Dove ci sono alberi vi è, necessariamente, l’acqua, senza la quale la vita è impossibile. Dove mancano l’acqua e gli alberi compare il deserto (Gen 1,11-12; 2,8-9)
Nell’immaginario di molti il deserto appare come una distesa di sabbia e rocce arse dal sole che creano un ambiente inospitale, dove la vita è impossibile, ma la natura sa meravigliarci anche in ambienti come questo. Esiste un luogo sperduto nel Sahara, esteso per oltre 700 km2 nell’altopiano del Tassili n’Ajjer dove il nulla regna sovrano, ma nel quale sopravvivono ancora 233 esemplari di cipresso di Duprez. Alcuni di questi alberi risalgono a 3.500 anni fa e probabilmente a quei tempi ce ne erano tanti quanti se ne possono trovare in un’intera foresta.
I cipressi di Duprez sono come un diario antico: ci raccontano di un mondo cambiato e stravolto, di un deserto in cui scorrevano fiumi e che brulicava di vita… Com’è possibile che oggi il deserto del Sahara ci appaia così diverso? E come può un albero aggrapparsi alla vita così a lungo e in condizioni estreme?
Le prime notizie dei cipressi di Duprez (nome scientifico C. dupreziana) risalgono a Plinio il Vecchio che, nel I secolo d.C., li descrive nel deserto. Si tratta di una pianta endemica, esclusiva di queste zone, dalle caratteristiche fuori dal comune: non solo per la capacità di sopravvivere in luoghi dal clima estremo, ma anche e soprattutto per la straordinaria longevità e per le dimensioni raggiunte. I cipressi di Duprez sono l’unica specie capace di vivere migliaia di anni crescendo fino a 20 metri di altezza nel Deserto del Sahara, con tronchi dal diametro di 4 metri, un perimetro di 12 e chiome estese tra i 15 e i 20 metri. La loro rarità li ha resi patrimonio dell’Unesco e l’area è diventata parco nazionale.
Questi alberi, le uniche piante arboree che crescono su un altopiano tra i 1.400 e 1.800 metri di quota, costituiscono un ecosistema in grado di creare una fonte di nutrimento e di riparo. Ogni pianta ospita circa 11.000 specie di batteri e 5.000 specie di funghi e le chiome sono rifugio per tantissime specie di insetti e uccelli.
«Questi alberi vivono nei letti di alcune fiumare che al momento delle precipitazioni, anche se molto ridotte, si riempiono di un pochino d’acqua e così riescono a sopravvivere nell’aridità del deserto», racconta Gianni della Rocca, ricercatore tecnologo presso l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR di Firenze. «Per farlo mettono in atto alcune strategie: sviluppano un apparato radicale profondo ed esteso per captare e assorbire le falde acquifere, ma anche un apparato radicale estremamente superficiale – così da raccogliere quelle pochissime precipitazioni e avere quindi subito a disposizione l’acqua. Inoltre», prosegue Rocca, «hanno sviluppato ulteriori accorgimenti che garantiscono la capacità di resistere alla disidratazione, come la chiusura degli stomi (strutture presenti sulle piante che regolano la traspirazione, N.d.R.) per tempi prolungati e la capacità di assorbire direttamente dalle foglie l’acqua e l’umidità atmosferica».
Da secoli questa specie non si riproduce quasi più e la pianta più giovane, che ora ha una sessantina d’anni, è stata scoperta intorno al 1970. Negli ultimi cinque anni, inoltre, sono state inoltre scoperte almeno otto piante morte su sessanta visitate – corrispondenti a circa il 10% della popolazione nota. Questo fenomeno è dovuto a un insieme di fattori diversi: la difficoltà germinativa intrinseca dei semi, il cambiamento climatico e l’inaridimento del suolo che rendono quasi impossibile la rigenerazione di queste piante. Trovandosi già in un ambiente estremamente al limite e fragile, anche una variazione minima può comportare il crollo dell’equilibrio biologico e quindi la fine della vita.
Oltre a queste ragioni più ovvie ci sono anche altre motivazioni, come la distanza che separa gli alberi tra loro (a eccezione di due piccoli nuclei, gli altri sono completamente isolati nel mezzo del deserto). Questo distacco geografico porta a un problema “genetico”: rende estremamente difficile la fertilità incrociata tra gli esemplari e porta alla nascita di cloni con validità genetica ridotta, e perciò con una limitata adattabilità al cambiamento. Un altro problema importante è la predazione, soprattutto quella umana: gli alberi di C. dupreziana, prima di diventare specie protetta, venivano tagliati e mutilati dalle popolazioni che vivevano sull’altopiano e dai migranti dal Niger in viaggio per raggiungere l’Europa, per ricavare selle di dromedario, legna da ardere, impugnature di armi, attrezzi da cucina e porte.
Attualmente non c’è un vero proprio programma che metta insieme tutte le risorse o le possibilità per salvaguardare questa specie rara. Tutte le ricerche scientifiche su C. dupreziana, così come su quasi tutte le specie del deserto, sono state svolte sempre in modo individuale. Purtroppo non esiste un contesto globale che organizzi e finanzi dei programmi per preservare la biodiversità sorprendentemente elevata dei deserti, nonostante questi coprano il 17% della massa terrestre. I deserti, infatti, sono raramente considerati aree prioritarie per la conservazione a causa della loro produttività relativamente bassa, eppure sistemi ospitano specie uniche, adattate ad ambienti difficili e altamente variabili.
Per trovare una soluzione a questa mancanza un gruppo di studiosi, interessati e sensibili all’argomento, tra cui Gianni della Rocca, ha fondato il progetto Tarout: si tratta di un progetto non finanziato, quindi realizzato su base volontaria con risorse proprie, che coinvolge svariate discipline in modo da mettere insieme più competenze possibili. La finalità del progetto è provare a capire le molteplici cause del declino dei cipressi di Duprez e trovare il modo di fermarlo, accendere a un interesse politico e poter ottenere le risorse economiche necessarie alla preservazione.
Anche negli ambienti che ci sembrano privi di vita si può trovare biodiversità e il cipresso di Duprez ne è un esempio. Preservarlo significa per garantire la continuità di ecosistema prezioso e fragile, che ci ricorda la meraviglia della natura anche nel deserto.
Questo articolo è il risultato di un progetto PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) che ha coinvolto la 3°F del Liceo Classico e Linguistico G. Romagnosi di Parma, dedicato alle discipline STEM, al racconto della biodiversità e allo sviluppo di competenze di scrittura giornalistica.
Il progetto è stato ideato da Alessia Lodola e Alessandro Vitale, comunicatori della scienza, e dalla professoressa Mariangela Fontechiari, con la partecipazione della giornalista scientifica Anna Violato.
Le studentesse hanno lavorato in autonomia cercando una storia originale, sviluppando una scaletta, i contenuti e curando le interviste agli esperti, con solo un limitato apporto di editing finale. Leggerle è stato un piacere e speriamo sia lo stesso per voi.