Ai primi di luglio 1995 se ne andò Alexander Langer, salutandoci con «Non siate tristi. Continuate in ciò che è giusto». Goffredo Fofi, suo amico dagli anni ’60, ne ripercorre la vicenda politica e umana, poco prima di salutarci anche lui, a metà luglio 2025. Accomunati dall’etica della “vocazione minoritaria”, quella di chi sceglie di essere minoranza, quella dell’ancor esigua popolazione che si indigna e si attiva contro i diritti negati, quell’attitudine per un mondo più pacifico.
Alexander Langer era figlio di un padre medico, ebreo viennese non praticante, e di una madre rigorosamente laica, e diventò lui stesso, da ragazzo, “una specie di cattolico autodidatta”. Studiò dai francescani a Bolzano, poi giurisprudenza a Firenze, dove conobbe don Milani e la sua scuola di esiliati, poi sociologia a Bonn e a Trento. Dopo una militanza locale nell’attivismo cattolico, e poi nella “sinistra informale”, Alex aderì alla sinistra extraparlamentare di Lotta Continua. Fu fondatore del movimento verde in Italia, dal 1989 capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo e si adoperò soprattutto per la pace, la sicurezza e il disarmo.
Pochi giorni prima di lasciarci era andato alla riunione della UE a Cannes, a rivendicare che cessasse in Bosnia la neutralità fra aggressori e aggrediti, e l’omissione di soccorso della comunità internazionale. Chirac lo aveva ascoltato e poi ammonito che il bene supremo era la pace. Otto giorni dopo fu perpetrato il massacro genocida di Srebrenica. Alex si è tolto i sandali e si è impiccato a un albicocco sul Pian dei Giullari. Giace nel piccolo cimitero di Telfes, in Sudtirolo; alcune piccole pietre, secondo l’uso ebraico, poggiano alla base della croce posta sulla tomba di Alexander Langer e dei suoi genitori, Artur e Elisabeth, da dove si spalanca una vista incantevole sulla valle. Un uomo, sconosciuto ai più, che i confini li ha voluti e saputi abbattere e che si adoperò per la pace, la sicurezza e il disarmo. Che si tolse i sandali per andarsene come fece la ragazza fuggiasca da Srebrenica, che aspettò di essere in salvo per togliersi le scarpe e impiccarsi a un albero del bosco alle porte di Tuzla.
Il tempo del genocidio è sempre
Come ha accertato il Tribunale internazionale de L’Aja emettendo la prima condanna per i fatti di Sebrenica nell’agosto 2001 e qualificandoli come “genocidio”, la prima in Europa dopo la Shoah, del delitto di genocidio ricorrevano sia l’elemento oggettivo della condotta (actus reus), che l’elemento soggettivo, il dolo specifico (mens rea). Secondo il diritto internazionale un crimine contro l’umanità.
Oggi, agosto 2025, dopo 23 mesi di guerra delle forze israeliane a Gaza, un esercito contro una popolazione civile disarmata, alcuni cercano di tendere un sottile filo nero che collega i fatti di Srebrenica alle operazioni compiute dal governo israeliano a Gaza. I metodi sono differenti, i fini sono simili e non è una questione di disputa linguistica nell’ambito della semantica lessicale circa la parola significante “genocidio”, quando le atrocità commesse contro il popolo palestinese sono quotidiane e senza fine. Quando la complicità dei governi occidentali e l’ignavia della giustizia internazionale negano i diritti umani. Quando: «Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: genocidio. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì», come ha affermato lo scrittore israeliano David Grossman.
Il termine genocidio è una parola coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944, per poter descrivere l’Olocausto e i fenomeni di persecuzione e distruzione di gruppi nazionali, razziali, religiosi e culturali, in particolare alla ricerca di idonei strumenti, nel diritto internazionale, a garantire la tutela di questi gruppi. Una definizione arrivata in ritardo e adottata dall’ONU nel 1946, ma che la storia e gli studi giuridici, politici e sociologici avrebbero dovuto già contemplare, perché il tempo del genocidio è purtroppo antecedente, come la storia dei nativi americani a partire dalla fine del XV secolo documenta, o quella del popolo armeno nel 1915, quella dei tutsi in Ruanda nel 1994, dei musulmani di Bosnia, o quello dimenticato dei rohingya nel 2016.
