Sul vocabolario Treccani la fertilità viene definita come «potenzialità riproduttiva». E potersi riprodurre non dipende soltanto da una catena di incastri biologici, ma anche – e soprattutto – dalle buone condizioni entro le quali essi si avverano. La presenza di un partner, per esempio, la disponibilità di risorse o più in generale il realizzarsi di condizioni favorevoli. 

Ma se la biologia rimane la stessa, la società intorno a essa cambia. Incertezze economiche, scelte di carriera o semplicemente ragioni personali portano oggi molte donne a chiedersi: se un giorno vorrò una gravidanza, potrò ancora farlo? Per rispondere alla domanda si è diffusa negli ultimi anni una pratica tanto semplice nei metodi, quanto ostacolata dai fatti.

Stiamo parlando del social freezing, ossia il congelamento degli ovuli per posticipare la scelta di una futura gravidanza. A differenza del medical freezing, per il quale si prelevano e conservano i gameti in caso di trattamenti oncologici, in questa circostanza il motivo può non essere legato a condizioni mediche. La capacità riproduttiva viene così preservata, permettendo di decidere quando e se farne uso, anche in un momento in cui la naturale fertilità biologica sarà ridotta.

Secondo gli ultimi dati ISTAT, l’età media al primo parto si sta alzando e nel 2024 è arrivata a poco più di 32 anni. Intorno ai trent’anni la fertilità femminile inizia a diminuire, insieme all’aumento del rischio di anomalie genetiche nel nascituro. Per questo motivo un numero crescente di donne sceglie di preservarla rivolgendosi al social freezing. Tuttavia, la pratica del congelamento degli ovuli a carico del Sistema Sanitario Nazionale rimane limitata soltanto alle pazienti oncologiche. Al di fuori di questi casi, tutte le donne con condizioni cliniche croniche che minacciano la fertilità, o mosse da ragioni personali, sono costrette a rivolgersi al servizio privato. Qui si scontrano con costi non sempre accessibili che rendono il trattamento un privilegio di poche. Il collettivo Stiamo fresche ha lanciato lo scorso 2 novembre, in occasione della Giornata Mondiale della Fertilità, la petizione per richiedere il riconoscimento del social freezing come un diritto garantito di tutte le cittadine. Tra le richieste c’è l’inclusione della pratica nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che potrebbe garantirebbe un accesso gratuito e uniforme. Un primo passo per produrre un quadro normativo più solido, che rafforzerebbe l’autonomia riproduttiva femminile.

Il momento migliore

«Quanto prima possibile». Così risponde Cristofaro De Stefano, specialista in ostetrica e ginecologia, da poco in pensione dal ruolo di direttore del Dipartimento materno-infantile dell’Azienda Ospedaliera San Giuseppe Moscati di Avellino. La crioconservazione degli ovociti non garantisce una futura gravidanza, ma la probabilità di successo dipende anche dal momento del prelievo. La fertilità biologica, legata alla qualità e alla quantità degli ovociti, è al suo picco tra i 20 e i 30 anni, e comincia a calare sensibilmente dopo i 32, riducendosi ancora dopo i 37. Come spiega Fondazione Veronesi, l’età più indicata per il prelievo degli ovuli è quindi prima dei 35 anni. 

Secondo il primo studio europeo sugli ovociti conservati per social freezing, l’età media delle donne che si rivolgono alla pratica è di 36 anni. In Italia, osservazioni recenti suggeriscono non solo un aumento delle richieste di accesso alla pratica, ma anche un abbassamento dell’età media delle giovani che chiedono di conservare i propri ovociti, anche al di sotto di questa soglia. 

A spingere le donne sono molto spesso ragioni personali e professionali, come la mancanza di un sostegno economico sicuro, ma anche l’assenza di una relazione stabile. La maggior parte delle donne incluse nello studio europeo non aveva un partner al momento del prelievo. Non mancano però le richieste legate a condizioni cliniche al di fuori delle patologie oncologiche che, come spiega De Stefano, sono numerose: «Menopausa precoce, endometriosi, infezioni uterine, chirurgia ovarica per patologie benigne o malattie immuni sono tutte condizioni che possono ridurre la fertilità». 

I limiti del sistema italiano

In Italia, per molte donne l’accesso al social freezing è ostacolato da costi e disomogeneità territoriale dell’offerta. Al di fuori dei percorsi oncologici, la crioconservazione resta un lusso offerto solo dal mercato privato, dove secondo alcune testimonianze un ciclo di stimolazione e prelievo può arrivare a costare fino a 7.000 euro. Per non contare poi i costi dei farmaci e le tariffe annuali per la custodia delle cellule. Per la maggior parte si tratta di cifre insostenibili, considerando poi che può essere necessario eseguire più di un ciclo per ottenere un numero adeguato di ovociti.

A oggi, la decisione sullo stanziamento di risorse pubbliche per il social freezing è rimesso nelle mani delle Regioni. Il risultato è un accesso diseguale fra i territori, dove soltanto alcuni hanno introdotto misure specifiche. Tra le iniziative attive, la Regione Puglia ha dedicato un contributo una tantum per la crioconservazione preventiva, destinato alle residenti tra i 27 e i 37 anni. Veneto e Lombardia invece consentono il prelievo e la conservazione anche in presenza di alcune patologie non oncologiche (come l’endometriosi) attraverso percorsi regionali specifici.

