Nell’estate del 2024 una donna torinese, E., ha chiesto a un centro medico toscano di ricorrere a un trattamento di procreazione medicalmente assistita (PMA). Il trattamento consiste nel prelevare gli ovuli della paziente, fecondarli in vitro con spermatozoi provenienti da donazioni, e reimpiantare in utero un primissimo stadio di sviluppo dell’embrione. Quando è emerso che E. non aveva un marito né un compagno, a malincuore il centro ha dovuto rigettare la richiesta. La legge 40 del 2004, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, stabilisce infatti che la PMA sia accessibile solo a una categoria di persone ben definita: donne sposate o conviventi con un uomo disposto a riconoscere il frutto del trattamento. Rimangono escluse le persone single, le coppie lesbiche e più in generale tutte le persone con utero al fuori di una relazione eterosessuale documentabile.

È stato allora che E., sicura di aver subito un’ingiustizia, ha deciso di fare ricorso al Tribunale di Firenze, il quale ha sentenziato che la legge 40 potrebbe in effetti violare diversi articoli della Costituzione – tra cui l’art. 3, secondo cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alle legge –, nonché i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte costituzionale è stata quindi chiamata a esprimersi sulla possibile incostituzionalità dell’articolo 5 della legge 40, che regola l’accesso al trattamento. L’11 marzo è stata indetta un’udienza pubblica in cui sono state sentite tutte le parti in causa e oggi siamo in attesa del verdetto.

Se il divieto di accesso alla PMA per le donne single decadesse, migliaia, se non milioni di persone, si troverebbero nella condizione di poter accedere a un trattamento che era loro precluso, andando incontro a un importante cambiamento di prospettive. La riformulazione dell’articolo 5 segnerebbe anche l’apertura di una nuova, per quanto zoppa, possibilità di scelta per le coppie lesbiche. D. e G. per esempio non sarebbero dovute andare all’estero, in un paese di cui non conoscevano la lingua, per sottoporsi a costosi e ripetuti trattamenti di PMA – nel cui prezzo, oltre ai biglietti aerei e alle stanze d’albergo, contano anche consulti legali, stress psicologico e molta distanza dalle persone amate. Le donne single e le coppie lesbiche sono accomunate dalla mancanza di un uomo che faccia da padre al potenziale frutto della fecondazione, faccenda che fino a oggi in Italia ha loro impedito di accedere al trattamento. In assenza di un uomo che le autorizzi a espletare il desiderio di maternità, sia le donne single che le coppie lesbiche sono costrette ad andare all’estero. Una volta tornate, però, la loro condizione è molto diversa. Se le donne single possono partorire in Italia e vedersi riconosciute come madri, per le coppie lesbiche si apre un bivio: partorire all’estero, dove riceveranno un certificato di nascita in cui entrambe figurano come madri, o tornare in Italia, dove solo la donna che partorisce verrà riconosciuta come tale. Se la coppia partorisce nel paese in cui si è sottoposta a PMA, una volta tornata in Italia potrà trascrivere l’atto di nascita con due madri. Questo perché la trascrizione dell’atto estero, una volta richiesta, deve essere concessa a meno che non sussista un problema di ordine pubblico – è il caso della gestazione per altri, per la quale esiste una chiara indicazione giuridica contraria. Dunque, partorire nel paese in cui si è svolta la PMA e chiedere la trascrizione dell’atto di nascita generato all’estero produce un corrispondente certificato italiano in cui sono indicate come madri entrambe le componenti della coppia.

Per la coppia che torna a partorire in Italia, invece, non si tratta di trascrivere un atto, ma di formarlo ex novo. E in questo caso l’ordinamento giuridico italiano non prevede la possibilità di redigere un certificato di nascita con due madri. Ne produrrà quindi uno in cui compare solo la madre che ha partorito, rendendo la sua esperienza analoga a quella di una donna single.

