Immaginiamo di trovarci a sorvolare la penisola coreana, osservando dall’alto un’area verde e incontaminata che si estende per chilometri tra due Paesi ancora tecnicamente in guerra. La zona demilitarizzata (DMZ) tra la Corea del Nord e la Corea del Sud è spesso associata a tensioni politiche e militari, ma in realtà è anche un incredibile santuario naturale. Com’è possibile che un’area nata per dividere due nazioni sia diventata uno dei più grandi rifugi di biodiversità al mondo?
A dispetto del suo nome, la DMZ è ancora una delle aree più militarizzate del mondo, ma anche una delle meno toccate dall’attività umana negli ultimi 70 anni. Questo ha permesso a molte specie rare e in via di estinzione di prosperare indisturbate, come il leopardo dell’Amur e l’orso nero asiatico. Uno straordinario paradosso: una zona di guerra che, nell’impedire la presenza umana, ha permesso alla natura di riappropriarsi dei suoi spazi, creando uno degli ecosistemi più ricchi e incontaminati dell’Asia. Un esempio tangibile di come talvolta, dalle circostanze più avverse, possano nascere opportunità inaspettate per la conservazione della biodiversità.
«La DMZ è un caso di studio eccezionale», afferma il professor Luigi Boitani, zoologo della Sapienza Università di Roma. Questa striscia di terra di 250 chilometri di lunghezza e 4 di larghezza è stata istituita nel 1953 con l’armistizio di Panmunjom e si è trasformata in un laboratorio naturale che permette di osservare i diversi stadi della biodiversità in assenza di interferenze umane dirette. Boitani spiega come la DMZ abbia attraversato fasi distinte di rigenerazione ecologica: «Inizialmente, dopo la guerra, il territorio era devastato. Poi, gradualmente, la vegetazione pioniera ha colonizzato l’area, seguita dal ritorno di specie animali sempre più complesse. Oggi osserviamo una stratificazione completa dell’ecosistema, dalla microflora ai grandi predatori». Questo processo di successione ecologica, normalmente osservabile solo su scale temporali molto più lunghe, si è svolto qui in un tempo relativamente breve, offrendo agli scienziati l’opportunità di studiare i meccanismi di resilienza e auto-organizzazione degli ecosistemi.
Il leopardo dell’Amur rappresenta uno degli esempi più straordinari tra i predatori che hanno trovato rifugio nella DMZ. Con una popolazione stimata di 60 esemplari in libertà, questo grande felino ha trovato in nell’area un habitat adatto alle sue esigenze. «La sua presenza non è casuale, ma testimonia la salute dell’intero ecosistema, perché un superpredatore come questo necessita di una catena alimentare completa e ben equilibrata», spiega Boitani. Con un peso che può raggiungere i 60 kg, infatti, il leopardo dell’Amur necessita di vasti territori per cacciare. L’ambiente della DMZ, caratterizzato da dense foreste e una ricca presenza di prede come cervi e cinghiali, offre condizioni ideali per la sua sopravvivenza. Come sottolinea Boitani, la presenza del felino in quest’area rappresenta un miracolo naturale, considerando che la specie ha rischiato l’estinzione in gran parte del suo habitat storico, a causa della caccia.
Altrettanto rilevante è la presenza dell’orso nero asiatico, classificato come specie vulnerabile dall’IUCN—l’Unione internazionale per la conservazione della natura. «Questi orsi dimostrano una notevole capacità di adattamento, ma necessitano di habitat incontaminati per prosperare», prosegue Boitani. «Nella DMZ hanno trovato non solo un sicuro rifugio, ma anche un’abbondanza di risorse alimentari che ha permesso loro di stabilire una popolazione duratura». Le più recenti ricerche scientifiche sulla biodiversità della DMZ hanno rivelato numeri sorprendenti: l’area ospita più di 6.000 specie diverse tra piante e animali, di cui circa 100 classificate come a rischio di estinzione. Risultati sorprendenti, considerando che vaste porzioni della zona rimangono tuttora inesplorate a causa della presenza di mine antiuomo.
Le mine rappresentano infatti il paradosso più forte di questo santuario naturale. Si ritiene che nella DMZ sia disseminato oltre un milione di ordigni, che costituiscono una minaccia letale non solo per l’essere umano, ma anche per gli animali selvatici. Ironicamente, gli stessi strumenti bellici che hanno permesso alla natura di rifiorire, tenendo lontana la presenza umana, ora mettono a rischio proprio la biodiversità. Nel corso degli anni sono stati documentati diversi incidenti, che hanno colpito principalmente ungulati come cervi e cinghiali, oltre ai predatori che ne seguono le tracce.
