Pubblicato il 30/05/2025Tempo di lettura: 15 mins

Interveniamo nel dibattito sul pre-ruolo universitario con un contributo che vuole cercare di riportare su binari di maggiore correttezza l’informazione sull’impatto che la legge 79/2022 ha avuto sul sistema nazionale dell’università e della ricerca pubblica, contrastando la proliferazione di informazioni false o ambigue, e sui correttivi che sarebbe realmente necessario introdurre per migliorarne l’applicabilità. Cogliamo subito l’occasione per sottolineare, qualora fosse necessario, che non riteniamo intoccabile la legge 79 e che riteniamo positiva una discussione aperta sul miglior modo di ritoccarla, purché le modifiche conseguano risultati che siano realmente migliorativi per tutte le parti nel sistema, a partire prioritariamente dai lavoratori della ricerca a cui la norma si applica. L’intervento legislativo sul pre-ruolo universitario e degli enti pubblici di ricerca non comincia all’improvviso con la legge 79/2022, e non può essere ridotto alla feroce contrapposizione che si è creata ad arte negli ultimi mesi sul Contratto di ricerca. Abbiamo individuato tre momenti significativi che determinano il contesto indispensabile in cui calare questa discussione.

Il primo è la dettagliata Indagine conoscitiva sulla condizione studentesca nelle università e il precariato nella ricerca universitaria, condotta dalla 7a Commissione del Senato della Repubblica durante la scorsa legislatura con audizioni di tutte le parti interessate, inclusa la CRUI, e conclusa con un documento approvato all’unanimità dalla Commissione1. Da questa indagine estraiamo due passi delle conclusioni particolarmente rilevanti:

  • Sul precariato nella ricerca universitaria e sulle misure strutturali di contrasto da cui muove l’istituzione della presente Indagine conoscitiva, è stata evidenziata, innanzitutto, la questione della modifica del sistema attuale in quanto caratterizzato da un percorso di pre-ruolo successivo al dottorato di ricerca eccessivamente lungo e costellato da una serie di posizioni a tempo determinato – incluse quelle di natura occasionale, a progetto, di collaborazione, spesso con una durata non in linea con le esigenze dell’attività di ricerca e caratterizzate da forme di tutela inferiori rispetto a quelle tipiche dei rapporti di lavoro subordinati – al termine di ciascuna delle quali si pone il rischio del mancato rinnovo. Al riguardo, si segnalano alcune priorità: […] ii) la necessità di una radicale revisione dell’attuale disciplina normativa dell’assegno di ricerca. Nel corso delle audizioni, è stato evidenziato con forza come esso costituisca l’anello debole del sistema nazionale di pre-ruolo, con un utilizzo abnorme e surrettizio che ha indotto negli anni una pesante precarizzazione del sistema a scapito della qualità e della potenzialità di migliaia di ricercatori.
  • È fondamentale rimarcare la necessità di programmare un piano di rilancio ed espansione del sistema universitario che abbia l’obiettivo di recuperare il terreno perduto a seguito di pesanti tagli di risorse e di incrementare la dotazione del personale di ricerca ai livelli necessari a fare fronte alle esigenze del sistema Paese, con l’obiettivo di varare un programma di reclutamento strutturale e pluriennale, superando la logica dei piani straordinari (pure dimostratisi assolutamente importanti per aver consentito di recuperare una parte dei ruoli strutturati che erano andati perduti).

Il Parlamento aveva quindi già nel 2021 individuato i due obiettivi fondamentali del superamento dell’assegno di ricerca come tipologia contrattuale, sul quale sin dal 2016 si era espressa con una censura formale la Commissione europea, e nell’incremento significativo del personale di ricerca strutturato.