Come racconta D. però lei non avrebbe potuto né voluto avere un figlio senza la sua compagna. «Il progetto di avere un figlio è nato all’interno della nostra coppia e non avrebbe potuto esistere al di fuori». Lo ha anche scritto nella memoria che ha consegnato agli avvocati per l’istanza di adozione di loro figlio da parte di G., con cui ha eseguito un trattamento di PMA a Barcellona. Hanno poi portato avanti la gravidanza in Italia, dove entrambe vivono e dove D. ha partorito. «Se in Italia fosse stato possibile accedere alla PMA come donna single avrei fatto fatica, perché avrei dovuto presentarmi alla società come qualcosa che non ero. Quando siamo andate a Barcellona, invece, il percorso è da subito stato condiviso. G. ha firmato tutti i fogli e la clinica ci ha accolto come due genitori che cercavano il figlio che poi abbiamo avuto».

Come scrivono Marco Pelissero e Antonio Vercellone nell’introduzione a Diritto e persone LGBTQI+, l’esperienza giuridica è parte essenziale della vita. Non solo. Sempre più l’esperienza giuridica si interseca con il progresso tecnoscientifico che, da una parte, si svolge all’interno di un quadro normativo e sociale che ne influenza e limita lo sviluppo (la ricerca atomica in tempo di guerra, lo sviluppo di un farmaco o di un vaccino in presenza di una determinata malattia, il divieto di clonazione umana) e, dall’altra, apre nuovi spazi di possibilità (rimanere incinta anche se il proprio partner è sterile, salvare un neonato prematuro). In Science at the bar, Sheila Jasanoff, professoressa di Science and Technology Studies all’Università di Harvard, sostiene che il progresso tecnoscientifico, rendendo possibile ciò che prima non lo era, apra falle che il diritto è chiamato a colmare. Innanzitutto bisogna decidere se un trattamento è sicuro. Dopodiché si deve stabilire se renderlo praticabile. Una volta scelto di introdurlo nel proprio ordinamento c’è da scegliere chi lo può praticare, dove può praticarlo e chi può accedervi.

Quando emergono nuove esigenze normative, rimarcano Pelissero e Vercellone, è importante che chi applica la legge sia in possesso di strumenti interpretativi capaci di rendere il diritto uno strumento di “abilitazione e protezione della persona”, e non un elemento di “normalizzazione e oppressione”. Tornano qui in mente le parole di Pietro Greco, quando auspicava che il rapporto tra scienza e società si svolgesse all’insegna della costruzione di un futuro desiderabile, e che la scienza dovesse operare a beneficio dell’intera umanità, piuttosto che di interessi particolari.

È desiderabile un futuro in cui persone con utero possano decidere di sottoporsi a un trattamento medico per rimanere incinte? Fino a oggi il paese in cui viviamo ha risposto a questa domanda con un “sarebbe meglio di no”. O meglio: sarebbe meglio di no, ma se hai un compagno, o più auspicabilmente un marito, e proprio non riesci a rimanere incinta allora va bene, sei legittimata ad accedere a un trattamento sanitario che vi aiuti a realizzare una certa idea di famiglia. Nel 2004, secondo la prima stesura della legge 40, il sì usciva a denti ancora più stretti: solo per tre tentativi e solo con materiale biologico proveniente dalla coppia. Cioè nella maniera più “naturale” possibile. Poi, sempre a forza di sentenze e ricorsi, la legge è stata smontata pezzo per pezzo – è aumentato il numero di embrioni da poter fecondare ed è stata introdotta la fecondazione eterologa, che prevede l’uso di ovuli e spermi donati da persone esterne alla coppia.

Sempre Sheila Jasanoff evidenzia come gli sviluppi tecnologici nel campo della riproduzione abbiano aperto spazi di flessibilità interpretativa su questioni che in precedenza si ritenevano definitive o, secondo la terminologia della costruzione sociale della tecnologia, “chiuse”, delle sorte di scatole nere. La legge 40 è stata creata pensando a una certa idea di coppia e di famiglia. Il diritto ha formalizzato una versione della realtà, un insieme di conoscenze e valori, creando una scatola nera dentro cui non si va più a guardare.

