Lo scorso gennaio il giornale Al Jazeera riportava una stima di 85.000 tonnellate di bombe che, lanciate su Gaza durante il conflitto, hanno ridotto in tonnellate di rovine le abitazioni. Si stima che circa il 10% delle bombe possa aver avuto dei malfunzionamenti e quindi non sia esploso, rimanendo sommerso sotto ai detriti. Queste bombe sono una minaccia importante per la popolazione di Gaza ancora presente sul territorio, perché rendono la striscia simile a un gigantesco campo minato, un ostacolo pericoloso per le persone in cerca di eventuali superstiti oppure degli oggetti che le hanno accompagnate durante la vita.

Gli ordigni esplosi e non esplosi sarebbero anche la causa del rilascio di sostanze tossiche nel terreno e nella falda, avvelenando i superstiti e i loro discendenti. Per esempio, alcuni metalli pesanti come arsenico, cadmio, mercurio, piombo o cromo vengono rilasciati più o meno lentamente dalle munizioni e dai detriti. Queste e altre sostanze possono persistere per lungo tempo negli ecosistemi, spostandosi lungo la catena trofica e accumulandosi nelle carni animali e nelle piante e rendendo il luogo pericoloso per la vita umana. Inoltre, la Ong Human Rights Watch e altre organizzazioni hanno diffuso report sull’uso di armi vietate dai trattati internazionali come quelle contenenti fosforo bianco, un agente che può rimanere nei suoli per diversi anni causando problemi alla sopravvivenza di piante, animali ed esseri umani. In alcune circostanze, questa sostanza può causare pericolosi incendi spontanei. Molti di questi inquinanti sono destinati a rimanere nell’ambiente di Gaza per un lungo periodo, a meno che non vengano svolte rapidamente delle operazioni di bonifica.

Una ripresa difficile, l’esempio di Verdun

Un esempio della portata distruttrice prolungata nel tempo della guerra ci giunge dalla storica battaglia di Verdun, iniziata il 21 febbraio 1916. Si tratta di una battaglia molto diversa dalla situazione di guerra che vediamo oggi: il contesto storico era quello della Prima Guerra Mondiale e nel conflitto si affrontavano le armate francesi e tedesche, trincerate nelle colline verdi intorno al forte di Douaumont. La battaglia terminerà – anche se non in modo definitivo – a dicembre dello stesso anno, lasciando dietro di sé centinaia di migliaia di morti delle due fazioni e un paesaggio radicalmente modificato (qui per saperne di più). Infatti, non c’è più traccia né dei borghi né dei campi che caratterizzavano l’area. Le esplosioni provocate dalle bombe sono arrivate a colpire in profondità, forando lo strato impermeabile della falda. Quelle cadute nella campagna hanno spianato le colline, in certi punti anche per più di sei metri, mentre un cumulo di pietre segna per sempre la scomparsa di insediamenti umani. Le fotografie che ci arrivano dall’immediato dopoguerra mostrano un paesaggio simile alla superficie lunare, composto soltanto da terra e pietre. In alcune zone i buchi a forma di cono lasciati dalla guerra più di cento anni fa hanno raccolto l’acqua piovana creando piccole zone umide che ancora oggi sono un ricordo di quanto accaduto.

Secondo gli archivi del governo, nel 1919, a guerra finita, lo stato francese prende in custodia la zona di Verdun e la dichiara zona rossa (zone rouge): un’area di 120.000 ettari interdetta alle attività commerciali e agricole e alle costruzioni umane. I motivi di questo intervento sono da riportare allo stato dell’ambiente naturale circostante e la forte presenza di batteri pericolosi, dovuti all’alta presenza di cadaveri umani e animali su cui si sono sviluppati prima di raggiungere la falda ormai resa altamente permeabile. Lo stesso hanno fatto inquinanti chimici o industriali come i metalli pesanti che ancora oggi vengono costantemente rilasciati dai residui bellici dell’epoca.

Nonostante la zona rossa sia andata riducendosi negli anni, è presente tutt’oggi in molte aree. Risanare un terreno martoriato dalla guerra implica azioni come l’immissione di cloro nell’acqua per eliminare residui batterici, la rimozione di resti, umani e bellici, e di detriti. Ancora oggi, ogni anno, vengono rimosse dal suolo della campagna di Verdun circa 30 tonnellate di pericolosi resti del violento passato. Il Ministero delle armate francese (l’equivalente del nostro Ministero della difesa) sottolinea che per bonificare completamente la zona bisognerebbe agire su diverse decine di migliaia di ettari di terreno, a livello del quale sarebbe necessario rimuovere la copertura boschiva che negli anni si è sviluppata, poi scavare più di un metro di suolo e cercare gli esplosivi sepolti, alcuni dei quali potrebbero ancora esplodere se non disarmati correttamente.

Uno studio pubblicato nel 2007, condotto da due tedeschi dell’Università di Johannes-Gutenberg di Mainz, Tobias Bausinger e Johannes Preuss, e da un francese dell’Ufficio Nazionale delle Foreste, Eric Bonnaire, ha mostrato che i livelli di alcuni inquinanti sono ancora molto elevati in diverse aree del conflitto. Tra quelli che persistono ancora dopo più di cento anni vi è l’arsenico, un elemento chimico molto tossico già a piccole dosi e particolarmente presente nelle aree dove sono state accumulate le munizioni e i resti bellici dopo la guerra. Nelle zone rosse sono state trovate concentrazioni di arsenico 10.000 volte superiori al normale, in aree in cui neanche le piante riescono a crescere, eccetto per tre specie particolarmente coriacee (Holcus lanatus, Pohlia nutansCladonia fimbriata).