Il secondo, strettamente connesso, è il lungo iter del disegno di legge 2285 di riforma del pre-ruolo e del reclutamento nell’università e negli enti di ricerca, approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel giugno del 2021 e sottoposto dal Senato ad una lunga serie di audizioni a partire dal settembre 2021, che includevano la CRUI e la Consulta dei presidenti degli enti di ricerca. Quando nel giugno 2022 la ministra dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, propose alla Commissione di stralciare la parte del Ddl poi confluita nella legge 79/2022, quale riforma a sostegno dell’investimento ricevuto con il PNRR, la maggioranza parlamentare, in cui erano presenti pezzi importanti dell’attuale maggioranza, accettò la proposta subordinandola ad un accordo politico con due condizioni: l’approvazione delle parti del Ddl non inserite nello stralcio, inclusa l’introduzione di un nuovo regime di reclutamento tenure-track negli enti di ricerca, e la promessa di un finanziamento nella legge di bilancio per il 2023 per far fronte alle criticità finanziarie introdotte con la nuova legge. Proprio per questo motivo il regime transitorio di conferimento di Assegni di ricerca era stato prorogato solo fino alla fine del 2022. E’ quindi falsa l’affermazione che gli estensori della norma non avessero pensato originariamente alla sua applicazione pratica. La fine prematura e improvvisa della legislatura, per le ragioni che tutti conoscono, ha invece fatto venire meno gli accordi presi, ed è particolarmente grave il fatto che le forze politiche componenti la maggioranza di governo in questa e nella precedente legislatura non abbiano dato seguito agli accordi, manifestando invece una torsione di 180 gradi sulla norma.

Precede temporalmente i primi due ed è apparentemente laterale invece la riforma Madia della pubblica amministrazione, ovvero il decreto legislativo 75/2017. La lunga applicazione delle norme per il superamento del precariato negli enti pubblici di ricerca negli anni 2018-2022 ha avuto il merito di evidenziare il fatto che gli Assegni di ricerca fossero contratti di lavoro flessibili, sciogliendo le ambiguità sulla formazione anche nel caso degli assegni post-lauream, e che anche se indirettamente e nel contesto di una norma straordinaria si riconosceva per la prima volta un abuso ai sensi della fondamentale direttiva 70/1999 della Commissione europea circa il conferimento di contratti a termine anche se flessibili e l’accesso, almeno nel contesto degli enti pubblici di ricerca, a procedure concorsuali riservate per l’assunzione in ruolo per i titolari di Assegni di ricerca. La risonanza che queste procedure hanno avuto ha certamente contribuito a far crescere negli atenei, anche in comparazione con le procedure di assunzione straordinaria che stavano avendo luogo negli enti di ricerca, l’insofferenza per le forme contrattuali flessibili, intermittenti e poco retribuite che invece permanevano nell’università e la richiesta duplice di contratti migliori e più assunzioni.

Fatta questa doverosa premessa, analizziamo alcuni aspetti tecnici delle norme sul pre-ruolo.

1) Analisi del costo dell’Assegno di ricerca e del Contratto di ricerca volta a dimostrare che l’incremento del costo minimo, se correttamente calcolato, non supererebbe il 29%

