Il governo ha presentato due disegni di legge che introducono importanti modifiche nel sistema universitario. Il primo – DDL 45/2025 (AC 2420) – introduce le due nuove figure degli incarichi di ricerca e degli incarichi post doc. Il secondo riguarda la “Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario”.
L’introduzione degli incarichi di ricerca e degli incarichi post doc
Il primo provvedimento introduce:
- gli incarichi di ricerca per chi una laurea magistrale da meno di sei anni, assegnati attraverso bandi e selezioni oppure con conferimento diretto, che prevedono assistenza alla ricerca sotto la supervisione di un tutor, della durata da 1 a 3 anni, con un trattamento economico deciso da chi li bandisce, a partire da un minimo stabilito dal Ministero.
- gli incarichi post doc per chi ha il dottorato di ricerca, assegnati attraverso bandi e selezioni, che prevedono attività di ricerca e di didattica, della durata da 1 a 3 anni, con un trattamento economico pari a quello dei ricercatori a tempo definito.
In questo modo nelle università italiane andranno così a coesistere – per diversi anni a venire – le seguenti figure:
- Borse di ricerca pre-dottorato
- Nuovi incarichi di ricerca
- Borse per dottorati di ricerca: 40.000, aumentate negli ultimi anni con le risorse del PNRR
- Vecchi assegni di ricerca: 24.500, ancora con alcune possibilità di essere rinnovati
- Vecchi RTDA: 7500, ancora con alcune possibilità di attivazione
- Vecchi RTDB in corso di completamento prima del passaggio a Professore Associato; insieme ai Ricercatori Tenure Track (RTT) sono 7000
- Nuovi incarichi post doc
- Contratti di ricerca, appena introdotti ufficialmente (poche decine attualmente)
- Ricercatori Tenure Track (RTT) che consentono il passaggio alla posizione di Professore Associato
Tali nuove figure e la grave frammentazione delle posizioni che si prospettano tra la laurea magistrale e i docenti di ruolo dell’università sono problematiche sotto diversi aspetti.
Gli incarichi di ricerca si sovrappongono alle attuali Borse di ricerca e creano un percorso parallelo – anch’esso di 3 anni – ai dottorati di ricerca, ma senza prospettive. Si crea una figura di assistente legato a un docente di riferimento, che può essere scelto direttamente, con una remunerazione incerta e differenziata da un’università all’altra, senza precisazioni sul rapporto di lavoro e sul trattamento economico previsto.
Nell’attuale prospettiva di riduzione delle risorse per le università pubbliche, si potrebbero presentare situazioni paradossali in cui, per esempio, in assenza di posti adeguati per Contratti di ricerca o incarichi post doc, persone più qualificate – con dottorati e esperienza di assegni di ricerca – si candidano a incarichi di ricerca in competizione con chi ha solo la laurea magistrale.
Gli incarichi post doc si sovrappongono agli attuali Contratti di ricerca e replicano in sostanza le posizioni di RTDA (ma con durata inferiore e retribuzione minore) e di assegni di ricerca. Hanno meno tutele contrattuali e minori costi per gli atenei dei Contratti di ricerca e potrebbero quindi portare gli atenei a privilegiare tale figura per le opportunità di ricerca dei neodottorati e per la continuazione delle attività degli attuali assegni e RTDA.
Una proposta opportuna – già avanzata dalla Rete delle Società Scientifiche – per ridurre i costi per gli atenei riguardava la possibilità di una fiscalizzazione degli oneri contributivi relativi ai Contratti di ricerca. Tale misura avvicinerebbe i costi per i Contratti di ricerca ai costi sostenuti in passato per gli assegni di ricerca. Si potrebbe evitare in tal modo l’introduzione delle nuove figure, favorendo un ragionevole passaggio dei giovani ricercatori verso figure con maggiori tutele contrattuali. Tale proposta potrebbe essere oggetto di un emendamento al DDL attualmente in discussione.
Un problema specifico riguarda le attività didattiche che potranno essere svolte dagli incarichi post doc, rinnovando l’impegno previsto in precedenza per gli RTDA, un impegno che non è previsto invece per i Contratti di ricerca. Va ricordato che la didattica universitaria si appoggia oggi su 30 mila contratti di insegnamento che vanno ad assegnisti, RTDA e altre figure, oltre che a esperti esterni, e che hanno spesso remunerazioni poco più che simboliche. Di fatto i requisiti minimi per l’offerta formativa sono raggiunti in molti atenei considerando anche la presenza di RTDA e di professori a contratto. La programmazione delle attività didattiche richiede un rafforzamento delle posizioni di RTT e di ruolo.
L’introduzione degli incarichi di ricerca è stata stimolata dal caso specifico dei beneficiari italiani dei progetti Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) nell’ambito dello schema del Doctoral Network (12 progetti vinti in Italia nel 2024, per un totale di circa 60 Dottorandi). È possibile risolvere tale problema specifico attraverso modifiche alle norme sulle figure esistenti, senza creare necessariamente una nuova figura.
