La guerra non è soltanto un fenomeno politico o militare: è una vera e propria emergenza sanitaria globale. Lo sottolineano Stefano Orlando (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Vineis (Imperial College London) e Pirous Fateh-Moghadam (Azienda Sanitaria di Trento) in un editoriale pubblicato a fine settembre su Frontiers in Public Health.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, le vittime civili nei conflitti sono il 60% del totale. Ma il bilancio non si ferma alle vittime dirette: una ricerca pubblicata su The Lancet ha stimato 29 milioni di morti in eccesso tra il 1990 e il 2017 a causa degli effetti indiretti dei conflitti, tra cui malattie infettive, malnutrizione e collasso dei servizi sanitari materno-infantili. Questi effetti persistono per generazioni, trasformando la guerra in una catastrofe sanitaria di lungo periodo.
Due facce della guerra contemporanea
Gli autori dell’editoriale individuano due caratteristiche della guerra moderna che spiegano l’altissima percentuale di vittime civili. La prima è tecnologica: droni e armamenti a lunga gittata permettono di colpire da distanze enormi, riducendo l’esposizione diretta dei soldati ma aumentando la distanza morale tra chi combatte e chi subisce le conseguenze. A differenza della Prima guerra mondiale, che generò una ricca letteratura sui conflitti morali dei combattenti, le guerre odierne sembrano meno capaci di produrre riflessioni sulla responsabilità individuale.
La seconda caratteristica è economica: le armi sono diventate merci come le altre, disponibili sul mercato globale. I dati del SIPRI sono eloquenti: nel 2023 le prime cento aziende del settore militare hanno generato ricavi per 632 miliardi di dollari, con un aumento reale del 4,2% rispetto al 2022. Gli Stati Uniti dominano con il 43% delle esportazioni mondiali, seguiti da Francia (9,6%), Russia (7,8%), Cina (5,9%), Germania (5,6%), Italia (4,8%), Regno Unito (3,6%) e Israele (3,2%). Le importazioni europee sono esplose: in quattro anni sono aumentate del 155%, passando dall’11% al 28% del mercato globale.
Questa mercificazione delle armi attenua la percezione della responsabilità morale, creando dinamiche simili ad altre sfide planetarie come il cambiamento climatico: le conseguenze ricadono su popolazioni lontane da chi produce il danno.
L’escalation globale
Intanto, negli ultimi cinque anni i conflitti sono quasi raddoppiati. Secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (ACLED), si è passati da circa 104.000 episodi di violenza armata nel 2020 a quasi 200.000 nel 2025. L’invasione russa dell’Ucraina del 2022 ha rappresentato un punto di svolta, alimentando tensioni geopolitiche e contribuendo all’esplosione di altre crisi regionali.
A Gaza, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) riportava al 6 agosto 2025 oltre 61.000 morti e più di 150.000 feriti. Diversi studi indipendenti, inclusa un’analisi capture-recapture, suggeriscono che questi numeri potrebbero essere sottostimati. La Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità, oltre che contro il comandante militare di Hamas Mohammed Deif. La Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di garantire l’accesso agli aiuti umanitari, prescrizioni rimaste in larga parte disattese. Diverse organizzazioni di sanità pubblica, tra cui l’European Public Health Alliance, hanno riconosciuto la crisi di Gaza come genocide-related, una posizione condivisa anche da due organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicians for Human Rights Israel.
In Sudan, dall’aprile 2023, la guerra civile tra le Forze Armate Sudanesi e le Forze di Supporto Rapido ha causato tra 20.000 e 150.000 vittime civili secondo stime che variano ampiamente, evidenziando le difficoltà di raccogliere dati accurati in contesti di conflitto attivo.
Il collasso dei sistemi sanitari e l’amplificazione delle crisi sanitarie
La guerra mina le fondamenta della salute pubblica. Ospedali bombardati, carenza di personale, assenza di forniture mediche rendono impossibile garantire le cure essenziali. A Gaza, l’ospedale Al-Aqsa Martyrs ha dovuto trasformare sale parto e reparti ostetrici in sale operatorie d’emergenza per far fronte all’afflusso di feriti. In Etiopia, durante il conflitto nel Tigray, la pandemia di COVID-19 ha trovato terreno fertile proprio per la chiusura dei centri di risposta alle emergenze, con un’impennata dei tassi di positività una volta ripresi parzialmente i servizi.
Le conseguenze investono anche le cure specialistiche. In Ucraina, per esempio, gli studi documentano un’alta prevalenza di traumi oculari tra militari e civili, con danni maculari e retinici che richiedono competenze specifiche difficili da garantire quando l’intero sistema sanitario è sotto stress.
E la crisi sanitaria è amplificata dalle persone sfollate e rifugiate: in Somalia, nei campi improvvisati di Banadir, il conflitto combinato con la siccità ha prodotto tassi di mortalità elevati, particolarmente tra i bambini, mentre Gaza, gli sfollati interni vivono in condizioni di grave inadeguatezza: mancano abitazioni dignitose, acqua ed elettricità.
