Le neuroprotesi non sono più solo un’ipotesi da laboratorio né un tema da fantascienza: stanno entrando a pieno titolo nella pratica clinica e nella riflessione bioetica. Si tratta di dispositivi impiantabili capaci di ristabilire funzioni neurologiche compromesse o, in prospettiva, di potenziare alcune capacità cognitive. Ma cosa sappiamo davvero del loro funzionamento? Quali sono i rischi, i limiti e le implicazioni identitarie di queste tecnologie?
Michele Giuliano, bioingegnere all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, ha intrapreso un percorso che unisce le tecnologie ingegneristiche con le neuroscienze. Il suo obiettivo è sviluppare strumenti innovativi per la ricerca e perfezionare pacemaker cerebrali più efficaci, capaci di intervenire nelle disfunzioni neurologiche attraverso il ripristino o la sostituzione di alcune funzioni cerebrali compromesse. In questa intervista, ci spiega come funzionano queste tecnologie, i rischi nascosti dell’hacking e gli effetti sul senso di identità individuale.
Come funzionano le neuroprotesi nel cervello?
Di base, tutte usano circuiti elettronici miniaturizzati, colloquialmente detti microchip, ma non ne esiste uno valido per tutto e, d’altronde, ancora non conosciamo ogni meccanismo del cervello. C’è una differenza tra le dichiarazioni altisonanti di aziende come Neuralink di Elon Musk e la realtà clinica. Il denominatore comune di queste tecnologie è il linguaggio della fisica e dell’elettromagnetismo: sia i circuiti elettronici sia quelli nervosi si basano, in fondo, su correnti elettriche. Questo ci permette di sviluppare interfacce in grado di ridurre i sintomi di malattie neurodegenerative, ripristinare funzioni sensoriali o permettere il controllo di arti robotici attraverso impianti di microchip nel sistema nervoso.
Come si ha la certezza che vengano collocati nel punto corretto?
Dal punto di vista tecnologico, per impianti come le protesi cocleari o retiniche la collocazione per via chirurgica risulta più agevole perché si può vedere la zona su cui intervenire. Ma quando parliamo di stimolazione cerebrale profonda (DBS), usata nel trattamento dei disturbi del movimento, il margine di incertezza aumenta. Assieme ai microchip vengono impiantati uno o più microscopici elettrodi che, come antenne, catturano o inviano segnali bioelettrici. Un elettrodo, sebbene minuscolo, è comunque in prospettiva macroscopico e il tessuto cerebrale può subire micro-danni con annessi effetti collaterali. In alcuni casi, durante l’intervento, il paziente viene parzialmente risvegliato e i neurochirurghi monitorano in tempo reale la sua capacità di parlare o di muoversi.
È possibile un approccio pragmatico, dove si tenta comunque di alleviare la sofferenza anche se non si hanno certezze assolute sul funzionamento tecnologico?
Da ricercatore pensavo: «se non capisco a fondo ogni singolo aspetto del sistema, come posso suggerirne l’utilizzo?» . Ma un medico, mio amico, mi ha mostrato che oltre alle cure definitive, la medicina offre sollievo: se un antidepressivo o ansiolitico aiuta, si usa anche se non sono noti i meccanismi completi con cui agisce. È un contesto diverso da quello dell’ingegneria, dove se ignori il funzionamento di un motore non agisci. In medicina, temporeggiare può far soffrire, quindi si sfrutta la soluzione migliore disponibile, nonostante i limiti di conoscenza. Diventa un equilibrio costi e benefici.
Quanto queste tecnologie possono incidere sull’identità delle persone e sulla percezione di se stessi?
Molti impianti attuali operano in aree periferiche, quindi l’effetto sull’identità di solito non è così marcato da modificare convinzioni, credenze o il senso del sé. Esiste però la possibilità che una stimolazione elettrica accidentale in aree inattese del cervello possa suscitare reazioni forti come falsi ricordi, esperienze mistiche o perfino esperienze extracorporee. Da una prospettiva psicologica, alcune persone possono sperimentare profondi cambiamenti, dal benessere generale fino al disagio per l’idea di essere controllati dal chip. L’identità si lega anche ad aspetti pratici: chi usa un impianto cocleare o una protesi visiva teme il giudizio altrui e cerca soluzioni estetiche poco vistose anche a discapito di funzionalità migliori. Nell’ultimo periodo, però, questa tendenza si sta invertendo anche grazie a para-atleti che hanno fatto da apripista nell’accettazione sociale delle protesi.
Come rispondi alle paure sul controllo mentale o la lettura dei pensieri tramite questi dispositivi?
In realtà non siamo ancora in grado di leggere né di influenzare in modo diretto i pensieri; se anche ci arrivassimo, sarebbe comunque un processo tecnologicamente e scientificamente molto più complesso di quanto oggi si prospetti nei media. Certo, è comprensibile che qualcuno possa sviluppare una forma di preoccupazione, soprattutto se le notizie vengono esagerate: ricordo un caso di una mia paziente che mi contattò convinta di avere un impianto nel cervello capace di controllarle i pensieri, ma in realtà era frutto di un quadro clinico più serio.
Esiste un rischio di hacking di queste neuroprotesi?
Il rischio è concreto. L’uso non autorizzato o la commercializzazione di dati sanitari raccolti da dispositivi biometrici rappresenta un rischio oramai consolidato per la privacy. Ma si parla meno dell’hacking dei dispositivi medtech programmabili in modalità wireless. Le aziende devono migliorare sicurezza e crittografia, bilanciando comunque la necessità di garantire un certo grado di libertà e personalizzazione da parte dei pazienti. Ma è un territorio ancora nuovo e l’evoluzione tecnologica supera spesso la capacità delle normative di adattarsi.
Come vedi l’applicazione dell’AI all’interno del corpo umano, unendo l’idea delle IoT con dispositivi impiantabili?
Avrà un impatto enorme sul modo in cui gestiremo le patologie e la prevenzione. Già oggi accumuliamo una valanga di dati — dai passi che facciamo a parametri vitali come il battito cardiaco — che, se analizzati da modelli di apprendimento automatico, forniscono un quadro molto preciso del nostro stato di salute. In futuro, questi algoritmi potrebbero funzionare direttamente a bordo dei dispositivi, grazie a tecniche di ingegneria neuromorfica che consumano meno energia e sono progettate per elaborare segnali simili a quelli biologici.
Quali sviluppi futuri immagini nel campo terapeutico di queste neuroprotesi, e vedi un rischio di disuguaglianza se un domani si passasse da impianti a scopo medico a impianti di potenziamento biologico?
Immagino microdispositivi – o addirittura soluzioni biologiche ibride – che aiuteranno persone affette da degenerazioni retiniche, da Parkinson, da Alzheimer e altri disturbi neuronali. Già oggi però esistono disparità di accesso alle cure tra Paesi, e se si considerano impianti progettati non solo per curare ma per aumentare capacità cognitive o fisiche, in futuro potrebbe nascere un vero mercato del potenziamento: individui benestanti decisi a pagare cifre inimmaginabili per migliorare memoria, attenzione o riflessi e superare i limiti biologici a cui siamo oggi abituati.