Immaginate di tagliare i Campi Flegrei con un piano verticale in direzione nord-sud che attraversa il centro di Pozzuoli, cioè il punto dove si registra il massimo sollevamento del suolo e si concentrano i terremoti più forti.
Osservando questa sezione, vedreste, a circa un chilometro di profondità, un coperchio formato da prodotti vulcanici cementati naturalmente. Lievemente inarcato, spesso ottocento metri e lungo circa quattro chilometri, il coperchio si interrompe solo in corrispondenza della Solfatara. Vedreste questo coperchio comprimere un ampio sistema geotermale di forma ellissoidale esteso fino a 3,5 chilometri di profondità. Subito sotto trovereste un basamento calcareo fino ad almeno quattro chilometri di profondità. Fin qui nessuna traccia di magma.
Questa la descrizione dei Campi Flegrei ottenuta con la “TAC” più accurata effettuata finora della caldera vulcanica e presentata in uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e coordinato dall’Università di Napoli, Federico II.
Lo studio è stato possibile grazie all’analisi di quasi diecimila terremoti, molti dei quali rilevati negli ultimi tre anni, durante la fase acuta dell’attuale crisi bradisismica. Gli autori hanno impiegato una tecnica chiamata tomografia, che sfrutta le onde sismiche un po’ come una TAC sfrutta le onde elettromagnetiche. Sono stati poi fondamentali gli esperimenti realizzati all’Università di Stanford su due carote rocciose prelevate negli anni Ottanta ai Campi Flegrei.
Oltre a ottenere una fotografia della caldera, gli autori hanno proposto una spiegazione del bradisismo osservato negli ultimi dieci anni, caratterizzato da una prima fase (2014-2020) con terremoti superficiali e di bassa magnitudo e da una seconda fase (dal 2020 in poi) in cui i terremoti si sono fatti più profondi e più intensi.
Secondo gli autori, la caldera si comporterebbe come una grande pentola a pressione, il cui “coperchio” si incrina di tanto in tanto.
Il serbatoio geotermale sottostante è composto da rocce porose impregnate di gas e liquidi – soprattutto acqua e anidride carbonica – a temperature elevate, intorno ai 300 °C.
Quando, per vari motivi (come l’apporto di gas dalla camera magmatica presente a circa sette chilometri sotto la superficie o l’infiltrazione di acque meteoriche), il volume dei fluidi aumenta, il serbatoio si espande: i pori delle rocce si dilatano, un po’ come accade in una spugna che si gonfia. Questa espansione accresce la pressione sul “coperchio” sovrastante, che a un certo punto si fessura, permettendo la fuoriuscita dei gas – per esempio alla Solfatara – e generando piccoli terremoti superficiali.
Allo stesso tempo, la fessurazione del coperchio e la diminuzione di volume del serbatoio alleggerisce la pressione che questi esercitavano sulle pareti verticali della caldera all’interno delle quali si trovano faglie più estese e quindi capaci di generare scosse più intense. Venendo meno la pressione sulle pareti, le faglie si mettono in moto causando terremoti più forti e più profondi.
Questa descrizione invita anche a ripensare l’approccio alla gestione del rischio ai Flegrei.
«All’inizio della crisi, la sismicità e la deformazione del suolo non sono stati considerati come rischi in sé, ma solo come strumenti per monitorare il rischio di un’eruzione vulcanica», commenta Grazia De Landro, ricercatrice alla Federico II e prima autrice dello studio. «È vero che un’eruzione vulcanica è l’evento che causerebbe la massima distruzione possibile, ma è anche il meno probabile, mentre il sollevamento del suolo e i terremoti hanno già provocato danni alle infrastrutture», continua De Landro.
Alcune ricerche hanno suggerito che un’eruzione vulcanica potesse non essere così improbabile, rilevando la risalita di magma verso la superficie dalla camera magmatica profonda a sette-otto chilometri di profondità. In particolare, uno studio di tomografia condotto nel 2024 considerando un numero minore di terremoti (circa mille) ha concluso che a cinque chilometri di profondità si starebbe accumulando del magma.
«Le immagini tomografiche della caldera, ottenute utilizzando la sismicità attuale, hanno una scarsa risoluzione al di sotto di quattro chilometri di profondità. Ciò è dovuto alla distribuzione degli eventi sismici, che sono tutti più superficiali; di conseguenza, è rischioso interpretare le caratteristiche dei modelli tomografici a profondità maggiori», commenta De Landro. Studi recenti, tra cui il ricco catalogo sismico ottenuto con l’intelligenza artificiale, non trovano indicazioni di una risalita del magma.
Il ruolo e la posizione che questo studio attribuisce al serbatoio geotermale suggerisce in particolare la necessità di considerare il rischio di eruzioni freatiche, esplosioni di vapore, acqua, cenere e frammenti rocciosi. «Tali eventi, sebbene non direttamente causati dal magma, potrebbero comunque presentare rischi sostanziali. Di conseguenza, questi risultati evidenziano la necessità di integrare gli scenari di esplosione freatica nei piani aggiornati di mitigazione del rischio vulcanico per la regione dei Campi Flegrei», hanno scritto gli autori nelle conclusioni dello studio.
