A volte, una serie di letture che focalizzano l’interesse del lettore su un certo argomento lo porta poi a divagare e ad approdare a quello per un altro: è successo a chi ora ne scrive, complice il webinar Confronto sul linguaggio inclusivo organizzato da Zadig il 16 aprile us.
In principio c’è stato un articolo del divulgatore scientifico Bob Holmes, apparso su Knowable Magazine (un’iniziativa giornalistica senza scopo di lucro per la diffusione della conoscenza) sul “prezioso ruolo” delle interiezioni nel linguaggio. Si chiamano così (dal latino intericere, scagliare in mezzo) tutte quelle emissioni vocali che interrompono o accompagnano una comunicazione, senza aggiungere nulla sul suo argomento; possono essere espressive (come “ahia” e “wow”), conative (come “shh” ed “ehi”) o fàtiche, cioè con la funzione non di comunicare un’informazione, ma di aprire o di mantenere il contatto tra due parlanti. Se sono costituite da nomi, aggettivi, avverbi o verbi (!Dio non voglia!), le interiezioni si definiscono improprie, perché le interiezioni propri” sono prive di significato lessicale e sono contraddistinte dal peculiare utilizzo del grafema h (ah, oh, ehi, ahimé, ecc.), talvolta accumulato per dare enfasi allo stato d’animo che riproducono (“ohhh”) e sono spesso seguite dal punto esclamativo o da quello interrogativo per accentuarne l’aspetto emozionale. Talvolta, il loro significato è dato da oscillazioni fonico-grafiche, come marcare la vocale oppure la consonante: “eh” parafrasa una conferma; “eeh” mima un’esitazione reticente (vedi box).
Nel 1786, il filologo John Horne Tooke, scriveva che «La brutale e inarticolata interiezione non ha nulla a che fare con il discorso ed è solo il misero rifugio dei muti» e che «I gemiti, gli strilli e ogni altra convulsione involontaria che abbia un suono hanno quasi lo stesso titolo delle interiezioni a essere chiamati parti del discorso», avviando così 200 anni di interpretazione travisata (Horne Tooke J. Epea Pteroenta, or The Diversions of Purley. Legare Street Press). Ma le parti del linguaggio che si affermano con l’utilizzo sono tenaci e la linguistica, forte anche della moderna possibilità di registrare il parlato, nel ventesimo secolo ha definitivamente assodato che, lungi dall’essere espressioni residuali di primitività, le interiezioni sono strumenti, definitivamente depositati nel lessico, per regolare il flusso della conversazione e per negoziare la comprensione reciproca: una finestra sulle relazioni interpersonali e su come viene negoziato il potere in una conversazione (Renzi L, Salvi G, Cardinaletti A. Grande grammatica italiana di consultazione. Il Mulino, 1995).
Le interiezioni, in definitiva, operano ciò che i linguisti chiamano grounding: segnalano quello che ciascuno dei parlanti sa, quello che pensa l’altro sappia e stabiliscono il turno di parola. Per esempio, un elemento come “mmhm”, dai linguisti detto continuatore, segnala che l’ascoltatore sta prestando attenzione e che si aspetta che il parlante continui; gli iniziatori di riparazione come “huh?” o “eh?” aiutano gli interlocutori a calibrare con immediatezza la comprensione reciproca, e un segnale di cambiamento di stato come “oh” mostra come la conoscenza si evolve durante l’interazione.
Questa necessità di feedback sembra essere universale: l’ha verificato in più di 20 lingue Martina Wiltschko, linguista teorica all’Istituto catalano di ricerca e studi avanzati (ICREA) di Barcellona, e in 31 lingue Mark Dingemanse, linguista dell’Università olandese Radboud (Dingemanse M. Interjections at the Heart of Language. Annual Review of Linguistics 2024; 10: 257–77).
