A fine anni Settanta, Daniel Everett e sua moglie Keren raggiunsero insieme ai tre figli un villaggio di indigeni dell’Amazzonia chiamati Pirahã (si pronuncia “pi-ra-an”): un gruppo di cacciatori-raccoglitori che oggi conta poco meno di 600 individui. I due erano dei missionari cristiani con un compito che nessuno dei loro predecessori era riuscito a portare a termine: imparare la lingua dei Pirahã e tradurvi la Bibbia. A rendere quasi impossibile questo incarico erano sia l’estrema ostilità dell’ambiente amazzonico (la stessa Keren finì in coma a causa della malaria, fortunatamente sopravvisse), sia le particolarità dei Pirahã, che storicamente si sono sempre opposti a ogni cambiamento tecnologico, culturale o linguistico. 

Con l’arrivo dei primi occidentali, molte lingue amazzoniche sono state soppiantate dal portoghese e si sono estinte, incluse quelle più imparentate alla lingua Pirahã. Ma diversamente da altri indigeni, i Pirahã hanno conservato la loro lingua e non hanno mai imparato il portoghese: ciò che gli Everett trovarono al loro arrivo era una popolazione strettamente monolingua, con cui non condividevano nessuna lingua comune tramite cui comunicare.

Nonostante le difficoltà, i due missionari trascorsero diversi anni in Amazzonia e riuscirono a imparare il Pirahã: cosa più unica che rara tra i non appartenenti al gruppo. Daniel Everett riuscirà anche a tradurre il Vangelo secondo Marco, ma in seguito abbandonerà la fede cristiana per concentrarsi sulla linguistica e sulla sociologia, di cui è tuttora professore all’Università di Bentley. Nondimeno, non ha mai dimenticato i Pirahã, dai quali è tornato più volte e su cui ha scritto numerosi libri e articoli scientifici: quelle che racconta sono una lingua e una cultura tra le più incredibili al mondo. 

Lingua e cultura Pirahã

Secondo Everett, la lingua Pirahã avrebbe un sistema di fonemi tra i più piccoli esistenti: otto consonanti e tre vocali per gli uomini, sette consonanti e tre vocali per le donne. La scarsità di fonemi sarebbe però compensata da un complesso sistema di toni, ed è quindi una lingua tonale: una frase può cambiare completamente di significato cambiando l’accento di una singola sillaba.

La lingua Pirahã sarebbe poi l’unica lingua al mondo senza nessuna parola per riferirsi ai numeri interi. Non mancano gli esempi di lingue che possiedono solo le parole per “uno, due, molti”, ma ai Pirahã sembrano mancare persino queste. Esistono tre parole che indicano quantità: hòi, hoí, báagiso, che alcuni hanno interpretato come “uno, due, molti”, ma secondo Everett questa traduzione non è corretta. Una possibile traduzione di báagiso è effettivamente “molti”, anche se sarebbe più corretto tradurlo con “motivo per riunirsi”, ma hòi e hoí non significano “uno” e “due”: sono piuttosto dei generici “piccola quantità” e “quantità un po’ più grande”.

Everett sostiene che questa sia anche l’unica lingua senza nomi per i colori: se un Pirahã vuole dire che qualcosa è, per esempio, “rosso”, userà l’espressione “come il sangue”. Non esisterebbero poi parole per “tutti”, “ognuno”, “qualsiasi”, e avrebbero il sistema di nomi per le parentele e l’inventario di pronomi più piccoli al mondo – si crede che quest’ultimo sia in realtà un prestito da altre lingue. Infine, sembra che i Pirahã non producano arte e musica, oltre a non avere né miti di creazione né storie tramandate da più di due generazioni. Everett spiega che i Pirahã, nonostante parlino di cosmologia e dell’origine dell’Universo, lo facciano con storie che ritiene molto simili a quelle di altri indigeni con cui hanno avuto contatti o a quelle cristiane, che conoscono per via dei missionari. L’esistenza di miti inventati dai Pirahã non è ancora stata dimostrata. 

