Nell’Aula Magna della SISSA c’è molta aspettativa, e si sente. Naomi Oreskes, invitata a parlare nella giornata conclusiva del Convegno Nazionale di Comunicazione della Scienza, tenuto alla SISSA di Trieste dal 2 al 5 dicembre, presenterà il suo ultimo saggio The Big Myth – How American Business Taught Us to Loathe Government and Love the Free Market (presto in libreria anche in traduzione italiana). Ma tratterà anche di un tema che sta molto a cuore a chiunque si occupi di scienza: che impatto avranno le mosse dell’amministrazione Trump e il suo attacco frontale alle università e alle agenzie scientifiche governative?
Oreskes, docente di Harvard, è particolarmente nota per il best seller Mercanti di dubbi (Edizioni Ambiente), di cui è coautrice con Erik M. Conway, in cui ha mostrato l’efficacia delle deliberate strategie di disinformazione messe in atto a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso sulle tematiche ambientali. Puntando il faro su quattro ambiti – i danni dovuti all’uso del tabacco, gli effetti del Ddt, il problema delle piogge acide e il buco nell’ozono – il saggio mostra con una ricostruzione estremamente puntale e dettagliata come si sia ripetuto regolarmente lo stesso scenario: un piccolo gruppo di scienziati mette la propria autorevolezza al servizio degli interessi dell’industria, ostacolando e rallentando l’adozione di norme che avrebbero tutelato la salute pubblica e l’ambiente, ma minato i profitti delle aziende.
Come spiega Oreskes, in un dialogo con Massimo Polidoro, uno dei punti centrali di questo metodo è capovolgere contro la scienza proprio quella che è una delle sue forze, ovvero la capacità di coltivare il dubbio: «Chiunque sappia qualcosa di scienza, chiunque abbia fatto ricerca o studiato scienza, sa che la scienza è intrinsecamente caratterizzata dall’incertezza. È un processo di scoperta e di apprendimento. E questo significa necessariamente che prestiamo sempre molta attenzione alle parti che non comprendiamo, alle cose a cui non abbiamo ancora risposto. Ed è un bene. Dovremmo esserne orgogliosi, dovremmo voler continuare a imparare ed essere consapevoli del fatto che la nostra conoscenza è incompleta e che c’è sempre altro lavoro da fare, comprensioni più profonde da raggiungere».
Oreskes paragona la strategia dei “mercanti del dubbio” a una mossa di jiu-jitsu: «Prendono quella che è la forza della scienza, cioè l’onestà e l’umiltà, e la capovolgono, trasformandola in una debolezza. Ed è questo che mi fa più arrabbiare. È veramente meschino, no? Gli scienziati sono onesti riguardo alle incertezze e loro ne traggono lo spunto per dire: “Vedete? È incerto. Non lo sanno”. E poi esagerano l’incertezza. Per questo non mi piace parlare di “incertezza costruita”, perché così sembra che se la stiano inventando dal nulla. Non è questo: è una forma di sfruttamento. Si prende un’incertezza autentica, la si esagera, la si sfrutta, e si cerca di suggerire a chi ascolta che, siccome alcune cose sono incerte, allora tutto è incerto, non si sa nulla e non si può agire. Un’assurdità, perché anche nella vita quotidiana noi agiamo continuamente, facciamo scelte in continuazione, anche senza la certezza totale… Quando organizzi una vacanza, potresti anche ammalarti: non puoi saperlo con certezza, ma fai dei piani sulla base delle migliori informazioni disponibili. E vai avanti con la tua vita. Se non lo facessimo, saremmo paralizzati. Ma i mercanti del dubbio, in un certo senso, è proprio questo che vogliono: che restiamo paralizzati, perché non vogliono che agiamo».
A un pubblico di comunicatori della scienza interessa naturalmente molto un punto: come opporsi? Quali sono le strategie che funzionano contro chi spaccia dubbi per impedire cambiamenti?
Oreskes su questo è chiara: non basta dare le informazioni corrette, è importante anche smascherare attivamente la disinformazione come tale. Spiegando da chi è stata prodotta, con quali motivazioni e con quali metodi.
Difficile, certo. Non è certo un panorama facile in cui operare. E tuttavia bisogna insistere. E con la tenacia, qualcosa si ottiene: per esempio che una rivista ritratti un articolo scientifico sul glifosato tra i più citati perché si riesce a dimostrare che è stato in realtà sostenuto dalla Monsanto, che produce l’erbicida. È una notizia freschissima, quella del ritiro da parte della rivista Regulatory Toxicology and Pharmacology dell’articolo, e Oreskes ne parla con orgoglio. Benché il ruolo della Monsanto nella produzione dell’articolo fosse stato dimostrato fin dal 2017, lo studio continuava a essere ampiamente citato: «Abbiamo deciso di indagare su quale impatto avesse avuto questo articolo: lo abbiamo tracciato nella letteratura scientifica, nei documenti governativi e anche su Wikipedia, e abbiamo mostrato che ancora oggi questo lavoro continua ad avere un’enorme influenza. Così un paio di mesi fa abbiamo pubblicato il nostro studio e poi abbiamo scritto alla rivista chiedendo che l’articolo fosse ritirato. Da tre giorni, l’articolo è stato effettivamente ritirato. E il direttore mi ha mandato una copia del PDF con la parola “retracted” in grandi lettere rosse. Penso che la metterò sulla mia homepage… Dimostra che, quando facciamo il lavoro di smascherare la disinformazione e la manipolazione, possiamo farlo davvero e possiamo arrivare al ritiro di un articolo fraudolento. Ma quell’articolo era stato pubblicato nel 2000. Sono passati 25 anni e nel frattempo è stato fatto un danno enorme».