L’inclusione del social freezing nei Livelli Essenziali di Assistenza risolverebbe in parte il problema, almeno quello economico. Non sarebbe nemmeno una novità che tecniche atte alla preservazione della fertilità vengano comprese nel servizio pubblico: «La conservazione degli spermatozoi è un esempio: vuoi per la semplicità della raccolta, vuoi per i bassi costi» commenta De Stefano, che spiega come la pratica venga suggerita dagli andrologi in caso di condizioni cliniche che minaccino la fertilità maschile. «E questa avviene tranquillamente erogata dal SSN». Una prestazione equivalente non c’è però per le donne.

Recentemente l’inclusione nei LEA è stata anche il destino della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), che lo scorso anno veniva – dopo vent’anni dalla Legge 40 – inclusa nell’offerta del SSN. Quel che sulla carta sembra un grande passo avanti, ha trovato tuttavia grossi ostacoli alla sua messa in pratica (come Scienza in rete ha spiegato qui). Nonostante l’avanzamento, l’applicazione della PMA si scontra con un’offerta territoriale poco omogenea e ancora sbilanciata verso il privato. 

Il cambiamento normativo sulla PMA rimane comunque un passo politico e sanitario importante. Il quadro suggerisce un SSN disposto ad accogliere nel suo perimetro di offerte anche pratiche legate alla riproduzione, non strettamente terapeutiche. L’inclusione anche del social freezing nei LEA sembra quindi il naturale prossimo passo da compiere. «Se si ritiene che una procedura di contrasto alla sterilità universalmente giudicata efficace come la PMA possa essere introdotta nei LEA, ne deriva che anche le procedure di contorno siano considerate rilevanti per la popolazione. Il passo potrebbe essere piuttosto breve» commenta De Stefano.  

Verrebbe in ogni caso da chiedersi se anche questa ipotesi non possa scontrarsi con le difficoltà applicative incontrate per la PMA. Sulla questione, De Stefano è positivo e si aspetta che la recente inclusione della PMA possa aver dato impulso positivo a un riarrangiamento del servizio. Precisa però che la logistica rimane un aspetto da considerare: «I centri di procreazione assistita in grado di fornire il servizio ci sono, va però considerato che il personale rimane una criticità delle strutture pubbliche». De Stefano spiega poi che le procedure di stimolazione ovarica e prelievo non sono di per sé complicate, ma la complessità nasce dalla conservazione a lungo tempo delle cellule. La disponibilità di biobanche, per esempio, rimane una questione aperta.

Coltivare la cultura della fertilità

Negli ultimi mesi il tema è stato riportato nel dibattito pubblico grazie al collettivo Stiamo Fresche. Il movimento intende costituire un osservatorio con lo scopo di sistematizzare il fenomeno, raccogliendo nuovi dati che possano guidare e motivare i decisori politici. Inoltre, in occasione della Giornata Mondiale della Fertilità, il gruppo ha lanciato la petizione “Congeliamo gli ovuli, non i diritti”, chiedendo una riforma dell’attuale quadro normativo. Le richieste comprendono l’inserimento della crioconservazione preventiva nei LEA fino ai quarant’anni, l’istituzione di un registro nazionale e, non per ultimo, la promozione di una cultura della fertilità. 

Su quest’ultimo punto, De Stefano commenta come in passato sia mancato moltissimo e come l’educazione sessuo-affettiva sia ancora un tasto da battere. «Oggi le donne prendono consapevolezza della propria fertilità quando la capacità riproduttiva comincia a ridursi, quindi dai 30 anni in avanti» aggiunge, facendo notare come l’interesse per la fertilità subisca una vera inversione tra i venti e i trent’anni: «Nella tarda adolescenza, l’ipotesi della fertilità possiede soltanto connotazioni negative. Viene vista come un rischio, un impedimento a una vita sessuale serena». Alla base sembra quindi necessaria la promozione di una cultura della riproduzione, che renda accessibili informazioni chiare e prive di stigma. Molte donne scoprono tardi il declino fisiologico della fertilità o arrivano alla crioconservazione solo dopo una diagnosi che riduce le possibilità di scelta. De Stefano ricorda poi che anche la fertilità maschile è soggetta a diminuire con l’età, motivo in più per insistere sul tema.

Anche alla luce della crisi demografica che il Paese sta attraversando, queste richieste sembrano risuonare più forti che in passato. E anche se l’impatto del social freezing sulla denatalità resterebbe tutto da verificare, appare inevitabilmente paradossale che la pratica non riceva ancora l’attenzione necessaria. Come sottolinea De Stefano, quel che manca davvero è «una chiara volontà politica» e, in ultima analisi, si tratta «solo di una questione economica». Due nodi che restano irrisolti e che continuano a determinare chi può permettersi di conservare il proprio potenziale riproduttivo e chi no.