Daniel Everett con un Pirahã. Foto di Martin Schoeller, proveniente dall’archivio di Daniel Everett, per gentile concessione di Toninho Muricy

La questione dei numeri

Nel 2011, è stato pubblicato uno studio psicologico condotto da Caleb Everett (figlio di Daniel) e sua madre Keren Madora (Keren Everett prima del divorzio) che aveva l’obiettivo di capire se la capacità dei Pirahã di riconoscere le quantità sia influenzata dalla mancanza di numeri nella loro lingua. Per l’esperimento mostrarono ai Pirahã una serie di massimo dieci oggetti in fila e, dopo averla nascosta, chiesero loro di crearne un’altra con lo stesso numero di elementi. Se normalmente ciò non crea problemi a un adulto di altre culture, i Pirahã risultarono invece incapaci di ricreare correttamente file con più di 2-3 oggetti: risultato simile a quello che si ottiene con bambini non ancora in grado di parlare. L’ipotesi degli autori è che esistano due sistemi di rappresentazione delle quantità: uno preciso per quantità piccole (sino a 2-3 oggetti) e uno approssimato per quantità più grandi. La capacità di rappresentare con precisione anche i numeri più grandi di 2-3 sarebbe «una costruzione culturale che trascende la conoscenza fondamentale» e ai Pirahã mancherebbero quindi gli «strumenti concettuali» per riconoscere queste quantità, non le capacità mentali. 

Una lingua controversa

Tra le caratteristiche della lingua Pirahã elencate da Everett (padre) c’è anche l’inesistenza della ricorsività, la proprietà che permette, per esempio, di formare periodi arbitrariamente lunghi inserendo una frase dentro l’altra: “…e venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò”. Se ai non esperti questo può sembrare un aspetto meno interessante dell’assenza dei numeri o dei colori, è invece cruciale per i linguisti. Secondo la teoria della grammatica universale di Noam Chomsky, uno dei linguisti più influenti di sempre, ciò che accomuna tutti i linguaggi umani e che li distingue da quelli degli altri animali è l’esistenza della ricorsività. Quindi, le affermazioni di Everett non sono innocue curiosità su una lingua esotica: mettono in discussione una delle teorie più importanti della linguistica. 

A causa delle sue affermazioni sui Pirahã, gli studiosi più vicini a Chomsky hanno portato avanti contro Everett quella che il linguista Geoffrey Pullum ha definito «una campagna di vendetta e di sabotaggio della carriera». In particolare, hanno convinto gli enti brasiliani a revocargli il permesso per recarsi nei territori dei Pirahã: cosa che, secondo Pullum, sarebbe un danno anche per gli stessi indigeni, dato che Everett approfittava delle visite per portare loro medicinali. In un’intervista Chomsky definirà Everett «un semplice ciarlatano»; secondo Everett, Chomsky è invece «un guru, le sue parole vengono accettate dai suoi discepoli per sola fede e non si sente obbligato a difenderle in maniera scientifica». Nonostante le controversie, studi condotti da ricercatori terzi non hanno trovato prove dell’esistenza della ricorsività nella lingua Pirahã. 

Il parere degli esperti

L’inesistenza della ricorsività non è l’unica questione ad aver creato dello scetticismo. Per vederci chiaro, abbiamo posto delle domande via e-mail ad alcuni esperti dell’argomento, compresi Daniel e Caleb Everett (rispettivamente padre e figlio). 

Secondo Daniel Everett, nessuna delle sue rivendicazioni sui Pirahã è stata smentita incontrovertibilmente, e anche suo figlio Caleb ci scrive di «non aver personalmente visto nessuna prova che contraddicesse le affermazioni di mio padre. Un punto chiave, tuttavia, è che le sue dichiarazioni vengono a volte mal interpretate (secondo me). Non è che i Pirahã non possano in alcun modo descrivere i colori degli oggetti, ma solo che la loro lingua non possiede le parole astratte per i colori», possono dire che qualcosa è “rosso” (o, meglio, “come il sangue”), ma non un più astratto “mi piace il rosso”. Dalle nostre ricerche non sono emersi studi che contraddicessero queste affermazioni, ma la comunità scientifica resta frammentata. 