Secondo Mariachiara Tallacchini, allieva di Jasanoff e professoressa di Scienza, diritto e democrazia alla SISSA di Trieste, alla costruzione di queste scatole contribuisce l’idea che qualcosa sia più “naturale” di qualcos’altro. L’argomento di ciò che è secondo o contro natura ha rappresentato uno pseudoargomento avanzato per molto tempo per legittimare alcune decisioni giuridiche. In termini tecnici si parla di fallacia naturalistica. Fallacia perché dietro all’idea di ciò che è naturale si nasconde in realtà il potere di definire che cosa è natura. Il diritto può blindare ciò che qualcuno, per esempio la Chiesa o una determinata scienza, stabilisce come naturale o scientifico, e quindi legittimo. Comportamenti che oggi ci sembrano inammissibili sono stati veri e propri istituti giuridici che hanno formalizzato assunti sociali. Si pensi allo Ius Corrigendi, il diritto dell’uomo a educare e correggere anche con la forza la moglie e i figli. Il diritto in quel caso, fino al 1975, sanciva e rifletteva una presunta naturalità nell’ordine della famiglia: il potere e la legittimazione del capofamiglia a esercitare la forza sugli altri membri del nucleo familiare. «Per questo», afferma Tallacchini, «bisogna sempre guardare a come certe forme di co-produzione tra conoscenze tecnoscientifiche e valori si sono andate formando. È come mettersi un paio di occhiali diversi per guardare le cose».

La legge 40 costituisce un caso studio interessante per fare questo tipo di esercizio. Di chi è, e per chi è il progresso tecnoscientifico? Quali sono i processi che ne regolano l’accessibilità e sulla base di quali criteri? Come si co-costruisce un futuro desiderabile nella contrattazione tra scienza e società? Negli Stati Uniti e nella maggior parte degli stati europei la PMA è un trattamento accessibile a tutti, mentre in Italia oggi esistono persone per le quali non ricorrono condizioni che la legge ritiene sufficienti affinché scatti un diritto. Non è una vera e propria questione di dignità, almeno non in termini giuridici, però è chiaro che dietro questa nozione di legittimità esistono assunzioni valoriali e politiche. È il legislatore che stabilisce quali sono le condizioni di legittimità. Legislatore che sempre più spesso, nel caso della legge 40, è stato messo in discussione da ricorsi e sentenze della Corte costituzionale. Secondo Antonio Vercellone, professore di Diritto privato e Queer Studies all’Università di Torino, siamo in un momento molto interessante dal punto di vista giuridico, nonché di contrattazione tra scienza, diritto e società. A marzo è stata approvata l’adozione per le persone single, ora siamo in attesa che la Corte costituzionale si pronunci sull’accesso alla PMA per le donne single e potrebbero aprirsi degli spiragli anche per le coppie lesbiche. A febbraio si è tenuta un’udienza in riferimento alla richiesta di iscrizione di entrambe le madri – biologica e intenzionale – sul certificato di nascita di un bambino nato in Italia. Se decadesse il divieto di accesso solo per le donne single, significherebbe mettere nero su bianco la discriminazione nei confronti delle coppie lesbiche in un ordinamento che, per soluzione giuridica consolidata (ius receptum), stabilisce che l’orientamento sessuale e il genere dei genitori non inficino il benessere dei minori. Perché abbiamo così paura della PMA? Vercellone sostiene che la PMA apre nuovi scenari di configurazioni familiari, non solo per le persone single, ma anche per chiunque voglia imbarcarsi in progetti di genitorialità condivisa. Ci costringe, in sostanza, ad aprire la scatola nera della famiglia, a interrogarci in maniera manifesta e profonda sulle nuove forme che la famiglia e le relazioni di cura possono assumere, e con esse i ruoli di genere a loro associati.

Ogni concetto giuridico, a maggior ragione quando si impasta con il progresso tecnoscientifico, è frutto di processi di co-costruzione che non siamo abituati a cogliere, e di cui tendiamo a non considerarci parte. Non è così. Sempre, e oggi più che mai, ci troviamo su una faglia in costante movimento, una contrattazione tra scienza, società e diritto di cui siamo protagoniste e protagonisti.