Il Guardian ha dato notizia di una recente analisi a cura del Conflict and Environment Observatory (CEOBS) sulle emissioni legate al settore militare. Questo coprirebbe il 5,5% delle emissioni totali di gas serra e, sempre secondo le stime, solo «il riarmo pianificato dalla NATO potrebbe aumentare le emissioni di gas serra di quasi 200 milioni di tonnellate all’anno», cioè tanto quanto si otterrebbe «aggiungendo al budget globale di carbonio rimanente il costo di un Paese grande e popoloso come il Pakistan».
Dice lo studio che «le emissioni generate dai primi 120 giorni del conflitto Israele-Gaza sono state stimate superiori alle emissioni annuali di 26 Paesi presi singolarmente». Dato che si somma a un’altra stima, relativa al conflitto Russia-Ucraina: in Ucraina la guerra sarebbe divenuta la principale fonte di emissioni di carbonio del paese, con 230 milioni di tonnellate di CO2 equivalente alla fine del terzo anno di conflitto. Tante quante le emissioni annuali di Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia sommate (o di di 120 milioni di automobili a combustibili fossili).
Purtroppo, i dati riguardanti le emissioni dei settori militari nazionali sono molto complessi da scovare e in genere si ottengono con ampi intervalli di incertezza; solo i paesi NATO sono un po’ più semplici da studiare. Lennard de Klerk, tra i coautori dello studio riportato dal Guardian, ha infatti specificato: «Abbiamo preso la NATO perché è la più trasparente in termini di spese. Quindi non è che vogliamo concentrarci particolarmente su di essa, ma semplicemente perché dispone di più dati fruibili».
Ovviamente, lo studio ricorda che le forze armate sono spesso le prime a fornire aiuto proprio in occasione di disastri climatici, portando l’esempio di quanto accaduto nel sud della Germania nel 2024, dove la Bundeswehr (cioè l’esercito tedesco) ha garantito un pronto sostegno tramite distribuzione di beni essenziali; così come il Centro per la risposta ai disastri della NATO ha contribuito a combattere incendi in Lettonia e Israele, ma anche grandi nevicate e inondazioni in Albania e Montenegro.
È chiaro però che il potenziamento militare non possa e non debba creare un circolo vizioso, per cui tra l’altro verrebbero sacrificati investimenti nell’adattamento climatico civile, soprattutto nella prevenzione dei disastri. E però è proprio quello che sta iniziando a verificarsi. «Esiste una reale preoccupazione riguardo al modo in cui stiamo privilegiando la sicurezza a breve termine e sacrificando quella a lungo termine», ha affermato al Guardian Ellie Kinney, coautrice dello studio, che continua: «A causa di questo approccio poco informato che stiamo adottando, si investe oggi nella sicurezza militare, aumentando le emissioni globali e peggiorando ulteriormente la crisi climatica in futuro».
Per di più, il cambiamento climatico è considerato tra i fattori di rischio diretto e indiretto dei conflitti più vari. L’esempio che si porta sempre riguarda i conflitti legati alle risorse naturali, acqua in primis. È quanto accaduto in Darfur, in Sudan, dove la scarsità di risorse dopo prolungate siccità e desertificazione è stato dirimente. E ancora, ricordano gli autori, il ritiro dei ghiacci marini in Artico sta alimentando tensioni su chi dovrebbe controllare le nuove risorse accessibili di petrolio, gas (combustibili fossili che butterebbero benzina sul fuoco) e minerali critici.
Le emissioni nel settore militare dipendono sostanzialmente da due fattori: uno è l’uso operativo dei mezzi mobili, che sono molto emissivi a causa di diesel e cherosene (aerei, navi, carri armati, …), l’altro è legato a tutta la catena produttiva, che ha gli stessi problemi emissivi dell’industria pesante. «Innanzitutto, per l’equipaggiamento che acquistano, composto principalmente da acciaio e alluminio, la cui produzione è molto ad alta intensità di carbonio», ha spiegato Lennard de Klerk.