Le parole hanno «un senso» ed è per questo senso che vanno usate in modo appropriato. Il senso di genocidio è indicare che ci sono delle vittime, civili a cui sono stati negati diritti umani sino alla morte, che la responsabilità è di tutti, anche se in entità diversa (per non aver prevenuto, non aver represso, per aver ignorato) e che è un insieme di atti di distruzione di popoli ricorrenti nella storia perché parte di quel cronico trauma che è la guerra.
La memoria, l’arte e la cultura
Dalle fosse comuni di Zebrenica, Zalazje, Tomasica, Rogatica e altre località bosniache sono stati sinora riesumati 8.372 corpi, di molti manca ancora la ricomposizione, di centinaia il ritrovamento. L’11 luglio, nella Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica, vengono riaggiornati questi numeri, si seppelliscono nuove vittime, estratte dalle fosse comuni individuate e riconosciute grazie al DNA, a indicare la cronicità di un crimine contro l’umanità che, seppur in parte punito, rimane ancora vivo per i sopravvissuti. Come il crimine compiuto dall’esercito croato con l’aiuto della Nato in Krajina, tra la costa dalmata e la Bosnia nordoccidentale. Un mese dopo Srebrenica, nell’agosto 1995, 300.000 serbi che abitavano quei territori da secoli furono espulsi dai croati legittimando quella, ancor debole, spartizione di territori su base etnico-religiosa. Operazione “Tempesta”: la più grande operazione di pulizia etnica della guerra dei Balcani: poco raccontata e passata impunita dopo la prima sentenza di condanna del Tribunale dell’Aja nel 2001. Operazione che i croati avevano già attuato a Mostar, capoluogo dell’Erzegovina, all’inizio della guerra nei confronti della popolazione musulmana confinandola sul lato orientale del fiume Narenta dopo aver abbattuto anche lo Stari Most, il ponte ottomanno a singolo arco del XVI secolo, uno dei capolavori architettonici dell’umanità. La creazione di confini di “zone di concentrazione”, come proposto anche per la Striscia di Gaza, ad alta densità di popolazione sradicata dalle proprie abitazioni (anche abbattute), in assenza di mezzi di sussistenza, nell’impossibilità di uscire. Quelle condizioni i cui confini tra pulizia etnica ed eliminazione fisica si assottigliano facilmente quando non ci sono ostacoli.
Dopo trent’anni, molte case di Srebrenica e dintorni dove viveva la comunità musulmana, che era maggioranza, sono ancora in stato di abbandono, altre occupate da serbi. Difficile e doloroso il ritorno, anche per chi era giovane allora, come ben espresso nel recente documentario Il ragazzo della Drina di Zijad Ibrahimovic, in programma al Locarno Film Festival 2025. Il “ragazzo” è Irvin Mujcić, il cui padre fu ucciso Srebrenica e il suo cadavere non è mai stato ritrovato. La moglie e figli piccoli avevano lasciato la città della Bosnia orientale nell’aprile 1992, poco prima che cadesse nelle mani degli aggressori, mentre l’uomo era rimasto nella loro casa e diventato interprete per i caschi blu olandesi.
La stessa occupazione di Aida, protagonista di Quo vadis, Aida della cineasta bosniaca Jasmila Žbanić, il primo film a trattare direttamente del massacro di Srebrenica, che nel 2020 venne presentato alla 77° Mostra del cinema di Venezia. Nella Sarajevo assediata si riusciva comunque a organizzare proiezioni di film, in condizioni precarie con generatori di corrente che non garantivano continuità, proiezioni in Vhs; e il prezzo di ingresso era in sigarette (anche una sola).
