Se le condizioni del pianeta ci preoccupano, è difficile leggere un libro che tratta questi temi senza farsi venire una certa ansia. Perché il punto di partenza è chiaro: la nostra specie ha causato danni enormi, impattando significativamente il 75% delle terre emerse e il 66% dei mari. Nei prossimi 30 anni potremmo perdere da mezzo milione a un milione di specie. Restaurare la natura, dell’ecologo Roberto Danovaro (Edizioni Ambiente, 2025), docente all’Università Politecnica delle Marche, inizia mettendoci di fronte a questa realtà e non fa sconti. Le Conferenze delle Parti sono state costellate di buone intenzioni, scrive l’autore, ma con poche azioni concrete. E proteggere non è più sufficiente, soprattutto perché in genere non vengono tutelate le aree più importanti per la biodiversità, ma quelle che creano meno conflitti con gli interessi economici: le 8 aree più protette sono infatti “ecosistemi ghiacciati”, come il mare di Ross in Antartide o le Terre australi e antartiche francesi.
Se tutelare non basta più, è arrivato il momento di ripristinare gli ecosistemi che abbiamo distrutto o compromesso. E, dati e casi studio alla mano, di riconoscere come il restauro sia un investimento che porta vantaggi in termini economici, di salute pubblica e di contrasto ai cambiamenti climatici. Un esempio? Il restauro dei mangrovieti nei Paesi asiatici, dove le mangrovie sono minacciate da inquinamento, acquacoltura e agricoltura. Ripristinare questi ambienti d’acqua salata, fortemente influenzati dalle maree, ha protetto quasi 300.000 persone dagli eventi alluvionali e – nelle sole Filippine – fa risparmiare 450 milioni di dollari l’anno in danni alle infrastrutture umane. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dedicato il decennio 2021-2030 al Restauro degli ecosistemi, identificandolo come priorità e chiedendo investimenti adeguati. A oggi i fondi pubblici rimangono la risorsa principale per questi interventi, ed è fondamentale che i governi pianifichino nuove modalità di finanziamento per incoraggiare una finanza sostenibile, anche nel privato.
In tutto il pianeta sono già in corso diversi progetti di restauro ambientale su larga scala, tra i quali troviamo: l’Iniziativa 4 per 1000 dedicata ai terreni agricoli; la Bonn Challenge, che vuole ripristinare almeno 350 milioni di ettari di foreste e ambienti terrestri entro il 2030; il Centro europeo per il restauro dei fiumi, che vuole risanare le acque interne del continente; la Great Green Wall Initiative in Africa per recuperare territori desertificati; la Global Peatlands Initiative dedicata alle torbiere; Regreening Africa per ripristinare gli ecosistemi naturali di 8 paesi africani, e la Global Mangrove Alliance, che entro il 2030 mira a ripristinare almeno 15 milioni di ettari di mangrovie. La sfida più complessa saranno gli ambienti marini, dove i costi di un progetto di restauro sono anche 100 volte maggiori rispetto a quelli di un habitat terrestre: se per una foresta pluviale si attestano intorno a circa 8.800 euro/ettaro, per un banco di ostriche già si sale a oltre un milione. All’aumentare della profondità dell’habitat aumentano anche i costi per ripristinarlo, perché si rendono necessari macchinari costosi e subacquei sempre più specializzati.
Restaurare la natura è un libro che comunica urgenza, ma racconta anche nel dettaglio – e sempre dati alla mano – come una soluzione alla degradazione ambientale ci sia e la necessità di ripristinare gli ecosistemi non sia più rimandabile. C’è molto da fare ma è nell’interesse di tutti, dal punto di vista dei servizi ecosistemici, della salute umana, della tutela della biodiversità e anche delle ricadute economiche di questi progetti. Ne abbiamo parlato con l’autore.
I dati ci dicono che è prioritario restaurare la natura, ma possiamo davvero guardare con ottimismo alla possibilità che venga fatto in tempi rapidi? E stanziando i fondi necessari?