Dal rapporto CEOBS da cui sono tratti i dati: la stima globale delle emissioni operative di gas serra delle attività militari si aggira approssimativamente tra i 300 e i 600 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (MtCO2e), ovvero tra lo 0,6% e l’1,2% delle emissioni globali totali di gas serra. La stima dell’impronta di carbonio complessiva delle forze militari mondiali è invece compresa tra 1600 e 3500 MtCO2e, che rappresentano tra il 3,3% e il 7,0% delle emissioni globali totali. Si tratta di intervalli ampi, che sottolineano la carenza di dati disponibili in questo settore.
Per quanto riguarda l’Europa, una stima probabilmente conservativa indica con quasi 25 milioni di tonnellate di CO2 l’impronta di carbonio del settore militare europeo (considerando sia gli eserciti nazionali che le industrie tecnologico-militari), pari alle emissioni annuali di 14 milioni di automobili.
NOTA: Segnaliamo il sito militaryemissions.org che tenta l’impresa ardua di mappare i dati sulle spese e le emissioni militari nazionali. Nell’ultimo foglio dati si può constatare quanto sia complicato averci a che fare.
Il CEOBS, in generale, sottolinea che la sottrazione di risorse da altri settori può danneggiare l’economia civile, anzitutto perché questo toglierebbe fondi da programmi di riduzione delle emissioni. Il report scrive che
un aumento della spesa militare di un punto percentuale di PIL incrementerebbe le emissioni nazionali totali tra lo 0,9% e il 2,0%. Con le emissioni annuali complessive di 4861 milioni di tonnellate di CO2 equivalente nei 31 Paesi analizzati (dati 2023), l’aumento sarebbe compreso tra 87 e 194 milioni di tonnellate all’anno.
Il problema ulteriore è che «questo aumento delle spese militari sta intaccando la fiducia fondamentale necessaria per il multilateralismo» dice al Guardian Kinney. «Alla COP29, paesi del Sud globale come Cuba hanno sottolineato l’ipocrisia degli Stati disposti a spendere sempre di più per i loro eserciti, ma che offrono impegni di finanziamento climatico del tutto inaccettabili e troppo bassi».
Sempre sul Guardian, un altro articolo dà notizia di stime preliminari ancora non sottoposte a peer-review secondo cui quasi tutte le emissioni di gas serra dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e il cessate il fuoco del gennaio 2025 «è attribuibile al bombardamento aereo e all’invasione terrestre di Israele a Gaza». Per altro, il 30% di queste emissioni sarebbe riconducibile agli Stati Uniti, «che hanno inviato 50.000 tonnellate di armi e rifornimenti militari a Israele», e un altro 20% «alle missioni di ricognizione e bombardamento degli aerei israeliani, ai carri armati e al carburante di altri veicoli militari».
E questo sarebbe un gran peccato, dal momento che
il solare produceva fino a un quarto dell’elettricità di Gaza, una delle percentuali più alte al mondo. Tuttavia, la maggior parte dei pannelli e l’unica centrale elettrica del territorio sono stati danneggiati o distrutti. L’accesso limitato all’elettricità a Gaza ora dipende principalmente da generatori alimentati a diesel.
Tra le raccomandazioni chiave proposte dal CEOBS c’è la richiesta di maggiore trasparenza nella contabilità delle emissioni militari (comprendendo tutta la filiera), la revisione delle linee guida IPCC per facilitare il reporting all’UNFCCC, l’adozione di piani seri di tagli netti alle emissioni militari, e la comunicazione chiara verso i cittadini di come queste spese rallentino consapevolmente il raggiungimento degli obiettivi climatici di Parigi.
Insomma, l’aumento delle emissioni di gas serra dovuto al potenziamento del settore militare è un’altra, ennesima e convincente motivazione per non fare la guerra. Oltre che i morti.