Come si fa la “TAC” ai Campi Flegrei
La tomografia assiale computerizzata, TAC, del corpo umano è basata sul fatto che tessuti diversi assorbono le onde elettromagnetiche (i raggi X nel caso della TAC) in modo diverso. Osservando l’attenuazione dei raggi X da diversi punti è possibile di ricostruire una serie di sezioni adiacenti del corpo che insieme compongono un’immagine tridimensionale.
Un principio simile si può sfruttare con le onde sismiche, che sono però onde meccaniche. La loro velocità di propagazione nella crosta terrestre dipende in sostanza da rigidità, densità e temperatura delle rocce di cui essa è formata.
In uno studio di tomografia sismica si divide in tante celle cubiche il volume della crosta terrestre che si intende analizzare. Quando le onde sismiche viaggiano dal punto dove ha avuto origine la frattura verso la superficie, attraversano alcune di queste celle e poi vengono rilevate dai sismografi.
Studiando i tempi che hanno impiegato per arrivare dalle sorgenti ai sismografi, si può ricostruire la velocità a cui hanno viaggiato in ciascuna cella.
Per questo studio, i ricercatori hanno considerato circa diecimila terremoti rilevati tra il 2014 e il 2024 dalle oltre cinquanta stazioni sismiche che monitorano i Campi Flegrei.
«Avere a disposizione di un numero così elevato di dati di alta qualità, sia per quanto riguarda la distribuzione degli eventi sismici sia quella delle stazioni, ci ha consentito di aumentare la risoluzione della tomografia», spiega De Landro. «Ogni dato corrisponde a un raggio sismico che attraversa il sottosuolo: maggiore è il numero e la varietà di questi raggi, maggiore sarà il dettaglio con cui possiamo ricostruire il modello di velocità. È un po’ come passare da un’immagine sgranata a una sempre più nitida, man mano che si aggiungono pixel. Nel nostro caso, ogni cella, il nostro “pixel”, misura 250 metri di lato» aggiunge De Landro.
La mappa di velocità viene ottenuta attraverso una procedura iterativa che parte da un’ipotesi iniziale sulla struttura della caldera. Questa ipotesi influenza il risultato finale e dunque deve essere ben giustificata. Gli autori di questo studio la hanno formulata sulla base di campioni di roccia prelevati negli anni Ottanta. I campioni erano stati prelevati fino a tre chilometri di profondità dai pozzi scavati da Agip ed Enel, che cercavano sorgenti geotermiche. «Ancorare l’ipotesi iniziale alla realtà litologica dei Campi Flegrei è la scelta più robusta che si possa fare», spiega De Landro.
I campioni dimenticati a Stanford per interpretare la “TAC”
Una volta trovata la mappa di velocità nella caldera, gli autori ne hanno cercato un’interpretazione geologica.
Si sono concentrati in particolare sul volume ellissoidale che la tomografia individua tra due e 3,5 chilometri di profondità, caratterizzato da un valore anomalo del rapporto tra la velocità delle onde sismiche longitudinali e di quelle trasversali.
Per interpretare questi dati è stato fondamentale poter condurre esperimenti di fisica delle rocce nel laboratorio di Vanorio su campioni da carotaggi di pozzo.
«Sono arrivata per la prima volta a Stanford subito dopo il dottorato nel 1999 e ho portato con me campioni delle carote rocciose dei Campi Flegrei provenienti dai pozzi realizzati a San Vito e Mofete», racconta Tiziana Vanorio, nata e cresciuta a Pozzuoli e che oggi dirige il laboratorio di fisica delle rocce e di geomateriali dell’Università di Stanford. «Sono poi tornata in Europa per qualche anno e non ho pensato di portarli con me, ma che poi ho ritrovato quando sono tornata qui nel 2005, li ho ritrovati», racconta.
«In laboratorio, abbiamo riprodotto le condizioni di pressione e temperatura che ci aspettiamo di trovare a quella profondità e abbiamo iniettato acqua calda, aumentando così la pressione nella struttura porosa della roccia, misurando contemporaneamente come varia la deformazione volumetrica e la la velocità di propagazione delle onde sismiche. Variando la pressione del fluido, mantenendo costante la temperatura, l’acqua si trasforma da vapore in liquido.»
Le velocità misurate sono state confrontate a quelle ottenute dalla tomografia sismica e corrispondono ad un range di pressione del fluido in cui prevale acqua liquida arricchita in gas vapore.
Questo corrobora l’ipotesi che il corpo ellissoidale individuato tra due e 3,5 chilometri di profondità sia un sistema geotermale dominato da acqua in pressione arricchita in fasi gassose.
La presenza di un sistema del genere era stata ipotizzata per la prima volta quarant’anni fa da Richard Aster, geofisico all’Università del Colorado, analizzando qualche centinaio di terremoti registrati durante la crisi bradisismica del 1982-84.
«Usando tecniche di imaging sismico all’avanguardia, questo studio fornisce un aggiornamento tempestivo e necessario sulla sismicità e sull’instabilità generale di questa regione in un contesto petrografico e di fisica delle rocce», ha commentato Aster, che è stato uno dei revisori dell’articolo.
«L’analisi usa un campione di dati sismici di un ordine di grandezza superiore rispetto a quello considerato nelle precedenti analisi, condotte da me nel 1989 e da Vanorio nel 2005, e fornisce un’immagine eccezionale di un sistema calderico sismogenetico in espansione», ha concluso Aster.