Ma ancora, quali sono i modi suggeriti da Oreskes per opporsi alla disinformazione? Da parte degli scienziati, maggiore attenzione alla comunicazione dei risultati, imparando a cogliere utilmente le occasioni possibili di trasmetterli al pubblico.
Da parte dei comunicatori e dei cittadini, maggiore attenzione alle fonti (per esempio, non continuare a citare un articolo scientifico che è stato pubblicamente e motivatamente screditato), opporsi alla pubblicità mascherata da informazione, ai contenuti sponsorizzati che non si distinguono da quelli editoriali, sostenere le realtà di informazione indipendente, le molte nuove forme di informazione indipendente, anche solo online, anche piccole, che Oreskes segnala come in aumento negli Stati Uniti in questo periodo.
E qual è invece un possibile errore, che può contribuire a minare la fiducia collettiva nella scienza? Oreskes critica la consuetudine di organizzare dibattiti in cui si contrappongono due posizioni opposte, anche se una delle due è ampiamente sostenuta dal consenso della comunità scientifica e l’altra no: «Un errore è quello che io chiamo una concezione fuorviante dell’oggettività. È ovviamente importante che i giornalisti si sforzino di essere obiettivi, ma che cosa significa davvero essere obiettivi? Molti giornalisti confondono l’obiettività con l’uguaglianza della copertura, quella che a volte viene chiamata “equilibrio”. Così, se gli scienziati dicono che il clima sta cambiando, bilanciano l’articolo dando la parola a qualcuno dell’industria dei combustibili fossili che dice: «No, non è vero». Ma questo è profondamente fuorviante: l’industria dei combustibili fossili non è un’istituzione scientifica. Non è nella posizione di fare affermazioni corrette sulla conoscenza scientifica. Anzi, è esattamente il contrario: ha una motivazione a negare le prove scientifiche che indicano la pericolosità dei suoi prodotti. Eppure, per decenni abbiamo visto i giornalisti mettere sullo stesso piano la scienza e la propaganda aziendale. Uno degli argomenti che ho sostenuto è che il giornalismo scientifico dovrebbe raccontare la scienza. Se esiste un dibattito legittimo all’interno della comunità scientifica, allora certo, è giusto parlarne. Ma se la comunità scientifica ha raggiunto un accordo su un tema – come nel caso del cambiamento climatico secondo l’IPCC – allora questo va riportato come un fatto. A quel punto la domanda diventa: dov’è il dibattito? Il dibattito riguarda che cosa fare. E in quel caso può essere legittimo chiedere il parere dell’American Petroleum Institute, ma in quel contesto la controparte non è la scienza: la controparte è, per esempio, Greenpeace o un’altra organizzazione ambientalista».
Il mito del mercato onnipotente e senza regole
Se in Mercanti di dubbi Oreskes e Conway spiegano le strategie che hanno portato alcuni scienziati a collaborare a oscurare le realtà provata dai dati scientifici, in The Big Myth analizzano qual è il loro substrato ideologico e come questo si sia affermato attraverso precise strategie di propaganda.
Come spiega Oreskes: «Quello che abbiamo scoperto, dai loro stessi scritti, dalle lettere che si scambiavano tra loro, dagli articoli che pubblicavano sulle riviste di settore, è che quel “perché” era politico. In realtà non aveva realmente a che fare con il denaro. Non era perché possedevano azioni delle aziende del petrolio. Era davvero una questione ideologica, legata all’idea di libertà e al rapporto tra la politica della Guerra fredda e l’ideologia politica. Aderivano a quello che negli anni successivi è diventato noto come “fondamentalismo di mercato”. Questa visione affonda le sue radici nel neoliberismo europeo, in particolare nel pensiero di economisti austriaci come Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, che sostenevano che l’intervento dello Stato nel mercato rappresenta una minaccia alla libertà politica».
Il fondamentalismo di mercato è la credenza secondo cui i mercati sono infallibili e qualsiasi intervento governativo nell’economia non solo è inefficiente, ma rappresenta una minaccia diretta alla libertà politica e individuale. Una ideologia pericolosa, che vede il mercato completamente in grado di autocontrollarsi e porre rimedio autonomamente ai problemi e agli squilibri che crea. In questo senso anche la scienza, che diventa lo strumento attraverso cui sono comprovati gli squilibri e i danni provocati dal mercato, può diventare un’avversaria.