L’Assegno di ricerca, introdotto nell’ordinamento con la legge 341/1990 (legge Ruberti), è stato novellato con l’articolo 22 della legge 240/2010 (legge Gelmini). La riforma Gelmini ha demandato ad un successivo decreto ministeriale, il DM 102 del 9 marzo 2011, l’onere di stabilire il costo minimo della retribuzione annua, pari a 19.367 euro. Includendo anche i contributi previdenziali a carico del datore di lavoro si ottiene un costo totale pari a 24.015 euro, di cui 6.527 euro sono contributi previdenziali. Questo valore minimo è rimasto inalterato dal 2011, quindi qualsiasi comparazione di costo con un nuovo contratto non può prescindere da una rivalutazione del costo totale originario dell’assegno rispetto al potere d’acquisto che aveva a marzo del 2011. La rivalutazione restituisce un costo totale attualizzato di 30.619 euro, con un netto a pagare di circa 1.690 euro per dodici mensilità. Scendere al di sotto di questa soglia annuale significherebbe pagare i ricercatori ancora meno che con il vecchio Assegno di ricerca, aggravando uno sfruttamento del lavoro che cozzerebbe violentemente con l’art. 36 della Costituzione. Nel caso del Contratto di ricerca la legge 79/2022 ha ancorato la retribuzione minima a quella del ricercatore a tempo definito dell’università in classe 0, proprio per evitare che una retribuzione minima stabilita una tantum per decreto ministeriale rimanesse poi bloccata per molti anni, come avvenuto per l’Assegno di ricerca. Tale retribuzione è pari a 39.547 euro annui, con un incremento complessivo del 29% rispetto al costo rivalutato dell’Assegno di ricerca. A tale costo totale corrisponde uno stipendio netto che dipende da componenti fiscali e addizionali locali, ma può essere stimato mediamente attorno ai 23.000 euro, con un netto a pagare che per comodità di confronto con l’Assegno è pari a circa 1.900 euro su 12 mensilità, oppure a circa 1.650 euro su 13 mensilità più l’accantonamento per il TFR. Il pagamento dell’IRPEF è lungi dall’essere solo un costo, ma dà accesso al sistema delle agevolazioni fiscali individuali, che integrano la retribuzione e permettono di godere pienamente di tutti i diritti di cittadinanza associati al lavoro dipendente, inclusa la nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASPI). La previsione catastrofica che l’incremento del costo del lavoro provochi il dimezzamento del personale con contratti a termine è quantomeno tendenziosa se non falsa per tre motivi: i) perché non computa il doveroso innalzamento del costo minimo dell’Assegno di ricerca dovuto al recupero dell’inflazione dal 2011; ii) perché non computa le migliaia di Ricercatori a tempo determinato di tipo A che hanno già oggi un costo pari al massimale del Contratto di ricerca; iii) perché dà per scontato che l’offerta di lavoro finanziato da fondi esterni in ambiti disciplinari tradizionalmente ricchi come quelli della biomedicina non si adegui automaticamente all’incremento del costo del lavoro, scaricando questo incremento sui finanziatori invece che sui lavoratori.

2) Confronto tra dottorato di ricerca finanziato dall’FFO o da fondi straordinari nazionali e dottorato MSCA-DN e relativo inquadramento; considerazioni sulla forma di contratto richiesta dall’Unione europea per i rapporti di lavoro dei dottorandi di ricerca