Inoltre per i nuovi incarichi di ricerca e post doc potrebbero rinnovarsi le obiezioni che la Commissione europea ha rivolto agli assegni di ricerca e alle figure previste dal precedente DDL 1240. Il governo italiano ha preso impegni con la Commissione europea in sede di PNRR per il superamento degli assegni di ricerca e per la destinazione delle risorse per attività di ricerca a effettivi contratti di lavoro.
Considerando le dimensioni delle posizioni precarie nell’università italiana – il 35% di tutto il personale di ricerca è oggi precario – il problema non è moltiplicare le figure nelle fasi di carriera iniziali, ma offrire prospettive di avanzamento agli attuali assegni e RTDA verso la posizione di Ricercatore Tenure Track (RTT) e riprendere il piano di reclutamento di professori associati. Va ricordato l’invecchiamento dei docenti: negli ultimi tre anni è andato in pensione il 10% dei professori ordinari e associati. Un problema ulteriore a questo proposito è stata la decisione del governo nell’autunno scorso di introdurre il limite del 75% del rinnovo del turnover per i docenti.
Da questi dati emerge l’esigenza di intervenire sulle figure di ricerca che vanno dalla laurea magistrale al ruolo di professore associato, ma nella direzione di ridurne il numero, evitare sovrapposizioni, introdurre alcune flessibilità, riconoscere le tutele contrattuali, programmare le figure in parallelo ad una ripresa e a una stabilizzazione in termini reali dei finanziamenti assegnati all’università, specie al termine dei fondi straordinari legati al PNRR.
Le nuove procedure per i concorsi universitari e l’abolizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale
Il DDL del governo sul cambiamento delle procedure per i concorsi universitari, con l’abolizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, introduce maggiori margini di autonomia per gli atenei. Per candidarsi ai concorsi di ordinario o associato sarà sufficiente dichiarare il possesso di requisiti che saranno definiti dal Ministero e non più aver ottenuto l’Abilitazione.
L’Abilitazione Scientifica Nazionale, introdotta nel 2012, nasceva dall’esigenza di assicurare la qualità del reclutamento accademico. In questi anni le modalità della valutazione hanno influenzato le attività di ricerca, soprattutto dei più giovani, indirizzandoli a privilegiare la quantità dei lavori pubblicati sulle riviste di rilievo internazionale, a volte a danno degli aspetti di qualità. Pur con molti problemi, le procedure dell’ASN – con il sorteggio delle Commissioni – avevano contribuito a un maggior respiro internazionale della ricerca e avevano ridotto il peso degli interessi universitari locali.
Le nuove norme – ancora poco chiare – prevedono commissioni individuate dagli atenei “previo sorteggio tra i docenti disponibili a livello nazionale” con un componente interno.
Il rischio delle nuove norme del governo è un minor riconoscimento della qualità della ricerca e un ritorno a logiche localistiche.
È opportuno infine ricordare altre misure del governo che delineano un quadro problematico per l’università italiana.
La riduzione dei finanziamenti all’università. Il Fondo di Finanziamento Ordinario del 2024 ha avuto un taglio di 173 milioni rispetto al 2023, che ha colpito quasi tutte le università statali. La legge di bilancio 2025 ha previsto tagli nel bilancio MUR di 247 milioni di euro nel 2025, di 239 milioni nel 2026 e di 216 milioni nel 2027, una riduzione cumulativa che avrebbe effetti molto gravi. L’aumento degli stipendi dei docenti (+4,8% per recupero inflazione Istat) non ha avuto coperture e ha gravato sui bilanci degli atenei. Non sono disponibili le risorse per il Piano di reclutamento degli Associati avviato dal governo precedente. Non è possibile ridefinire le figure del personale di ricerca senza una corrispondente definizione delle risorse disponibili.
L’incertezza istituzionale. C’è una forte incertezza legata al futuro ruolo del CUN e alle mancate nomine per il rinnovo dell’ANVUR.
Il trattamento di favore offerto dal governo alle università telematiche private. Attualmente le università telematiche private non rispettano gli standard di qualità dell’insegnamento universitario tipici delle università pubbliche in termini di procedure d’esame e di rapporto tra il numero di docenti e il numero di studenti.
In sintesi, l’università che si disegna con le misure del governo rappresenta un ritorno al passato con una moltiplicazione caotica delle posizione precarie e un potere discrezionale di professori e atenei sui giovani ricercatori. Il sistema universitario ritorna al passato con i concorsi locali e subisce un ridimensionamento, con riduzioni di risorse, incertezza istituzionale e rischi di peggioramento per la qualità della ricerca e dell’insegnamento universitario.