In questi giorni il Ministero della Salute ha resa nota la composizione della nuova commissione NITAG (National Immunization Technical Advisory Group, in italiano Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni), incaricata di assistere il governo nelle scelte delle politiche vaccinali, valutando il sistema nazionale di immunizzazione e proponendo eventuali modifiche e integrazioni. Per la cronaca, il nome della commissione è inglese perché la sua istituzione è richiesta in ogni paese dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), che la riconosce come interlocutore sulle politiche vaccinali nazionali. In base a quanto riportato sul sito del Ministero della Salute, il NITAG è un organo indipendente col compito di supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il ministero stesso nella formulazione di raccomandazioni evidence-based sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche. Secondo questa formulazione il NITAG interviene solo su richiesta specifica, al pari del Consiglio Superiore della Sanità.
Nel Decreto di nuova costituzione vengono precisati i compiti e l’articolo 2 indica che «il NITAG opera seguendo un approccio di valutazione delle tecnologie sanitarie (Health Technology Assessment, HTA) coerente con il processo decisionale suggerito dalle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, indicando le evidenze scientifiche che sostengono le decisioni di politica vaccinale, valutando l’attendibilità e l’indipendenza delle fonti utilizzate e verificandone l’assenza di conflitti di interesse». La formulazione della frase non è di facile comprensione: non è chiaro se il processo decisionale sia guidato (suggerito) dall’OMS e come l’approccio HTA sia adattato al sistema di vaccinazioni e non ai singoli prodotti.
Più chiarezza sui criteri di scelta
Sui media si è discusso in merito alle nomine effettuate e all’inclusione di persone che, senza particolari esperienze nel merito, in passato hanno assunto posizioni scettiche o di aperta critica verso le vaccinazioni, o almeno alcune di esse. Nomine che hanno generato perplessità tali da causare anche la rinuncia alla partecipazione da parte di qualche componente. In effetti i criteri con cui avviene la scelta dei consiglieri delle politiche vaccinali andrebbero enunciati a priori, in modo da comprendere il ruolo che possono giocare, le competenze che possono apportare e i punti di vista (se non gli interessi) che possono rappresentare, tutti fattori fondamentali per apprezzare i risultati dei lavori.
Nel decreto di istituzione si prevede che il gruppo elabori «un insieme di regole metodologiche da utilizzare per giungere alla formulazione delle raccomandazioni». Il metodo è importante e qualche considerazione sembra opportuna per chiarire l’ambito e il ruolo del NITAG.
Un potente sistema contro le diseguaglianze di salute
Per prima cosa è bene ricordare l’importanza del sistema nazionale di immunizzazione, che soprattutto con la parte dedicata all’infanzia è stato un fondamentale fattore di contrasto alle disuguaglianze del diritto alla salute, mettendo i bambini e le bambine nati in qualsiasi parte di Italia e di qualsiasi ceto sociale in grado di ricevere la stessa protezione da malattie altamente pericolose come la poliomielite, il tetano, la difterite, la pertosse, il morbillo, tanto per citare quelle note a tutti. L’Italia, caratterizzata da grandi diversità geografiche e sociali, è stata tra le prime nazioni a rendere accessibili le vaccinazioni con norme dedicate, anche prima dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978.
La vaccinazione contro la difterite fu introdotta nel 1929, quella contro il vaiolo nel 1934 e quella contro il tetano nel 1938. L’introduzione dell’obbligo vaccinale per i nuovi nati, negli anni ’60, venne salutato come un grande beneficio (voleva dire vaccini gratis e creazione di servizi dedicati per la loro somministrazione) permettendo a tutti i bambini di accedere gratuitamente alla stessa forma di prevenzione, alla stessa stregua del diritto all’istruzione. La presenza di un obbligo legale (all’epoca necessario per impegnare la copertura finanziaria da parte dello Stato) veniva percepita come un’indicazione di grande importanza, dalla quale non si poteva derogare, per il bene del singolo e della comunità. L’obbligo vaccinale per l’infanzia è stato lo strumento con cui lo Stato si è assunto l’onere dei costi non solo dei vaccini, ma anche della capillare rete di centri vaccinali da mantenere sul territorio e del relativo personale. Al pari della presenza di una scuola per assolvere all’obbligo scolastico, così sono stati messi a disposizione ambulatori attrezzati dove somministrare i vaccini previsti dall’obbligo.