Tra le polemiche pretestuose che hanno contrassegnato la campagna a favore della riforma Bernini-Cattaneo ha spiccato nelle ultime settimane quella sulla mancanza di una forma contrattuale adeguata al pagamento dei contratti di lavoro finanziati dall’Unione europea tramite i network europei per il dottorato di ricerca, conosciuti con la sigla MSCA-DN, Marie Skłodowska-Curie Actions – Doctoral Networks. Pretestuosa e ambigua perché lasciava credere che il problema riguardasse le opportunità di lavoro per i giovani ricercatori italiani. Il regolamento degli MSCA-DN è basato invece strettamente sulla mobilità dei dottorandi di ricerca tra le nazioni e prevede quindi regole molto stringenti sulla provenienza dei candidati da nazioni diverse rispetto all’istituzione vincitrice del bando che offre le posizioni di dottorato di ricerca. La mancanza di una forma contrattuale adeguata ad arruolare i dottorandi riguarda quindi essenzialmente i laureati stranieri, o al limite italiani ma formati da istituzioni straniere, che vogliano venire a svolgere il dottorato di ricerca in Italia. Non sottovalutiamo il problema, riteniamo una ricchezza per il sistema pari a quella del programma Erasmus la possibilità per i giovani ricercatori di svolgere il dottorato di ricerca all’estero grazie ad un finanziamento dell’UE. La formulazione originaria della legge 79/2022 proibisce in effetti agli atenei di conferire il Contratto di ricerca a coloro che non sono titolari del dottorato di ricerca, ma prevede anche deroghe, ad esempio nel caso degli Enti pubblici di ricerca, per i quali il dottorato è un titolo preferenziale e non obbligatorio. La stessa deroga può quindi essere estesa ai dottorati MSCA-DN, che prevedono che i dottorandi abbiano un contratto di lavoro con l’istituzione ospitante. Non possiamo però non soffermarci sulla maiuscola ipocrisia nascosta da questa polemica pretestuosa. Il fatto che l’Unione europea pretenda che i dottorandi nei programmi MSCA-DN siano arruolati mediante un vero contratto di lavoro ci sembra pacificamente accettato da tutti i colleghi che si sono preoccupati di non avere più nella normativa una forma contrattuale adatta a soddisfare tali requisiti. Cogliamo un’illogicità di fondo nell’accettare che in Italia ci siano due tipi di dottorato di ricerca conferiti dalle stesse istituzioni universitarie e di alta formazione, che differiscono solo per la fonte di finanziamento. Quelli finanziati dall’UE, i cui beneficiari sono considerati lavoratori ai quali è necessario dare un contratto di lavoro con determinati requisiti retributivi, fiscali e contributivi; quelli finanziati con i fondi nazionali, i cui beneficiari sono considerati studenti, e questo avviene solo in Italia, e pagati con una borsa di studio con retribuzione che non permette di vivere dignitosamente nella maggior parte delle città universitarie italiane. Logica vorrebbe quindi che tutti coloro che oggi si indignano per l’impossibilità di pagare qualche centinaio di studenti stranieri che vengono a svolgere il dottorato di ricerca in Italia pretendessero che tutti i dottorandi abbiano contratti di lavoro con i requisiti che l’UE richiede per quelli finanziati tramite i programmi MSCA-DN.

3) Correttivi applicabili al Contratto di ricerca

Il Parlamento avrebbe la possibilità di correggere alcune parti della legge 79/2022, per rendere più flessibile l’applicazione del Contratto di ricerca in tutti i contesti, senza però far venire meno la sua natura di contratto di lavoro subordinato a tempo determinato che è allo stesso tempo la richiesta che proviene dai ricercatori precari e da una parte significativa dei docenti e dei ricercatori dell’università e degli enti di ricerca, e dalla Commissione europea che ha acceso un faro sulla attuale discussione in Parlamento per verificare che il Governo italiano non venga meno agli impegni sottoscritti con la legge 79/2022, ovvero con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di eliminare dall’ordinamento universitario e degli enti di ricerca le forme contrattuali di tipo parasubordinato, facendo esplicito riferimento all’Assegno di ricerca sia nella relazione tecnica redatta dal MUR alla legge di conversione del decreto legge 36/2022, sia negli allegati al PNRR. Il Governo, incomprensibilmente, non permette la revisione migliorativa della norma, avendo recentemente espresso parere contrario all’emendamento presentato dal sen. Verducci ed altri contestualmente all’approvazione del testo Occhiuto-Cattaneo volto a reintrodurre i rapporti di collaborazione flessibili ed i contratti parasubordinati nel sistema. Questi correttivi vengono incontro ad alcune ragionevoli richieste di flessibilità che provengono dal sistema stesso:

  1. Durata. La durata biennale del Contratto di ricerca è stata prevista per contrastare la piaga dell’intermittenza degli Assegni di ricerca, che in particolare affligge l’università e molto meno gli enti di ricerca, e anche per dare alle posizioni post-doc quel minimo respiro e quell’autonomia di ricerca previste dalla Carta europea dei ricercatori, normalmente previste nella maggior parte delle istituzioni di ricerca europee. Il lavoro di ricerca ha infatti bisogno di un respiro temporale anche più ampio di due anni per produrre risultati originali, senza il quale il giovane ricercatore e la giovane ricercatrice sono condannati ad entrare in una catena di montaggio (il “progettificio”) in cui espletano un lavoro più tecnico che scientifico al servizio delle idee di altri. Pur condividendo questa impostazione, ci rendiamo conto che essa possa mettere in difficoltà i gruppi di ricerca, soprattutto in contesti positivamente ricchi di piccoli gruppi con idee originali, per cui riteniamo accettabile la riduzione della durata minima del Contratto di ricerca ad un solo anno, più semplice da finanziare, rinnovabile nell’ambito di progetti o programmi di ricerca.
  2. Didattica. La proibizione iniziale di fare didattica era dettata dalla considerazione, espressa anche nelle conclusioni dell’Indagine conoscitiva riportate nelle premesse, che assieme al superamento dell’assegno di ricerca fosse necessaria una significativa immissione in ruolo di docenti. La legge 79/2022 ha concretizzato questo percorso con la figura del Ricercatore tenure-track, RTT, che riuniva in un unico ruolo i precedenti RTDA ed RTDB, che hanno compiti di didattica, ricerca e terza missione. Il pur insufficiente finanziamento straordinario della legge di bilancio per il 2022 doveva quindi essere un primo passo per trasferire il carico didattico su una figura ancora a tempo determinato ma comunque orientata in modo chiaro verso la docenza strutturata in caso di valutazione positiva. Il percorso virtuoso si è interrotto con la contrazione dei fondi: si può quindi ritenere un compromesso accettabile che i titolari di contratto di ricerca possano ricevere carichi didattici, subordinato al vincolo che gli stessi siano retribuiti addizionalmente e siano stabiliti dei limiti al carico didattico idonei e compatibili con la preminente attività di ricerca.
  3. Costo. Abbiamo analizzato al punto 1) il costo del lavoro post-dottorale. Aggiungiamo qui che l’emendamento bocciato dalla 7a Commissione puntava a riprendere l’idea di un finanziamento che favorisse la transizione dal regime dell’Assegno di ricerca a quello del Contratto di ricerca, recuperando le buone intenzioni che erano state espresse con l’approvazione della legge 79. Il sostegno previsto consisterebbe nel creare un fondo di finanziamento pluriennale che possa versare all’INPS, fino ad esaurimento della propria capienza, i contributi dovuti dal datore di lavoro, evitando quindi le penalità per il lavoratore associate a forme di contribuzione figurativa. L’investimento è quantificato in circa 5.000 euro annui per ciascun Contratto e richiederebbe quindi circa 100 milioni di euro l’anno alle casse dello Stato per il cofinanziamento di ventimila Contratti. Finanziamento che peraltro costituisce una partita di giro perché finisce nelle casse dell’INPS e viene contestualmente utilizzato per pagare i trattamenti pensionistici attuali. L’applicazione di tale regime consentirebbe di ridurre al 13% l’incremento del costo annuale del lavoro nel passaggio dall’Assegno di ricerca, opportunamente rivalutato, al Contratto di ricerca. Un passaggio quasi inavvertibile per un sistema sano con un livello di finanziamento almeno costante al netto dell’inflazione. Passaggio che invece diventa certamente più critico in un contesto in cui il Governo riduce il Fondo di finanziamento ordinario dell’università, tra tagli diretti di capitoli di spesa come il piano straordinario di assunzioni varato dal Governo Draghi e tagli indiretti come la mancata copertura degli adeguamenti stipendiali del personale, dopo un triennio 2022-2024 pesantissimo per tutti i lavoratori, in cui l’inflazione cumulativa ha toccato il 18%.
  4. MSCA-DN. Non aggiungiamo nulla alle considerazioni fatte al punto 2), se non il fatto che l’emendamento respinto avrebbe consentito l’uso dei Contratti di ricerca per il conferimento delle posizioni attivate con i finanziamenti MSCA-DN. A malincuore, pensando invece a tutti i dottorandi di ricerca trattati come studenti invece che come lavoratori in formazione.

