Se la prossima volta che inviate un articolo a una rivista scientifica vi sentirete chiedere un documento d’identità, non abbiatene a male. Le case editrici si interrogano su quale sia il miglior metodo per verificare di avere a che fare con un ricercatore o una ricercatrice reale. Nel mondo editoriale, dove tutte le interazioni avvengono per e-mail, c’è sempre maggior preoccupazione per i furti d’identità. Questi vengono perpetrati attraverso indirizzi e-mail apparentemente legittimi, fino ad arrivare a produrre autori inesistenti, con indirizzi in università o centri di ricerca reali. 

Costruire un ricercatore fittizio non è neanche troppo difficile. Abbiamo già raccontato la storia del gatto che scriveva articoli di matematica oppure della ricercatrice francese immaginaria, ma questi erano casi allestiti dai ricercatori per mettere in luce le storture del sistema di valutazione basato sul conteggio degli articoli e delle loro citazioni. Non sono queste azioni dimostrative che preoccupano le case editrici ma piuttosto il variegato sottobosco delle paper mills, società che vendono articoli taroccati o inventati di sana pianta.

Tutto deriva dalla pressione a pubblicare sempre di più che caratterizza il mondo della ricerca, dove avanzamenti di carriera, e magari anche la possibilità di ottenere finanziamenti, dipendono dalla produttività. Dato che valutare la qualità delle pubblicazioni è più difficile che contarle, in molti casi a pesare è soprattutto la quantità. 

Questo spiega la nascita delle paper mills, organizzazioni che vendono a ricercatori bisognosi di pubblicazioni la possibilità di firmare articoli, per lo più costruiti ad hoc con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Ovviamente quest’ultima non è né originale né infallibile e il risultato dipende dal tempo e dall’attenzione investiti nella costruzione di un testo. Visto che le fabbriche di articoli non possono andare tanto per il sottile, spesso i testi sono scopiazzati e di scarsa qualità. Capita anche che contengano errori che sarebbero facilmente individuati nel processo di valutazione dell’articolo da parte di esperti ed esperte del settore: quello che in gergo si chiama referee, che è come l’arbitro di una partita di calcio. 

Dal momento che difficilmente un cliente pagherebbe per un articolo rifiutato dalla rivista, occorre che i gestori delle paper mills siano sicuri di avere referee compiacenti che approvino i lavori ricevuti. Per arrivare a questo risultato si possono percorrere due strade: farsi passare per un vero ricercatore conosciuto e rispettato grazie a un furto d’identità mail (per esempio il caso STOTEN), oppure creare di sana pianta un profilo da ricercatore o ricercatrice da utilizzare al bisogno. Questo secondo processo è più lungo e complesso ma è quello che, qualche anno fa, è stato smascherato in un lungo lavoro da parte di “detective scientifici”.

Tutto è iniziato nel 2018 con la segnalazione di un lettore che aveva trovato due articoli palesemente falsi quasi identici in due diversi giornali di area matematica appartenenti al gruppo editoriale Springer Nature. Ne è seguita un’indagine, la quale ha messo in luce che i referee dei due articoli erano personaggi inventati, comparsi anche come autori di articoli nelle stesse riviste. Il fatto stesso di essere autori di articoli pubblicati li rendeva idonei a essere suggeriti come possibili referee aprendo la porta alla pubblicazione di lavori prodotti dalla paper mill che li aveva creati. Per vendere la firma su articoli tarocchi a scienziati reali le paper mills hanno creato autori immaginari per trasformarli in referee compiacenti. Gli investigatori si sono resi conto che tra il 2011 ed il 2020 quella particolare paper mill aveva pubblicato 55 articoli con l’aiuto di 13 referee, tutti ovviamente fasulli. E con affiliazioni in tutto il mondo. 

Dal lavoro investigativo, è emerso come il ruolo fondamentale nell’industria delle pubblicazioni tarocche sia giocato dai referee, dal momento che autori di poche pubblicazioni vengono proposti per decine di valutazioni. Così, la paper mill riesce a far accettare più facilmente gli articoli, presentandosi ai propri clienti come capace di garantire la pubblicazione dei lavori che vendono. 

Come mostrano i risultati dell’inchiesta su 12 gruppi editoriali scientifici, la frequenza degli articoli falsi che ricevono è simile a quella dei suggerimenti dei nomi di referee compiacenti (immaginari oppure ottenuti con furto di identità). Qui è disponibile un grafico che evidenzia la frequenza di proposte fraudolente (l’articolo è a pagamento).

L’ultimo tassello è venuto dal controllo delle affiliazioni, quando è risultato chiaro che i presunti ricercatori non avevano mai fatto parte dello staff delle istituzioni alle quali dichiaravano di appartenere. Ovviamente, i loro indirizzi mail – apparentemente istituzionali – erano alias, pertanto indirizzi fittizi.

Le 55 pubblicazioni sospette sono state ritirate, ma è chiaro che la truffa scoperta è la cima dell’iceberg e che il problema è alla radice. Se la tua carriera dipende dal numero di lavori pubblicati, indipendentemente dalla loro qualità, ci sarà sempre qualcuno interessato a comprare i servizi dei fabbricatori di articoli.  Per questo le riviste devono controllare l’identità delle persone che sottomettono articoli. 

Una piattaforma molto utilizzata dagli editori è l’Open Researcher and Contributor ID (ORCID), lanciata nel 2012 come servizio di identificazione gratuito che chiunque può utilizzare per registrare se stesso e i propri articoli, libri eccetera. Circa 10 milioni di ricercatori utilizzano ORCID, un numero unico di 16 cifre, che segue la persona per tutta la sua carriera anche se cambierà affiliazione. Per questo motivo i principali editori richiedono agli autori che inviano articoli di specificare il proprio identificativo ORCID che, tuttavia, non fornisce prova certa di identità. Chiunque può registrarsi sulla piattaforma, che non discrimina account duplicati. Prova ne sia che dai risultati dell’indagine sui 12 editori, l’utilizzo di ORCID fasulli è piuttosto comune.

Conscia di questa pecca, la piattaforma chiede alle sue quasi 1.500 organizzazioni affiliate di contribuire ai suoi archivi confermando informazioni quali affiliazioni, pubblicazioni, finanziamenti. Queste voci verificate, denominate trust marker, appaiono come segni di spunta verdi sui profili dei ricercatori.

Circa 5,7 milioni di account ORCID contengono almeno un indicatore di affidabilità. Per curiosità sono andata a vedere il mio profilo ORCID e ho trovato che l’unico punto non marcato in verde è il mio indirizzo mail, perché mi sono iscritta con quello personale piuttosto che con quello istituzionale.

Visto il pressante bisogno di identificazione certa da parte delle case editrici, alcune start-up sono già in pista per offrire i metodi più idonei. All’inizio di quest’anno, Laurel Haak, che è stata la direttrice esecutiva oltre che fondatrice di ORCID, ha lanciato una piattaforma di verifica dell’identità chiamata VeriMe che ha sede a Denver, in Colorado. Con un finanziamento iniziale da parte dell’azionista di maggioranza di Springer Nature, si presenta come un’integrazione di ORCID. Gli utenti possono registrarsi sulla piattaforma dopo aver completato un’autenticazione a più fattori e aver inserito le loro affiliazioni, gli indirizzi e-mail istituzionali, il profilo ORCID. Per la convalida di passaporti e documenti di identità ufficiali bisogna passare al livello a pagamento perché, a quel punto, occorre gestire problemi di privacy non banali.