Questo ruolo di connessione sociale e di affermazione individuale, consegnato a particelle di linguaggio apparentemente strampalate, non è difficile da mettere in parallelo con quello attribuito ad altri grafismi di recente conio, emblemi di un idioma che intende comprendere tutta la varietà dei generi umani. Il riferimento è a schwa (ǝ), schwa lungo (з), desinenze in “u” e asterischi, che chiudono sostantivi o aggettivi soprattutto in opposizione al maschile sovraesteso (che in italiano ha la doppia funzione di designare il maschile e di neutralizzare il genere), ma anche in estensione della semplice distinzione maschile/femminile.
Il gradimento di questa sostituzione non è affatto unanime, tra i linguisti: alcuni, tra cui Edoardo Lombardi Vallauri, dell’Università di Roma Tre, considerano il maschile sovraesteso non la prova di un sessismo grammaticale, ma una mera convenzione che non si ravvisa la necessità di modificare, dal momento che mancano le basi scientifiche per affermare che la struttura di una lingua modifica il modo di percepire la realtà (Le guerre per la lingua. Einaudi: Torino, 2024). Al contrario, uno stuolo di studiose, come Alma Sabatini, Maria Serena Sapegno, Cecilia Robustelli, Benedetta Baldi o Vera Gheno, ritiene che le parole usate diano forma non solo al pensiero di chi parla, ma anche a quello di chi ascolta: ciò che non viene nominato non esiste; ciò che viene nominato male, rimane incastrato tra le maglie del pregiudizio (è da rivedere il “duello” tra Gheno e Vallauri in tv).
Questo secondo modo di vedere ha radici già nei primi decenni del Novecento, quando Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf formularono la Sapir-Whorf Hypothesis, secondo cui il modo di esprimersi addirittura determina il modo di pensare e Antonio Gramsci, che studiò linguistica e filologia all’Università di Torino nel 1911, ne scrisse dal carcere. Per Gramsci, il linguaggio è, allo stesso tempo, un’entità vivente e un museo di fossili della vita passata: vecchie barriere ideologiche rimangono punti di riferimento nell’inconscio collettivo anche dopo la loro apparente scomparsa, proprio poiché continuano a vivere linguisticamente. Allo stesso tempo, la lingua è viva, perché la parola non ha un significato oggettivo e immutabile, ma è una metafora che, rimandando sempre a un’azione storica, contribuisce a modificare non solo l’assetto della lingua, ma la stessa realtà che descrive. La storia di una lingua è, dunque, la storia delle innovazioni in essa introdotte da una comunità sociale che è storicamente progredita (Gramsci A. I quaderni del carcere. Roma, Editori Riuniti, 1971).
Se è vero che le norme grammaticali guidano l’attività mentale di chi le applica, è allora sicuramente necessario innovare quelle palesemente androcentriche. Qualcosa è cambiato a partire dagli anni ottanta del Novecento: dalle raccomandazioni e dalle linee guida emesse da molte istituzioni nazionali italiane e internazionali europee affiora l’impegno per un uso della lingua non sessista. È ormai quasi ovunque accettato e praticato l’uso della doppia locuzione maschile e femminile in riferimento a gruppi di genere misto e si fa strada il tentativo (talvolta visibilmente forzato per evitare l’accusa di scorrettezza politica) di utilizzare i grafemi portabandiera del linguaggio inclusivo.
Quest’ultima operazione è quella accettata con maggiore riluttanza: secondo il linguista Massimo Arcangeli, per esempio, sovrapporre in modo semplicistico il piano sovrastrutturale (socioculturale) a quello strutturale (tecnico-linguistico) sconvolge le strutture di un idioma, stratificate nel tempo, fino a rendere ardua perfino la decodifica di un’informazione (Jafrancesco E, Fratter I e Tucci I. Educazione all’uguaglianza di genere ed educazione linguistica. Firenze University Press 2024). Gli asterischi e gli schwa, infatti, sono interferenze solo in apparenza minimali: il loro peso nell’economia della lingua, in realtà, è rilevante, perché sostituiscono desinenze che comportano necessari accordi grammaticali con articoli, preposizioni articolate, pronomi, aggettivi e participi passati. Nel suo La lingua scema. Contro lo schwa e altri animali (Castelvecchi Editore: Roma, 2022), Arcangeli concorda con l’assunto che le lingue non devono sottrarsi alla rappresentazione del reale e dell’«ampio territorio umano non coperto dal binarismo cisgender»: un dizionario italiano che aggiunga ai termini filosessuali (omosessuale, eterosessuale, bisessuale), i termini filoaffettivi (omoaffettivo, eteroaffettivo, biaffettivo, transizionante, panaffettivo), quindi, «compie il suo dovere di registrazione di una pressante e significativa famiglia di parole». L’editorialista del NYT Masha Gessen, transgender non binario, in un articolo del 9 febbraio 2025 contro la decisione di Trump di abolire tutti i termini che si riferiscono alla fluidità di genere, ha scritto che quelle parole sono ineliminabili, perché danno la possibilità di «reinventare l’umanità», aiutando a far sentire ogni persona prevista in seno a essa, quali che siano le sue caratteristiche identitarie.