Verdun non è l’unico esempio del futuro difficile delle zone di conflitto: la guerra del Vietnam è uno di quelli che hanno lasciato cicatrici dolorose che ancora oggi faticano a rimarginarsi. Anche qui inquinanti simili a quelli sopra descritti sono una piaga per la ripresa di aree che forse non somiglieranno mai più a quello che erano: a oggi mancano proprio i servizi resi dagli ecosistemi, un tempo dati per scontati, come l’acqua potabile, l’aria pulita e le terre coltivabili senza il rischio di avvelenamento per la popolazione umana e per il bestiame. In Vietnam, sono gli effetti del famoso Agent Orange a rimanere nel tempo nel modo più evidente. Ancora oggi, nonostante siano passati cinquant’anni dalla fine della guerra, questo terribile defoliante usato nella guerra dagli americani per esporre le fila nemiche è la causa di numerosi problemi di salute gravi nei nuovi nati e nel resto della popolazione. Tra le patologie osservate con una numerosità anomala vi sono tumori, malformazioni (in particolare al sistema nervoso e alla spina dorsale) e gravi malattie congenite.

Una Gaza nel futuro

Siamo ormai abituati ai discorsi di Trump, che pure ogni volta ci meravigliano e spesso ci sorprendono, ma il video generato con intelligenza artificiale postato il 25 febbraio 2025 in cui si vedono il Tycoon e Netanyahu prendere il sole e divertirsi nella “Gaza del futuro” rappresenta qualcosa su tutt’altro livello. Infatti, nonostante i molti dubbi che fosse soprattutto una provocazione, il video rimane anche una delle poche proposte concrete sul piano internazionale per il futuro della striscia. Gaza – senza i suoi abitanti – diventerebbe una meta ambita con resort di lusso a due passi dagli alleati più distanti degli Stati Uniti e, soprattutto, una proprietà americana.

Nel suo discorso del 4 febbraio 2025, Trump parla per la prima volta della “Riviera del Medio Oriente”, un progetto che secondo lui porterà pace e prosperità alla striscia di Gaza. Infatti, nel video, sulla costa ora devastata dalle bombe si vedono grattacieli e ville che ricordano quelle californiane. Nel futuro dipinto da questo video piovono soldi e spopolano statue d’oro del Tycoon; a richiamare il lusso anche hotel, ristoranti e piscine.

Secondo il diritto internazionale, gli Stati Uniti non hanno alcun titolo di reclamare la terra di Gaza e neanche quella di Panama o della Groenlandia; qualsiasi azione diretta o violenta comporterebbe pesanti sanzioni. Inoltre, Trump ha sempre comunicato ai suoi elettori di essere un portatore di pace, arrivando ad annunciare di meritare il Nobel. La BBC suggerisce che queste dichiarazioni potrebbero rientrare in una “strategia negoziale assurda” per il futuro di Gaza e la risoluzione del conflitto con Israele.

Quello che più ci mostra questo video e quanto successo in seguito è quanto il futuro di Gaza sia incerto e quanto penda da un filo molto sottile legato al resto del mondo. È quindi importante comprendere il costo economico che questa guerra porterà ai futuri gestori della striscia di Gaza.

Oltre le macerie: Gaza e l’eredità tossica dei conflitti

L’agenzia palestinese delle Nazioni Unite comunica che, dopo la guerra, la bonifica del territorio di Gaza sarà molto complessa e costosa. Secondo le stime, ci vorrebbero circa 53 miliardi di dollari americani solo per ricostruire Gaza: di cui 29,9 per ricostruire le infrastrutture, 15,2 per ricostruire le case e 19,1 miliardi per ristabilire l’economia. Oltre alle cifre mostruose da distribuire su dieci anni, l’instabilità politica della striscia di Gaza è una peculiarità che lascia un forte dubbio sulla capacità di ripresa del territorio.

Anche nella speranza che il conflitto possa risolversi presto e nel migliore dei modi, la portata della guerra non terminerà con la fine dei bombardamenti. I veleni di Gaza saranno una delle future sfide e necessiteranno sicuramente di una soluzione per rendere quelle terre di nuovo abitabili. Oggi conosciamo meglio il funzionamento degli ecosistemi e sappiamo che la questione ambientale non sarà limitata ai territori di Gaza; gli inquinanti della striscia sono già osservabili nel Mediterraneo – lo si è misurato durante tutto il conflitto – e si estendono quindi fino a noi, tramite le migrazioni degli animali e le correnti marine.

I costi e le difficoltà politiche, sociali e ambientali lasciano pensare che difficilmente un’unica nazione potrà gestire in solitaria la ricostruzione del territorio di Gaza e sarà pertanto necessaria una collaborazione tra tutte le parti. Oltre a Trump, anche l’Egitto si è fatto avanti con una proposta che vede la collaborazione degli stati arabi. Quest’ultima è sostenuta dalle Big Four europee (Francia, Regno Unito, Italia e Germania).

Nel frattempo, le Nazioni Unite comunicano che continueranno il loro supporto umanitario e finanziario anche dopo la fine dei conflitti in modo da partecipare alla ricostruzione delle fondamenta sociali e finanziarie. In particolare, Muhannad Hadi, assistente segretario generale delle Nazioni Unite e coordinatore umanitario, sottolinea l’importanza di far ripartire i servizi fondamentali quando verranno iniziate le operazioni di rilancio a lungo termine.