I veneziani, tradizionalmente, andavano in barca a farci le scampagnate: lo si vede ancora in una scena del film Pane e tulipani, in cui la protagonista, interpretata da Licia Maglietta, organizza un pic nic proprio su una barena, con cesto di leccornie e accompagnamento di fisarmonica. Non a caso, c’è una barena un tempo molto frequentata che ancora oggi è indicata qualche volta come “i tavolini” (anche se oggi i tavolini non ci sono più). Certo, bisogna scegliere con attenzione il momento di accomodarsi su una barena, per evitare di finire a mollo all’alzarsi della marea.
Ma le barene, paludi costiere ricoperte da una vegetazione che si è adattata a essere periodicamente sommersa, non sono solo un elemento caratterizzante dell’incantevole paesaggio lagunare: forniscono una serie di funzioni ecologiche e servizi ecosistemici essenziali, il cui valore elevato è spesso difficile da stimare. Le zone umide costiere migliorano infatti la biodiversità, proteggono le regioni costiere dall’erosione e dalle mareggiate, aiutano a mantenere la pesca commerciale, filtrano i nutrienti e gli inquinanti, sostengono il turismo e le attività ricreative.
Nel contesto della crisi climatica globale, le barene, come in generale tutti gli ambienti umidi costieri vegetati, hanno però assunto un ruolo ancora più cruciale. Sono efficaci “serbatoi di carbonio blu”, ovvero ecosistemi in grado di catturare e immagazzinare grandi quantità di anidride carbonica sottratta dall’atmosfera, più efficacemente delle foreste terrestri. Questo servizio naturale è sempre più riconosciuto nel quadro delle strategie di mitigazione del cambiamento climatico.
Uno studio recente dell’Università di Padova, sostenuto anche nel contesto della RETURN Extended Partnership, ha evidenziato però un rischio: i sistemi a barriera per il controllo delle maree come quello costruito per proteggere Venezia dalle “acque alte”, il Mo.S.E., stanno involontariamente indebolendo l’azione delle paludi costiere, privandoci di un alleato importante nella decarbonizzazione. Ne abbiamo parlato con Alice Puppin, assegnista di ricerca all’Università di Padova e prima firma dell’articolo.
Più potenti delle foreste terrestri: le barene riassorbono il carbonio
Negli ultimi anni c’è stato un crescente interesse verso la capacità degli ambienti umidi costieri di sequestrare anidride carbonica (CO2) e accumulare carbonio.
Spiega Alice Puppin: «Considerando i noti problemi legati all’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera e le sue conseguenze sul clima, con il crescente interesse verso sistemi di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici basati sulla natura, ci si è resi conto che gli ambienti umidi costieri possono essere un alleato prezioso, grazie alla loro capacità di catturare e immagazzinare grandi quantità di anidride carbonica».
Ma perché questi ambienti, queste piattaforme sedimentarie vegetate, una sorta di isole che ora emergono ora vengono sommerse dall’acqua marina, hanno capacità di assorbimento della CO2 così efficienti?
Spiega ancora Puppin: «La vegetazione che ricopre questi isolotti è prevalentemente erbacea o costituita da piccoli arbusti, che si sono adattati a sopravvivere sia alla salinità del suolo sia alla sommersione periodica. La ricca vegetazione che vi cresce assorbe la CO2 dall’atmosfera attraverso la fotosintesi, come fanno le foreste terrestri, e la accumula sotto forma di carbonio nella materia organica che compone foglie, fusti e radici. La particolarità di questi ambienti è che, essendo per lungo tempo sommersi, hanno una scarsa presenza di ossigeno nel suolo, condizione che rallenta la decomposizione della materia organica che si accumula al suo interno. I normali processi di decomposizione, che rilascerebbero parte del carbonio in atmosfera, sono quindi più lenti rispetto a quanto avviene negli ambienti terrestri e di conseguenza il carbonio resta intrappolato nel terreno molto più a lungo, anche per centinaia o migliaia di anni. Inoltre, negli ambienti umidi costieri salini, la presenza del sale contribuisce a ridurre la produzione di metano, un gas che si forma durante la decomposizione e che ha un effetto serra molto più potente di quello dell’anidride carbonica».
Un’altra importante caratteristica che rende questi ambienti particolarmente efficienti è la loro natura dinamica, per cui tendono ad accrescersi costantemente in altezza, grazie ai sedimenti trasportati dalle maree.