Da questo punto di vista, l’amministrazione Trump opera pienamente nel solco di questa ideologia. Oreskes ne ha discusso al Convegno anche in un dialogo successivo con Enrico Bucci, moderato da Elisabetta Tola: «Trump rappresenta una prosecuzione dell’attacco alla scienza. Quello che abbiamo visto – e di cui abbiamo scritto ormai in diversi libri – è il modo in cui il settore aziendale ha demonizzato la scienza, perché la scienza spesso fornisce le informazioni, i dati, i fatti che giustificano la regolamentazione di un prodotto pericoloso o di un’attività dannosa. Senza la scienza non avremmo mai regolamentato le sostanze chimiche che distruggono lo strato di ozono. Senza la scienza non avremmo mai regolamentato il tabacco. Dunque la scienza è una componente fondamentale dell’impianto intellettuale che sostiene la regolazione dei mercati. Distruggendo la scienza, distruggendo il sostegno pubblico alla scienza, Trump toglie il terreno sotto i piedi alla regolamentazione. E non è un caso che, quando Elon Musk stava smantellando le agenzie scientifiche tra febbraio e marzo, e gli fu chiesto che cosa stesse facendo, rispose: “Il nemico è la regolamentazione”. C’è quindi un collegamento diretto tra l’attacco di Trump alla scienza, l’attacco alle università e il desiderio di indebolire la regolazione pubblica del mercato».
In realtà, come spiegano Oreskes e Conway in The Big Myth, l’assenza di regole danneggia il mercato stesso, consentendo l’affermarsi di monopoli e di comportamenti predatori.
L’attacco dell’amministrazione Trump alla scienza, afferma Oreskes, è peraltro destinato ad avere conseguenze durature nel tempo: «Esiste un intero universo di ricerca scientifica svolta nelle agenzie scientifiche federali e statali. E in molte di queste agenzie federali l’intero vertice di esperienza è stato decimato. Abbiamo perso decenni, perfino secoli di conoscenze accumulate e di memoria istituzionale. Non mi è affatto chiaro se questo patrimonio potrà mai essere ricostruito, perché anche volendo farlo, ci vorrebbero dieci anni o più per ricostruire le competenze e il sapere. E servirebbe anche un futuro presidente davvero, davvero determinato a sostenere questa ricostruzione. E penso che ciò che vediamo in politica è che, persino tra le persone favorevoli alla scienza, questa non è quasi mai la priorità assoluta. La prossima amministrazione dovrà affrontare così tante questioni, dall’immigrazione, alle disuguaglianze di reddito, che forse vedremo qualche tentativo di ricostruire le reti di sanità pubblica, ma credo che passerà molto tempo, ammesso che accada, prima di assistere al ripristino di alcune di queste agenzie».
La lezione della storia, mantenere la speranza
In conclusione, vale la pena riportare le frasi conclusive, con cui Naomi Oreskes – che ovviamente ha toccato una quantità di temi e offerto una quantità di spunti impossibili da riportare interamente – ha incoraggiato a non cedere allo sconforto.
«Credo che una delle lezioni più importanti da trarre dalla storia sia questa: tutto ciò che fanno le persone è imperfetto, perché le persone sono imperfette. Ma questo non significa che sia tutto inutile, non significa che non si possa progredire e non significa che non esistano istituzioni e sistemi politici migliori di altri. Il nostro compito non è cercare la perfezione, ma capire come sostenere le istituzioni meno imperfette e contrastare quelle più imperfette. Per quanto riguarda il cambiamento, quello che direi ai giovani – ed è ciò che dico ai miei studenti – è che, anche se a volte il mondo può sembrare cupo, la storia è una grande fonte di consolazione e di ispirazione. Non solo perché anche in passato le cose andavano male, ma perché possiamo vedere prove reali del cambiamento sociale perfino nel corso della nostra vita. E se si guarda alla storia dei movimenti sociali, ciò che si vede è che molto spesso sono i giovani a stare in prima linea. Perciò penso che sia davvero importante che i giovani trovino forza nei movimenti sociali e sappiano che il cambiamento è possibile, e che, certo, voi potete coinvolgere i vostri genitori, potete mobilitare i vostri nonni… ma, alla fine, sono spesso i giovani a trovarsi in prima linea nel cambiamento sociale. E infine, credo di essere io stessa una dimostrazione dell’importanza di un’istruzione ampia e di una prospettiva interdisciplinare, perché nel mio lavoro porto sia il rispetto per i fatti e per la conoscenza che deriva dalla mia formazione scientifica, sia l’attenzione per la complessità dei problemi sociali e politici, sia il ruolo delle emozioni nel mobilitare il cambiamento. Perché, a mio avviso, nessun movimento sociale nella storia dell’umanità si è mai basato solo sui fatti: si è sempre basato su persone arrabbiate, persone indignate, persone che lottano per i propri diritti».