Tecumseh Fitch, biologo cognitivo che ha accompagnato Everett in uno dei suoi viaggi in Amazzonia, nonché uno dei padri della grammatica universale, non crede all’inesistenza della musica: «Sciocchezze», ci scrive, «li ho personalmente sentiti cantare, anche in duetti». Alla domanda se i Pirahã cantassero o meno, Everett ci ha risposto che «dipende da cosa si intende con cantare. Tutte le melodie delle loro canzoni sono i semplici toni che le parole hanno intrinsecamente.  Non sono mai riuscito a riconoscere alcuna melodia separata (pur essendo io un musicista)». Fitch controbatte che anche il cinese è una lingua tonale, ma difficilmente un dialogo in cinese può essere scambiato per un canto.

La mancanza di un’opinione comune è palese e la sua causa è nota: quasi nessuno parla il Pirahã. Come ci ha spiegato Everett, solo tre persone estranee al gruppo sono fluenti nella loro lingua: lui, Keren Madora e Steven Neil Sheldon (un missionario ultraottantenne che visse con i Pirahã prima degli Everett). Secondo il già citato linguista Geoffrey Pullum, il problema principale è che nessuno studioso si prenderà mai la briga di trascorrere numerosi anni nella foresta amazzonica per imparare la loro lingua: «Questa è, secondo me, la grande tragedia di questa situazione», ci spiega in una e-mail.

Il problema del primitivismo

Tra le accuse più gravi che ha ricevuto Everett c’è quella di essere «un razzista che mette i Pirahã allo stesso livello delle scimmie». In realtà, già in un articolo del 2005 Everett scriveva che «nessuno dovrebbe trarre da questo articolo la conclusione che la lingua Pirahã sia in qualche modo “primitiva”. […] I Pirahã sono tra le persone più brillanti, piacevoli e amanti del divertimento che conosco. […] Chiedersi quali siano le implicazioni dei Pirahã sulle caratteristiche del linguaggio umano non è equivalente a dubitare della loro intelligenza o della ricchezza della loro esperienza e conoscenza culturale».

Quando si parla di popolazioni indigene o aborigene si rischia di cadere nel primitivismo: considerarle dei “fossili viventi” o delle “reliquie del Neolitico”. Ciò può essere fatto anche senza cattive intenzioni, nondimeno si rischia di mettere queste culture in uno stato di inferiorità: considerarle uno stadio già superato dalle società occidentali che dovrà soccombere di fronte alla modernizzazione. In realtà, queste popolazioni non sono uguali ai cacciatori-raccoglitori preistorici e la loro società si è evoluta nel tempo esattamente come quella occidentale. Sono culture che vanno tutelate, ma che sono estremamente vulnerabili e minacciate da più fronti. Raramente gli indigeni sono organizzati politicamente, rendendoli facili vittime di espropriatori terrieri, trafficanti di droga e altri gruppi politici; mancano spesso delle difese immunitarie per molte malattie comuni tra gli occidentali e anche la ricerca scientifica, nonostante i buoni propositi e i numerosi effetti positivi, rischia di modificare le loro culture introducendo elementi esterni.  

In una e-mail Everett ci scrive che «La caratteristica più importante dei Pirahã è la loro differenza dalle culture e dalle lingue più comunemente studiate. Ma ciò non li rende unici. […] Non mi piace affermare che i Pirahã siano unici se non nel modo in cui ogni lingua è unica».

Questo articolo è stato scritto anche grazie alle numerose e-mail scambiate con Daniel e Caleb Everett, Geoffrey Pullum, Tecumseh Fitch e David Pesetsky, a cui vanno dei doverosi ringraziamenti per tutte le informazioni e i pareri forniti.