«Le barene riescono a mantenersi in equilibrio con il livello del mare, nonostante il suo innalzamento, e lo hanno fatto nel corso di migliaia di anni», spiega ancora Puppin. «Il motivo è semplice: quando la marea le sommerge, trasporta con sé sedimenti, che si depositano e vengono trattenuti dalla vegetazione. Questo favorisce nel tempo la formazione di nuovo suolo e l’ulteriore crescita delle piante, portando ad un accrescimento verticale della superficie della barena. Questo processo, influenzato da molti fattori – tra cui la disponibilità di sedimenti, l’interazione tra correnti di marea e vegetazione, la velocità con cui il livello del mare cresce… – è in grado di consentire un accumulo di materia organica più veloce di quello che avviene negli ambienti terrestri, generalmente più statici. Ed è anche per questo che negli ambienti umidi costieri il sequestro di CO2 per unità di area può risultare maggiore rispetto a quanto avviene negli ambienti terrestri».
Le misurazioni del carbonio nei sedimenti
Tuttavia, gli interventi umani possono alterare l’equilibrio delle barene, incidendo negativamente sulla loro azione di assorbimento della CO2.
Il gruppo di ricerca dell’Università di Padova ha svolto una serie di analisi per valutare la capacità di accumulo di carbonio nelle barene della laguna di Venezia. Per farlo hanno raccolto una serie di carote sedimentarie, in sostanza campioni cilindrici di terreno estratti dal suolo, in diverse barene della laguna di Venezia, ottenendoli a diverse distanze dal margine della barena e alla profondità di un metro. I campioni di suolo così ottenuti sono poi stati analizzati in laboratorio per quantificare il contenuto di materia organica a diverse profondità.
Spiega ancora Puppin: «Abbiamo utilizzato la quantità di materia organica come un indicatore della quantità di carbonio organico, che è quello che ci interessa, perché il sequestro di carbonio in questi ambienti avviene tramite l’assorbimento nella vegetazione con la fotosintesi e in seguito l’immagazzinamento nel suolo; il contenuto di materia organica ci ha permesso di stimare quindi il contenuto di carbonio, attraverso una equazione di conversione creata ad hoc per il nostro sito».
In questo modo, si sono potuti calcolare i due principali indicatori utilizzati nella valutazione del carbonio blu negli ambienti umidi costieri: lo stock di carbonio e il tasso di accumulo di carbonio.
Come precisa Puppin: «Lo stock di carbonio è sostanzialmente la quantità totale di carbonio che troviamo all’interno del suolo analizzato – in questo caso, fino a un metro di profondità – quindi il carbonio immagazzinato fino ad ora. Il tasso di accumulo invece è stato calcolato moltiplicando la densità di carbonio nel livello di suolo di riferimento per il tasso di accrescimento verticale della barena. Questo dato permette di stimare quanto carbonio si accumula con la formazione di nuovi strati di suolo ogni anno. In altre parole, indica quanto carbonio viene aggiunto annualmente alla barena e, di conseguenza, sottratto all’atmosfera».
I valori medi calcolati hanno permesso di confrontare i risultati con quelli di altri studi e in altre parti del mondo, e di fare delle stime sulla potenzialità delle barene della laguna di Venezia di accumulare carbonio e quindi sequestrare CO2.
«Ne è emersa in sostanza una conferma della grande capacità delle barene di assorbire CO2, comparabile a quella di una foresta terrestre, insieme a informazioni interessanti sulla variabilità di questo fenomeno», continua Puppin. «Avendo analizzato diverse aree e diverse posizioni all’interno delle barene, abbiamo osservato che la capacità di assorbimento del carbonio può variare molto, in funzione di diversi fattori. Il tasso di accrescimento delle barene naturalmente influisce sulla loro capacità di accumulare carbonio oltre che sulla loro capacità di sopravvivere all’innalzamento del livello del mare. Questo accrescimento può dipendere dal range di marea e dalla quantità di sedimenti disponibili: le barene che vengono sommerse più frequentemente, e dove quindi l’apporto di sedimenti è maggiore, tendono ad accrescersi più rapidamente».
E qui, ci avviciniamo al cuore del problema: perché la laguna di Venezia è un sistema che, storicamente, ha visto nei secoli diminuire l’apporto di sedimenti. Questo è dovuto soprattutto agli interventi antropici realizzati nella laguna a partire dal XV secolo, quando la maggior parte dei fiumi che sfociavano all’interno sono stati deviati, sono stati costruiti moli per stabilizzare le bocche di porto e realizzati grandi canali per favorire la navigazione. Tutti questi interventi hanno ridotto in misura sostanziale l’apporto naturale di sedimenti.