In una prospettiva ampia, quella del secolo in cui viviamo, non solo dobbiamo essere ottimisti ma anche capire che non c’è altro modo: restaurare la natura è indispensabile. Nel libro cerco di spiegare che questa necessità non è un afflato ambientalista ma un ragionamento sostenuto da aspetti scientifici ed economici. Troveremo i finanziamenti? Dobbiamo trovarli, come in passato li abbiamo trovati per tutelare la biodiversità negli ambienti terrestri e marini. Nel 2024 è stata approvata la Nature Restoration Law, la legge europea in materia ambientale più importante degli ultimi 40 anni e dedicata al ripristino degli ecosistemi degradati. In tal senso credo si viaggerà su due livelli. Da un lato c’è chi la attiverà in modo più convinto, investendo più risorse e di conseguenza ricavandone più benefici, perché alla fine si tratta di “ristrutturare la propria casa”. Non farlo sarebbe come ignorare delle opere d’arte vandalizzate dalla guerra, come ritrovarsi con il Colosseo bombardato e decidere di non restaurarlo per ragioni ideologiche. Dall’altro lato, chi volesse rallentare il processo di restauro della natura non solo rinuncerà ai benefici che porta ma pagherà anche lo scotto delle infrazioni al diritto europeo. Un rischio ulteriore è vedersi superati, anche da questo punto di vista, dai Paesi emergenti. Penso alla Cina, che ha già un piano di restauro ecologico molto avanzato sia per il mare che per la terra. Pensare che l’Europa venga scavalcata a causa di divisioni interne, anche quando avrebbe la possibilità di primeggiare, sarebbe l’ennesima beffa.
Nel libro parla dei sussidi a pesca e agricoltura come un meccanismo che rende le attività dipendenti e controllate, spendendo risorse che sarebbero meglio investite nel restauro ecologico, del quale beneficerebbero anche le attività economiche.
Il problema sostanziale è che molti degli impatti che l’essere umano ha generato sul pianeta derivano da un’agricoltura che è ormai un’industria del suolo, un meccanismo di produzione non più sostenibile e che consuma il 75% dell’acqua, della quale abbiamo sempre più bisogno. In più non incentiviamo le pratiche di agricoltura variegate né la pesca sostenibile; il meccanismo purtroppo è di interesse politico, si tratta di lobby molto forti che alle elezioni risultano determinanti. Quello che serve, e oggi si fa solo timidamente, è una trasformazione del settore. Se non abbiamo il coraggio di accantonare le pratiche più distruttive, la ragione è sempre politica. Un po’ come se per motivazioni politiche lasciassimo ammalare le persone, o scegliessimo di non curarle. Io spero si possa ripartire dai dati scientifici, oggettivi, ed è uno degli obiettivi del libro: la cura dell’ambiente non può diventare una questione politica.
Il restauro che ambisce al massimo successo, scrive nel libro, deve anche coinvolgere le popolazioni locali e la cittadinanza così da renderle partecipi, evitando che ci siano aspetti di contrasto.
Sì, in questo senso parliamo di una vera e propria rivoluzione dell’approccio. Con il restauro, l’idea è quella di sviluppare anche una nuova imprenditorialità diffusa, nuove opportunità di lavoro e nuove professionalità, che coinvolgano e diano un ruolo attivo a chi vive sul territorio. Se ci pensiamo questo accade già oggi in tutto il mondo: molti Paesi dell’Africa hanno enormi introiti derivanti dai parchi naturali, ma lo stesso vale per le Maldive o per la California, che ha cinque volte le aree protette dell’Italia. Senza il supporto locale, le aree protette lo sono solo sulla carta. Ma anche in vista di un turismo che vuole naturalità, l’ambiente è sempre più visto come una risorsa. Nel caso della tutela e della conservazione si “raccoglie” da ciò che esiste già, mentre con il restauro aggiungiamo un elemento in più, quello di investimento, che può offrire occasioni straordinarie. Per restare in Italia possiamo pensare alla baia di Bagnoli, e a cosa vorrebbe dire recuperarla insieme a tutto il retroterra industriale. A quanto varrebbe in termini ambientali e di salute, ma anche dal punto di vista del valore degli immobili. I benefici del restauro sono su molti livelli, non ultima l’importante natura economica.
Quanto è importante la cooperazione internazionale, soprattutto per quanto riguarda i grandi progetti di restauro ambientale?
Molto. E se per gli ecosistemi terrestri possiamo basarci sui confini, la questione si fa più complessa quando parliamo di quelli marini. Penso sarà necessario ragionare su più livelli, proprio in base alla portata dei progetti. Se pensiamo a iniziative come la Grande muraglia verde in Africa, che ha l’obiettivo di fermare l’avanzata del deserto, sono coinvolte le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, 20 Paesi africani e chiunque voglia aiutare in un’ottica di cooperazione internazionale. Ogni contributo è utile, e anche per questo sono convinto serva uscire al più presto dal contesto ideologico. Tutti devono cooperare, con i propri mezzi e in base alle proprie motivazioni: che sia l’amore per la natura, l’interesse per la salute umana o le prossime generazioni, l’obiettivo è comune e bisogna lavorare insieme. L’interesse collettivo deve prevalere rispetto a quello individuale.