Guadagni di salute tanto clamorosi quanto dimenticati
I guadagni di salute delle vaccinazioni sono stati clamorosi – e ormai quasi dimenticati. Nel 1960 in Italia si registrarono ben 7.000 casi di poliomielite paralitica. Dopo l’introduzione della vaccinazione nel 1963 il numero crollò nel giro di pochi anni, azzerandosi sul finire degli anni ’70. Ai primi anni ’60 ancora si registravano circa 700 casi di tetano ogni anno e circa 10.000 casi di difterite. Anche questi ultimi diminuirono vertiginosamente con l’introduzione dell’obbligo di vaccinazione per i nuovi nati. Ancora negli anni ’80 i casi epatite virale B (HBV) erano migliaia ogni anno (nel 1983 ne furono registrati circa 3.500), ma l’aspetto preoccupante era l’elevata numerosità di portatori cronici (circa 2 milioni), soprattutto tra le donne in età fertile in alcune aree del Paese. L’infezione alla nascita comporta un rischio molto elevato di cronicità con conseguente elevatissimo rischio di cirrosi epatica e cancro del fegato. Queste ultime malattie ogni anno causavano circa 9.000 decessi. La disponibilità di vaccini contro HBV rese possibile la vaccinazione di soggetti a rischio nel 1983 e nel 1991 fu introdotta la vaccinazione, obbligatoria, per i nuovi nati e per gli adolescenti a 12 anni di età (questi ultimi destinatari della vaccinazione per i successivi 12 anni di calendario fino al ricongiungimento con i vaccinati nell’infanzia).
Questa strategia permise di accelerare i vantaggi del programma di vaccinazione e nel giro dei primi vent’anni si stima che siano stati evitati, oltre alle infezioni e ai casi clinici di HBV, circa 4.000 casi di infezioni croniche e le conseguenti cirrosi ed epatocarcinomi.
In logica di sanità pubblica
Quando malattie così pericolose circolavano, mietendo vittime soprattutto nei primi anni di vita, la disponibilità di un vaccino era accolta con grande favore e adesione. Con l’allargamento dell’offerta di prevenzione verso malattie infettive meno famose per la maggior parte della popolazione si è presentato il problema di dover valutare l’introduzione di nuove vaccinazioni nel calendario vaccinale, stimare e reperire la copertura economica da affrontare ed effettuare la comunicazione verso la popolazione target di ogni specifico vaccino. Anche la produzione di vaccini e i loro controlli di qualità sono aumentati rispetto ai primi tempi del secolo scorso e oggi l’attività molto specialistica è quasi esclusivo appannaggio di aziende multinazionali, che si possono permettere anni di ricerche di laboratorio e studi dimostrativi di sicurezza ed efficacia di uso, per mercati di diverse nazioni. Alle autorità sanitarie nazionali e internazionali rimane affidato il compito di valutare quanto fatto e giudicare i prodotti idonei a essere ammessi alla vendita in ogni singolo Paese. Anche questo compito è estremamente specialistico e in Italia è affidato ad AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), che lavora con analoghe agenzie dell’Unione europea presso EMA (European Medicine Agency). Insomma AIFA valuta se il rapporto beneficio/rischio di uso di ogni singolo prodotto farmaceutico, e quindi anche di ogni vaccino, sia positivo per cui i benefici apportati sono superiori agli eventuali rischi (e la quantificazione di questi ultimi è ampiamente codificata).
AIFA approva il foglietto illustrativo con le indicazioni di uso (a chi va somministrato, in che dosi, per prevenire cosa), ma nello stesso paragrafo c’è sempre una frase di questo genere: «il vaccino va utilizzato secondo le raccomandazioni di sanità pubblica».
Ogni vaccino disponibile è un’occasione di prevenzione individuale, ma per essere raccomandato estesamente non basta che riceva l’autorizzazione a essere commercializzato, ma deve essere anche valutato se utile per gli obiettivi della sanità pubblica.