La bonifica dell’area rappresenta una sfida immensa, dal punto di vista sia tecnico che economico, ulteriormente complicata dalle persistenti tensioni politiche della regione. «Una grande difficoltà nelle operazioni di sminamento è rappresentata dalla capacità di movimento delle mine, che spesso si spostano a causa di piogge o movimenti del terreno», racconta Giacomo Destro, comunicatore della scienza e autore di Ragione di Stato, Ragione di Scienza. Storie di scienza, spionaggio e politica internazionale (Codice Edizioni, 2023). «Una soluzione innovativa, che ha mostrato risultati promettenti in altre aree del mondo, potrebbe essere quella di utilizzare i ratti africani giganti, il cui olfatto può rilevare le mine senza innescarle. Questa caratteristica permette loro di operare anche in terreni non completamente spianati e la tecnica potrebbe rivelarsi utile anche per la DMZ». Diversi gruppi di ricerca hanno invece suggerito l’impiego di soluzioni innovative, come l’utilizzo di droni e tecnologie di rilevamento all’avanguardia, per individuare e disinnescare questi ordigni minimizzando l’impatto ambientale. Il problema dello sminamento è divenuto un punto di convergenza tra movimenti ambientalisti e pacifisti, accomunati dall’obiettivo di rendere quest’area sicura tanto per la fauna selvatica quanto per le future generazioni.
Eppure la DMZ non è l’unico esempio di come la scienza, nella penisola coreana, possa funzionare da mediatore tra nazioni in conflitto. «Un altro importante luogo di “dialogo” si trova presso il Monte Paektu, un vulcano attivo situato al confine tra Corea del Nord e Cina», continua Destro. L’ultima eruzione del Paektu risale al 946 d.C., quando la seconda eruzione vulcanica più grande della storia emise 96 km di materiale in atmosferica. «Per decenni, questo sito è stato uno dei pochi in cui scienziati statunitensi e nordcoreani hanno potuto collaborare direttamente. Le caratteristiche geologiche del vulcano e la sua intensa attività hanno reso necessaria questa cooperazione», dimostrando come la scienza possa aprire canali di comunicazione, anche tra i Paesi più isolati e che considerano avversari.
«Questi esempi si inseriscono in un contesto più ampio di “diplomazia scientifica”, un campo che oggi si sta evolvendo rapidamente. Fino a poco tempo fa, gli sforzi internazionali in questo ambito seguivano un modello a tre pilastri: diplomazia per la scienza, scienza nella diplomazia e scienza per la diplomazia. Tuttavia, in un mondo sempre più complesso e conflittuale, questo paradigma sta mostrando i suoi limiti, specialmente perché non tiene conto del crescente ruolo del settore privato», spiega Destro.
La tutela della biodiversità, inclusa quella della DMZ, non è infatti guidata solo da ideali di conservazione e dietro questi sforzi si celano infatti anche interessi economici. Le compagnie farmaceutiche ne sono un esempio: investono notevolmente nella protezione di aree naturali incontaminate, consapevoli che potrebbero contenere principi attivi non ancora scoperti, potenzialmente brevettabili e trasformabili in prodotti proficui. Questa dimensione “economica” della biodiversità potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel futuro della DMZ.
Va poi considerato che trasformazione di zone selvagge in aree protette può essere vantaggioso per le popolazioni locali, contribuire alla pacificazione e ridurre le attività illecite, come dimostrano alcune esperienze in aree di confine africane. Guardando al futuro, diversi progetti internazionali propongono di trasformare la DMZ in un parco della pace transfrontaliero. Un possibile scenario potrebbe includere un trattato tra le due Coree che riconosca l’area come parco nazionale condiviso, con sviluppo di turismo sostenibile e progetti scientifici comuni che porterebbero benefici economici per entrambi i paesi.
Proprio come la natura ha trasformato una zona di guerra in un santuario della vita selvatica, la DMZ potrebbe evolversi da simbolo di conflitto a emblema di riconciliazione, non solo tra le due Coree, ma anche del nostro rapporto con la natura. In un mondo dove la perdita di biodiversità rappresenta una delle sfide più urgenti, la storia della DMZ ci ricorda che la natura ha una straordinaria capacità di rigenerazione, se solo le diamo lo spazio e il tempo necessari per farlo.
Questo articolo è il risultato di un progetto PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) che ha coinvolto la 3°F del Liceo Classico e Linguistico G. Romagnosi di Parma, dedicato alle discipline STEM, al racconto della biodiversità e allo sviluppo di competenze di scrittura giornalistica.
Il progetto è stato ideato da Alessia Lodola e Alessandro Vitale, comunicatori della scienza, e dalla professoressa Mariangela Fontechiari, con la partecipazione della giornalista scientifica Anna Violato.
Le studentesse hanno lavorato in autonomia cercando una storia originale, sviluppando una scaletta, i contenuti e curando le interviste agli esperti, con solo un limitato apporto di editing finale. Leggerle è stato un piacere e speriamo sia lo stesso per voi.