Pubblicato il 10/07/2025Tempo di lettura: 5 mins

Il sistema dell’università italiana è al centro di una profonda trasformazione, realizzata con una serie di provvedimenti governativi che intervengono su aspetti differenziati ma che, nell’insieme, delineano una riforma radicale e preoccupante: si prospetta un ridimensionamento dell’università pubblica, la frammentazione del sistema, il ritorno a poteri accademici locali, l’aggravamento del precariato e dell’emigrazione all’estero, un ulteriore allontanamento dagli standard internazionali per l’università e la ricerca.

Nel giugno 2025 è diventato legge il DDL 45/2025 (AC 2420) – che ha introdotto le due nuove figure degli incarichi di ricerca e degli incarichi post doc. Si sono moltiplicate così le figure tra la laurea magistrale e i professori associati, con complicate sovrapposizioni che sono destinate ad aggravare ulteriormente il problema del precariato nella ricerca. In parallelo, si prepara la riforma che ridimensiona il CUN, non vengono rinnovati i membri dell’ANVUR, che dovrebbe assumere nuove responsabilità di valutazione, e vengono mantenuti i gravi trattamenti di favore per le università telematiche private. Le nuove assegnazioni del Fondo di finanziamento ordinario per il 2025 rappresentano un miglioramento rispetto ai tagli del 2024, ma delineano ancora il ridimensionamento in termini reali – al netto dell’inflazione, rispetto agli anni precedenti – delle risorse per le università pubbliche, che sarà aggravato a partire dal 2026 dalla fine dei finanziamenti del PNRR. È opportuno ricordare qui che il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, nelle sue Considerazioni finali del 30 maggio 2025, ha affermato «in Europa, la spesa universitaria media è pari all’1,3 per cento del PIL; in Italia si ferma all’1. Colmare questo divario rappresenterebbe un investimento lungimirante, attuabile con risorse relativamente contenute».
 
Gli interventi di maggior portata, destinati a segnare in modo strutturale il sistema universitario del Paese, sono contenuti nel DDL 1518 – attualmente in discussione – su la “
Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario”.
Le nuove procedure per i concorsi universitari prevedono l’abolizione dell’Abilitazione scientifica azionale (ASN). Per candidarsi ai concorsi di professore ordinario o associato sarà sufficiente dichiarare il possesso di requisiti definiti dal Ministero – in sostanza i titoli che erano richiesti dall’ASN – e non più aver ottenuto l’Abilitazione.
L’Abilitazione scientifica nazionale, introdotta nel 2012, nasceva dall’esigenza di assicurare la qualità del reclutamento accademico. In questi anni le modalità della valutazione hanno influenzato le attività di ricerca, soprattutto dei più giovani, indirizzandoli a privilegiare la quantità dei lavori pubblicati sulle riviste di rilievo internazionale, a volte a danno degli aspetti di qualità. Pur con molti problemi, le procedure dell’ASN – con il sorteggio delle Commissioni – avevano contribuito a un maggior respiro internazionale della ricerca, avevano limitato il peso degli interessi universitari locali, avevano ridotto la dipendenza dei giovani ricercatori dai poteri accademici. È possibile ora migliorare le procedure dell’ASN, in particolare con la sostituzione dei titoli come requisiti necessari con un CV redatto secondo un formato internazionale. È incomprensibile che la relazione al DDL 1518 giustifichi l’abolizione dell’ASN con la tesi secondo cui «si è invece radicata l’aspettativa che questa costituisca una sorta di diritto acquisito alla chiamata di ruolo» (pagina 4).
Il DDL 1518 – con norme ancora poco chiare, e con diverse formulazioni problematiche – reintroduce per i concorsi meccanismi unicamente locali: si forma una commissione giudicatrice con un componente interno e quattro esterni all’ateneo, individuati “previo sorteggio tra i docenti disponibili a livello nazionale” (pagina 8 della relazione): in altre parole per ogni concorso i docenti interessati a far parte di quella specifica commissione dovranno candidarsi ad essere sorteggiati. In questo modo si apre alla possibilità di formare commissioni composte da docenti con i legami più stretti con l’ateneo che bandisce il concorso, con un meccanismo che può mettere in secondo piano il riconoscimento della qualità della ricerca.

Il DDL 1518 prevede inoltre – con modalità tutte da definire – la «valutazione, dopo due anni dalle presa di servizio e con cadenza triennale per la durata del rapporto di lavoro, dei vincitori  […] ai fini del computo delle assegnazioni del fondo per il finanziamento ordinario» (pagina 28, art. 4-quater). È difficile immaginare come tale prospettiva di valutazione – che finirebbe per riguardare tutti i nuovi professori e che andrebbe ad aggiungersi alla VQR attuale relativa alle sedi universitarie – possa scoraggiare scelte che privilegino logiche localistiche anziché la qualità della ricerca. Non è definito chi – e con quali criteri – dovrebbe effettuare tale valutazione e come essa influenzerebbe la distribuzione dei fondi agli atenei.
Va inoltre sottolineato che la riforma dei concorsi viene introdotta senza alcuna definizione delle dimensioni del reclutamento che è necessario per il sistema universitario: negli ultimi tre anni è andato in pensione il 10% dei professori ordinari e associati e nell’autunno 2024 il governo ha introdotto il limite del 75% al rinnovo del turnover per i docenti. Oggi il 35% di tutto il personale di ricerca ha posizioni precarie. In questo contesto il problema non è moltiplicare le figure nelle fasi di carriera iniziali, come ha fatto la legge sugli incarichi, ma offrire prospettive di avanzamento agli attuali assegnisti di ricerca e RTDA verso la posizione di Ricercatore tenure track (RTT) e riprendere il piano di reclutamento di professori associati.
 
Su questi interventi del governo la Società italiana di economia ha già preso posizione il 27 maggio 2025 con il documento “Un ritorno al passato per l’Università. Le misure del governo sulle nuove figure per i giovani ricercatori e sul passaggio a concorsi universitari locali”.
Di fronte alle prospettive di interventi di questo tipo, già nell’ottobre 2024 la Rete delle Società Scientifiche aveva pubblicato un documento – sottoscritto da oltre 130 Società Scientifiche e pubblicato da Scienza in rete – che sottolineava come:
«È necessario che le nuove regole e le risorse per il reclutamento consentano di rinnovare il personale docente di ruolo e ridurre le condizioni di precariato. Sul piano della qualità della ricerca – un tema su cui si è molto insistito negli ultimi anni, anche con l’introduzione dall’Abilitazione scientifica nazionale (ASN) – ci sono preoccupanti segnali di ritorno indietro […]. È necessario che chi insegna all’università sia scelto attraverso adeguati meccanismi di verifica delle competenze. Ulteriori preoccupazioni sul piano della qualità della formazione superiore provengono dall’espansione delle università telematiche private».

In questa prospettiva, il DDL 1518 rappresenta un intervento di particolare gravità, che potrebbe avere conseguenze negative di lungo periodo, frammentando il sistema universitario del Paese, peggiorando la qualità della ricerca e il ruolo dell’università italiana. E’ importante che il mondo dell’università, della ricerca, della scienza e della cultura prenda una posizione critica verso un ritorno al passato di questo tipo, e chieda al Parlamento e al governo di modificare profondamente l’orientamento della riforma dei concorsi universitari.