha molte cause: riforme fiscali e del welfare fortemente regressive, cambiamento tecnologico, globalizzazione, migrazioni, ecc. ma le università, e in particolare quelle di élite, non sono esenti da responsabilità.

Sono almeno tre i fattori che determinano queste responsabilità: 1) le top universities americane (le 8 della cosiddetta Ivy League1, più Stanford, MIT, Duke e Chicago) ammettono in proporzione molti più studenti provenienti dalle classi più agiate; 2) il rapporto tra i redditi dei laureati di queste università e il reddito medio della popolazione è notevolmente cresciuto; 3) la ricerca svolta in queste università ha avuto un ruolo importante nel promuovere un cambiamento tecnologico che ha effetti negativi sull’uguaglianza sociale.

Per quanto riguarda il primo fattore, Raj Chetty, David Deming e John Friedman mostrano che studenti provenienti da famiglie appartenenti all’1% più ricco della popolazione hanno una probabilità doppia di essere ammessi in una delle 12 università top rispetto a studenti della classe media con la stessa qualificazione accademica. Questa differenza si spiega con l’altissimo costo dell’ammissione (solo in parte compensato da borse di studio e prestiti sull’onore), con la preferenza che le università accordano a studenti imparentati con ex-allievi della stessa università e con l’importanza per l’ammissione delle attività extra-curriculari e sportive che sono tipicamente più frequenti nei curricula di studenti provenienti da famiglie agiate. 

Se esiste questo divario a parità di performance accademica, è peraltro noto da tempo che esiste anche un profondo divario tra le classi sociali nella performance accademica stessa. Per esempio Garcia e Weiss mostrano che questi divari compaiono molto presto (fin dalla scuola materna e elementare) e persistono in tutto la carriera degli studenti. Nemmeno un maggiore coinvolgimento dei genitori nei processi educativi sembra poter ovviare a questi divari, che sono innanzitutto imputabili ai differenziali nella qualità delle scuole e del corpo docente. È noto che uno dei primi fattori che determinano la scelta del luogo di residenza di una giovane coppia statunitense è la reputazione delle scuole limitrofe e che le scuole migliori tendono a essere in aree in cui il prezzo delle case è più alto.

Pertanto le università non fanno altro che rafforzare ulteriormente una divaricazione tra classi sociali che inizia già nei primi anni di scuola. Ma al contrario le università potrebbero fare qualcosa per contrastare questa divaricazione. Interessante a questo proposito è stata l’iniziativa intrapresa nel 2001 da Sciences Po, una prestigiosa grande école francese, di ammettere una quota di studenti provenienti da licei delle periferie povere di Parigi e Nancy. Questa operazione ha richiesto la formulazione di un test di ingresso per questi studenti diverso dalle tradizionali prove scritte e orali che potevano essere superate solo da studenti provenienti dai licei prestigiosi dei quartieri ricchi (si veda per esempio il resoconto fornito dallo stesso curatore di questa iniziativa:  Cyril Delhay, Promotion ZEP: des quartiers à Sciences Po, Hachette, 2006).

Il secondo fattore riguarda invece il maggior reddito che i laureati nelle università top ricevono rispetto ai laureati in altre università e ai non laureati. Lo stesso studio di Chetty Deming e Friedman trova che un laureato di una di queste università ha il 60% di probabilità in più di ritrovarsi nell’1% più ricco della popolazione rispetto a un laureato di un’altra università. Un laureato generico ha poi in media uno stipendio che è superiore del 75% rispetto a un non laureato e questo divario (il cosiddetto college wage premium) è cresciuto costantemente negli ultimi 25 anni (era del 68% nel 2000), con delle flessioni di alcuni punti percentuali solamente durante la crisi finanziaria del 2007-9 e durante la crisi di Covid.

Il terzo fattore non riguarda il ruolo delle università nella formazione ma piuttosto nella ricerca. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un notevole e costante aumento della quota di finanziamento alla ricerca (anche quella di base) proveniente dalle imprese private. Questo aumento ha riguardato anche la ricerca svolta all’interno delle università. Le conseguenze riguardano sia la direzione della ricerca stessa, sempre più determinata dalle opportunità di ritorno economico che essa può offrire (la ricerca medico-farmaceutica offre numerosi esempi), sia la forte spinta verso la privatizzazione dei benefici (con un crescente ruolo dei brevetti, anche per i risultati della ricerca pubblica).

Gli sciagurati provvedimenti dell’amministrazione Trump possono offrire una grande opportunità alle università e alla ricerca europee. La proposta formulata da Ugo Amaldi, Roberto Antonelli, Luciano Maiani e Giorgio Parisi di un piano ventennale di finanziamento della ricerca pubblica in Europa e l’appello Re-Brain Europe chiedono alle istituzioni comunitarie e nazionali europee di impegnarsi in questo senso con le risorse finanziarie necessarie. Diverse università europee hanno già varato programmi che cercano di attirare scienziati in fuga dall’America trumpiana. In un recente articolo su Scienza in rete, Giovanni Dosi e Rocco De Nicola si uniscono a questi appelli, sottolineando però l’esigenza che questo rilancio della ricerca europea riguardi in modo essenziale la ricerca di base curiosity-driven, e che resista alle prevedibili forti pressioni in favore sia della privatizzazione della ricerca sia del suo controllo politico. Condivido totalmente queste raccomandazioni, ma ne aggiungerei una ulteriore: bisogna resistere alle crescenti (e purtroppo largamente vincenti) pressioni sul sistema universitario europeo per diventare sempre più, sul modello americano, una istituzione al servizio della formazione e perpetuazione di una classe sociale privilegiata e di una ricerca prevalentemente a beneficio di una oligarchia industriale. 

Per quanto riguarda la formazione, l’operazione deve partire fin dalla scuola primaria, con investimenti nelle scuole delle aree disagiate e incentivi ai migliori docenti a trasferirvisi. A livello di università occorre ampliare notevolmente il  ricorso alle borse di studio, incentivare la mobilità degli studenti (anche con borse che consentano di trasferirsi lontano dal luogo di residenza), accrescere i legami tra le università e le scuole superiori delle aree disagiate (si veda a questo proposito l’iniziativa della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Progetto Merito e Mobilità Sociale, descritto anche nel volume a cura di Sabina Nuti e Alessandro Ghio, Obiettivo mobilità sociale. Sostenere il merito per creare valore nel sistema Paese, Il Mulino, 2017) e, nel caso vi siano test di ingresso, favorire test centrati sulle capacità psico-attitudinali dei potenziali studenti piuttosto che sulle nozioni da loro apprese nelle scuole superiori.
 

1. Le otto università dell’Ivy League sono tutte sulla costa est e sono: Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Pennsylvania, Princeton e Yale.