4) Il dito o la luna? Il nodo del finanziamento

Questa breve disamina di alcuni aspetti tecnici dovrebbe aver reso chiaro che stiamo discutendo da mesi delle forme di contratto a termine subordinato o flessibile nel sistema dell’università e degli enti di ricerca perdendo di vista la luna, cioè la contrazione a volte esplicita, a volte strisciante del finanziamento pubblico al sistema stesso, minando alla radice la competitività del nostro paese. Analizziamo solo due dati di portata generale a supporto di questa tesi. Dal 2006 al 2024, arco temporale in cui si possono avere dati omogenei, il fondo ordinario di finanziamento degli enti di ricerca vigilati dal M(I)UR è cresciuto del 19,5% in termini assoluti. A questa crescita in termini assoluti corrisponde un decremento di quasi il 15% in termini di valore relativo al 2006. Nel frattempo il costo del lavoro, parametrizzato sulla figura del ricercatore degli enti pubblici di ricerca, è cresciuto del 30% in valore assoluto grazie ai sacrosanti aumenti contrattuali, anche se il triennio 2022-2024 vede un arretramento netto in termini di potere d’acquisto in conseguenza di un’inflazione cumulativa al 18%. Gli enti di ricerca sono quindi tra l’incudine di un finanziamento che decresce perché non tiene il passo dell’inflazione ed il martello di un costo del lavoro che sale più rapidamente del finanziamento. Poco meglio è apparentemente andata all’università, con una crescita in termini assoluti del 25,5% dell’FFO tra il 2007 ed il 2024, ma sempre con un decremento di circa il 10% in termini di valore relativo al 2007, aggravato da una distribuzione profondamente ineguale del finanziamento dovuta alla presenza di un 30% di quota premiale nella composizione del fondo, e da una stasi di fatto nel triennio 22-24 che sta mettendo in ginocchio molti atenei a causa dell’inflazione. La soluzione a questo problema, che ha certamente radici pluriennali ma è esacerbato dalle politiche attuali, che ci viene proposta da questo governo è quella di assecondare ulteriormente il trend di decrescita dei finanziamenti, mediante la contrazione ulteriore del personale strutturato e con l’abbassamento ulteriore del costo di un lavoro privo di diritti elementari per la parte più debole del sistema, costituita dai giovani e dalle giovani che cominciano il percorso guidati dalla passione per il lavoro di ricerca. Un sistema che in mancanza di un incremento significativo del finanziamento strutturale, dell’ordine di qualche miliardo di euro, li condannerà al ricatto inaccettabile tra un lavoro a bassa retribuzione e senza diritti e l’espulsione immediata dal sistema. Espulsione che sarà solo ritardata nel primo caso, perché in mancanza di un finanziamento straordinario più del 90% di loro verrà comunque sfruttato all’osso e poi ugualmente espulso dal sistema per mancanza di posizioni disponibili, probabilmente molto oltre i 40 anni. Noi non accettiamo questo disegno e abbiamo assistito costernati in questi mesi al coinvolgimento di colleghi prestigiosi, che abbiamo sempre stimato, in una campagna di opinione propagandistica ed ambigua che punta a riversare sui giovani il costo del definanziamento del sistema invece di chiedere con forza contratti dignitosi e finanziamenti adeguati per l’università e la ricerca pubblica.

Il marketing ingannevole di big tobacco: cosa (non) dice davvero l’industria

Pubblicato il 30/05/2025

Il 2 maggio 2025, la BBC ha pubblicato un articolo che analizza l’impatto dei prodotti a tabacco riscaldato sulla salute umana. Per l’occasione, l’emittente ha intervistato esperti indipendenti privi di conflitti di interesse con l’industria del tabacco, inclusi rappresentanti dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ne è emerso un messaggio