Quelle proiezioni, ora nella memoria, davano fiducia, incoraggiavano a resistere e a prodigarsi per una rapida risoluzione del conflitto armato. Per quello etnico, religioso e culturale il tempo necessario è molto più lungo e imprevedibile. In quelle serate la comunità dei cittadini, dei volontari delle varie associazioni presenti, degli operatori delle agenzie internazionali condivideva momenti di luce e speranza. Elementi che caratterizzano il Sarajevo Film Festival, giunto alla 31a edizione a partire da quelle prime proiezioni nel 1993. L’arte e la cultura come arma di pace e di riabilitazione.
Che cosa è giusto fare?
Il 7 ottobre 2023, nel kibbutz Kfar Aza un’intera comunità è stata straziata e «lo strappo nel tessuto di juta non sarà mai ricomposto», come ha scritto in una poesia Uri, direttore di una biblioteca in Israele, con una sindrome post traumatica che ancora lo affligge, da quando era soldato nella seconda guerra del Libano nell’estate del 2006 e oltre 1.200 civili libanesi, la maggioranza bambini, e 43 israeliani morirono. Dopo oltre 660 giorni di guerra a Gaza, 18.000 bambini e bambine sono stati uccisi: l’equivalente di una classe scolastica ogni giorno; quasi la metà dei nati ogni anno nella Striscia. Un gazawo su tre non ha accesso al cibo, è vietato loro l’accesso al mare, e l’elenco dei crimini è lungo e la parola umana, ma forse anche quella divina, si spegne. Non sono strappi da ricucire, ma corpi fatti a brandelli. Non possono essere le vittime sarti o chirurghi, e men che meno i carnefici.
Lo strappo è stato relativo, perché contestualizzato, misurato, contenuto. Il ridurre a brandelli un popolo è Male Assoluto, un male continuo, duraturo nel tempo. Cosa è giusto fare? Cosa è giusto continuare a fare? Nessuno lo sa e il perdurare, con andamenti ciclici anche di intensità, dei conflitti nel mondo è frustrante, devastante, scoraggiante. Per far fronte al male relativo si può confidare, fare pressione, protestare affinché le istituzioni preposte intervengano, sebbene con il nuovo ordine della globalizzazione prevalga l’incapacità o l’involontarietà d’azione.
Bambine e bambini in guerra: i loro oggetti
Nel 2017 ha aperto a Sarajevo il War Childhood Museum, un’esposizione che colleziona migliaia di oggetti appartenuti a bambini e bambine che hanno vissuto conflitti, da un’idea di Jasminko Halilović, che è nato nella stessa città nel 1988 e aveva quindi quattro anni quando è scoppiata la guerra. La collezione permanente del museo è formata da oggetti donati da persone che hanno trascorso la propria infanzia a Sarajevo durante l’assedio (1992 – 1996) accompagnati da un breve testo (in inglese e in bosniaco) in cui il donatore spiega perché quell’oggetto è stato importante per lui durante la guerra. Sono inoltre disponibili un televisore e alcuni tablet con i quali si possono vedere e ascoltare le testimonianze registrate degli ex bambini e bambine di Sarajevo. Oggi la collezione conta circa 6.000 oggetti, provenienti da 20 conflitti, alcuni dall’Ucraina, altri sono testimonianze da Gaza, precedenti al 7 ottobre 2023.
Un’iniziativa che andrebbe generalizzata nei luoghi di ex-conflitto, per guardare con fiducia ed empatia al futuro. Per guardare avanti e oltre con gli occhi e dalla parte dei bambini e delle bambine. Un museo simbolo, come un aquilone colorato che vola sul cielo di terre, un tempo, martoriate. I bambini siamo noi, se ci identifichiamo in loro, se riacquistiamo stupore per un nuovo domani. Chissà quando un War Childhood Museum a Gaza. Nel frattempo continuare a educare alla pace: in famiglia, a scuola, ovunque. È necessario farlo, con ostinazione, impegno e coraggio. Tutto questo è giusto.