Senza contare che i rifugiati che riescono a lasciare i paesi in guerra affrontano barriere sanitarie nei paesi d’accoglienza. Tra i rifugiati siriani in Libano e Danimarca, meno del 2% degli ipertesi riceve una terapia adeguata. Gli armeni sfollati dal Nagorno-Karabakh nel 2020 soffrono di grave insicurezza alimentare, soprattutto le famiglie con capofamiglia donna. I rifugiati ucraini in Europa incontrano ostacoli nell’accesso alle cure: tempi d’attesa lunghi, costi, mancanza di informazioni, difficoltà linguistiche. In Lituania, uno studio qualitativo ha documentato come le donne di lingua russa affrontino barriere particolarmente alte, con scarso supporto psicologico e servizi inconsistenti nelle aree rurali.
Eppure esistono modelli alternativi. Ne è un esempio Edmonton, in Canada, dove un centro sanitario comunitario dedicato esclusivamente ai nuovi arrivati offre sicurezza culturale, servizi psicosociali integrati e supporto linguistico, dimostrando che soluzioni efficaci sono possibili quando si investe in approcci sistemici.
La prevenzione interrotta
L’effetto sanitario della guerra non è solo un arresto, ma una vera e propria regressione di decenni di progressi sanitari. Un esempio è dato dalle amputazioni, la cui incidenza globale tra giovani (0-19 anni) è diminuita negli ultimi trent’anni, mentre è nei paesi colpiti da conflitti, come Siria e Afghanistan, è aumentata.
Le campagne vaccinali sono tra le prime vittime dei conflitti. In Siria, Nigeria e Afghanistan, l’interruzione dei programmi di immunizzazione ha favorito il ritorno della poliomielite e del morbillo. Gli autori evidenziano l’importanza di “tregue per le vaccinazioni” e di squadre mobili per mantenere la copertura vaccinale anche nelle zone di guerra. In Etiopia, la sovrapposizione tra guerra e COVID-19 ha aggravato le disuguaglianze e bloccato il controllo delle malattie.
Per la salute materno-infantile, le conseguenze sono drammatiche. In Etiopia, nella regione di Amhara, gli ospedali registrano tassi crescenti di esiti materni gravi e near-miss, dovuti a ritardi nei trasporti d’emergenza, interruzione dei percorsi di riferimento e scarsità di risorse. A Gaza, la conversione delle sale parto in sale operatorie per i traumi ha prevedibili ripercussioni sui tempi di intervento e sulla sicurezza materno-fetale. L’interruzione dei programmi preventivi, come la somministrazione del vaccino antitetanico in gravidanza, amplifica ulteriormente i rischi.
Salute mentale: ferite invisibili oltre i confini
E poi ci sono gli effetti psicologici della guerra, che si propagano oltre le zone di conflitto. In Kuwait, dopo la guerra a Gaza del 2023, sono stati registrati livelli significativi di ansia e sintomi somatici. In Lituania, l’invasione russa dell’Ucraina ha causato un’impennata iniziale di sintomi depressivi, parzialmente attenuatasi nel corso di un anno. Questi studi, pur con limiti metodologici, segnalano effetti transfrontalieri che meritano ulteriori indagini.
Tra i rifugiati, la perdita di familiari e amici genera forme di lutto complicato che richiedono strumenti diagnostici e interventi culturalmente sensibili, spesso non disponibili.
Il ruolo della salute pubblica: dalla mitigazione alla prevenzione
Gli autori dell’editoriale sottolineano che la comunità della salute pubblica non può limitarsi a gestire le conseguenze dei conflitti, ma ha il dovere etico di contribuire alla loro prevenzione; anche la Carta di Ottawa per la promozione della salute riconosce esplicitamente la pace come determinante fondamentale della salute.
Ma come? I dati scientifici mettono sempre più in discussione la deterrenza militare come strategia efficace. Il caso dell’Afghanistan, per esempio, dimostra come l’approccio militare abbia perpetuato crisi sanitarie invece di garantire una pace duratura. La ricerca in sanità pubblica può svolgere invece un ruolo cruciale documentando i costi sanitari delle guerre e sviluppando modelli predittivi per prepararsi alle crisi umanitarie, analogamente a quanto fatto per le pandemie e il cambiamento climatico.
Secondo l’editoriale, tre sono le priorità per la ricerca futura. Primo: migliorare le stime delle vittime, includendo non solo quelle dirette ma anche quelle indirette, un lavoro estremamente difficile nelle zone di guerra. Secondo: consolidare metodologie per l’attribuzione causale, creando framework che permettano di valutare probabilisticamente quanto gli effetti sanitari siano attribuibili a specifici episodi bellici, in modo analogo a quanto fa il progetto World Weather Attribution per il cambiamento climatico. Terzo: sviluppare capacità predittive per anticipare l’entità delle crisi umanitarie—malattie infettive, carestie, collasso dei sistemi sanitari—e prepararsi adeguatamente.
Perché la guerra è una questione di salute pubblica, esattamente come le epidemie o il cambiamento climatico. Ignorarlo significa condannare milioni di persone a un destino di sofferenza evitabile.