Più recentemente, a questo si è aggiunto l’effetto del Mo.S.E., che, chiudendo l’accesso alla laguna alle acque alte durante le mareggiate, da una parte ha salvato gli edifici e le strutture urbane da allagamenti disastrosi, ma dall’altra ha ulteriormente ridotto l’apporto di sedimenti sulle barene e quindi la loro capacità di accrescimento.
L’adozione di barriere contro le mareggiate per fornire protezione dalle inondazioni costiere sta diventando sempre più comune a causa della crescente densità della popolazione umana e delle attività socioeconomiche nelle zone costiere, che sono particolarmente vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici. Esempi importanti si trovano nell’estuario del fiume Schelda (Paesi Bassi), a San Pietroburgo, nel Tamigi, a New Orleans, e altri sono in fase di proposta o pianificazione, come quelli nella baia di Galveston (Stati Uniti).
Tuttavia, i possibili impatti delle strategie di regolazione delle maree sulla dinamica del carbonio negli ambienti costieri non sono stati esplorati e dovrebbero essere considerati una preoccupazione globale. Come racconta Puppin: «In uno studio precedente dell’Università di Padova avevamo osservato che l’attivazione del Mo.S.E. ha avuto come effetto collaterale una riduzione dell’accrescimento verticale delle barene. Questo perché il sistema blocca le acque alte, ovvero i livelli di marea più elevati, in particolare durante le mareggiate, che si sono rivelate le più efficaci nel trasportare i sedimenti sulle barene. Con lo studio attuale abbiamo fatto un passo avanti: poiché il tasso di assorbimento di carbonio dipende direttamente dal tasso di accrescimento, la riduzione di quest’ultimo provocata dal Mo.S.E. potrà comportare una diminuzione della capacità di assorbire carbonio nelle barene. Grazie ai dati raccolti abbiamo potuto stimare una riduzione di circa il 30%».
L’impatto di questa dinamica è ancora più evidente se consideriamo il sequestro di CO2. Lo studio mostra che in condizioni normali, senza la regolazione delle barriere, le barene della Laguna di Venezia possono sequestrare circa 13.400 tonnellate di CO2 all’anno. Per dare un’idea concreta, si tratta di una quantità di carbonio equivalente a quella assorbita da circa 130.000 alberi. Una quantità che equivale a circa il 20% delle emissioni annuali del trasporto acqueo nella città di Venezia o a circa il 17% delle emissioni a livello locale prodotte annualmente dal sistema aeroportuale Marco Polo. L’attivazione delle barriere del Mo.S.E. cambia radicalmente questo quadro. Se, secondo le stime dello studio, la regolazione delle maree potrebbe ridurre il potenziale annuale di sequestro di CO2 delle barene di oltre il 30%, tradotto in numeri assoluti questo significa che la capacità di assorbimento delle barene potrebbe crollare a circa 9.000 tonnellate di CO2 all’anno, una perdita netta di oltre 4.400 tonnellate di CO2 che rimangono nell’atmosfera ogni anno. Insomma, la protezione della città dall’acqua alta entra in conflitto con la conservazione delle barene e del loro ruolo importante nell’ecosistema.
Conclude Puppin: «L’utilità che penso possano avere studi come il nostro è quella di portare l’attenzione, quando si prendono decisioni sulle infrastrutture pubbliche e sulla gestione del territorio, anche su aspetti magari poco noti ma importanti. Evidenziare i possibili conflitti di interesse consente infatti di prendere decisioni che tengano conto di tutte le componenti in gioco e che quindi risultino più efficaci. Non si tratta solo — anche se è ovviamente prioritario — di garantire la sicurezza delle persone, ma anche di tutelare la salute degli ambienti naturali, che a loro volta influenzano il benessere delle comunità costiere. Gli ecosistemi lagunari forniscono molti servizi ecosistemici essenziali e contribuire alla loro conservazione significa assicurarsi che questi benefici continuino nel tempo. Implementare strategie di gestione integrata capaci di conservarli e mantenerli in buone condizioni è fondamentale per rendere gli ambienti costieri — e le comunità che vi abitano — più resilienti».