Il neologismo –sostiene, però, Arcangeli- va distinto dall’innovazione grammaticale introdotta dall’occultamento delle desinenze per occultare il genere: mentre il primo s’inserisce nell’idioma senza creare una forzatura, cambiare la lettera finale di un termine, sostituendola con un simbolo più “neutro”, smaglia la sintassi (che non può prescindere dalla regola dell’accordo) e la testualità (l’accordo delle parole, anche a distanza, contribuisce alla coesione dei testi). Arcangeli segnala che esistono soluzioni inclusive alternative, che comprendono i nomi collettivi o astratti indicatori di categoria (comunità studentesca, scolaresca, cittadinanza, genere umano o umanità, gioventù, corpo o personale docente), la sostituzione di determinanti maschili e femminili con forme non marcate (ogni contribuente) o i pronomi generici o le forme verbali impersonali invece delle personali corrispondenti (chi deve sostenere l’esame, anziché gli studenti che devono sostenere l’esame).
Il dibattito è aperto, ma va detto che non appassiona tutte le generazioni nella stessa misura; agli esponenti progressisti Millenians e delle Generazioni X, Y e Z, già proiettati in quel futuro che i/le Boomer riescono solo a intravvedere, poco interessano l’estetica, la pulizia della forma, la musicalità, insomma ognuna delle bellezze perseguite nella lingua da chi è più anziano: per loro, che per Vera Gheno sono i veri “grammamanti”, perché amano la lingua nel lasciarla libera di mutare, tutto ciò che è stato tradizionalmente proposto come una qualità (inevitabilmente per decisione di un maschio bianco) non vale più nulla se paragonato all’accettazione e all’inclusione di tutti i nostri simili e dissimili, al benessere mentale delle persone, alla libertà d’espressione, insomma alla democrazia.
Cosa esprimono le interiezioni
Interiezione | Significato |
---|---|
ah | dolore o sorpresa; se ripetuta (ah! ah!) risata |
ahi, ahia, uhi | dolore fisico o spirituale |
bah | perplessità, dubbio, incertezza, spiacevole sorpresa |
beh?, che? | richiesta di spiegazioni |
boh, chissà, mah | ignoranza mista a disinteresse |
bum | incredulità per un’esagerazione |
eh | rimprovero, disapprovazione, meraviglia |
ehi! | richiesta di attenzione |
ehm | esitazione o imbarazzo oppure richiamo all’attenzione |
ihih | risata a denti stretti |
mah | incertezza o amarezza o rassegnazione |
mhmm | dubbio, perplessità o esitazione oppure soddisfazione per aver mangiato o all’idea di mangiare qualcosa di buono |
oh | meraviglia, gioia, dolore, sdegno |
to’ | sorpresa |
uffa | noia, impazienza, fastidio, fatica |
uh | meraviglia per una cosa bella o brutta |
uhm | incertezza, dubbio, perplessità |
ah | conoscenza nuova |
toh, già | conoscenza nota |
see | incredulità / negazione |
eh?, no? | richieste di conferma |
bèeh | disgusto |
ahimè, ohimè | dispiacere |
ts | perplessità |
ohibò | indignazione |