I benefici di una maggiore trasparenza
Il gruppo NITAG è responsabile di formulare le raccomandazioni di uso, per le singole vaccinazioni e i singoli prodotti, nell’ambito del sistema nazionale di immunizzazione. Anche questo è un compito non da poco, che richiede competenze specialistiche che permettano di guidare le scelte di sanità pubblica verso obiettivi raggiungibili e chiari per tutti.
La valutazione sull’opportunità di promuovere una specifica vaccinazione dovrebbe partire dalla disamina della necessità di contrastare una specifica infezione conoscendone frequenza, gravità, costi di assistenza per gli infetti, carico sociale assistenziale, gruppi di popolazione maggiormente a rischio, capacità di diffusione e di innesco di epidemie. In base a queste caratteristiche si può descrivere il problema di salute, definirne i costi (da mettere a confronto con quelli vaccinali) e stabilire l’obiettivo di un eventuale intervento di prevenzione vaccinale a carico del servizio pubblico di vaccinazione. Anche la popolazione generale dovrebbe essere in grado di valutare questi stessi aspetti, per poi aderire in modo consapevole all’eventuale offerta di vaccinazione. Purtroppo in Italia i dati sulle notifiche ordinarie di malattie infettive, per le quali esiste un flusso informativo nazionale, non sono disponibili per il pubblico e quindi nessuno, al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, è in grado di farsi un’idea dell’opportunità di vaccinarsi o meno contro questa o quell’infezione. I dati sulle malattie dovrebbero generare una domanda di salute e la disponibilità di vaccini l’offerta di risposta. In realtà spesso il processo è inverso: la disponibilità di un nuovo vaccino (messo a punto su necessità internazionali e non necessariamente nazionali), impone la valutazione di utilizzo, senza che siano fissati specifici obiettivi di sanità pubblica su cui poi andare a valutare il programma di immunizzazione o rendicontare i benefici alla popolazione generale. Il fenomeno di esitazione vaccinale trova così facile terreno di crescita.
La situazione italiana è inoltre complicata dall’ampio margine di autonomia delle Regioni sui temi della salute, per cui sia l’organizzazione dei servizi di vaccinazione, sia l’offerta di vaccinazioni è articolata in modi differenti tra Regioni e Province Autonome e solo un’anacronistica legge di obbligo vaccinale garantisce per le vaccinazioni incluse lo stesso diritto alla prevenzione.
Per le vaccinazioni non obbligatorie esiste una miriade di diverse scelte operative effettuate dalle diverse Regioni, per esempio: campagne di offerta vaccinale limitate nel tempo (finché ci sono i soldi!), differenti gruppi di popolazione invitati, richiesta di contributo economico alla vaccinazione da parte degli assistiti (ticket). Il tutto senza una valutazione di effetto, secondo metodi condivisi, per cui l’esperienza di una Regione non è di alcuna utilità per le altre.
Sapere quante e quali persone siano state vaccinate in ogni zona del paese dovrebbe essere il compito dell’anagrafe vaccinale nazionale, istituita formalmente nel 2017 e con fondi stanziati nel 2019, ma di fatto non operativa ovunque e non pubblicamente consultabile. I dati della proporzione di vaccinati per singole Regioni e PA riportati sul sito del Ministero della Salute si basano ancora sulle autodichiarazioni, senza possibilità di verifica, e si aggiornano una volta ogni due anni.
Il tempo del Covid-19 in cui ogni giorno venivano restituiti i dati nazionali sembra essere passato inutilmente (ne abbiamo parlato qui). Il problema dell’assenza di dati aggiornati e dettagliati sui vaccinati non è di poco conto, perché, per le infezioni che si trasmettono da una persona all’altra, la quota di persone immunizzate è un determinante fondamentale dell’epidemiologia. Ogni campagna di vaccinazione perturba la diffusione naturale dell’infezione e altera i rischi per le persone lasciate suscettibili. Quello che viene deciso in una Regione altera l’epidemiologia di tutte le altre. L’utilizzo di modelli matematici permette di costruire scenari ed effettuare le scelte di politiche sanitarie più vantaggiose, ma non in tutte le aree del Paese sono disponibili competenze adeguate e se ci sono, pochissime sono coinvolte nei processi decisionali.
Che cosa potrebbe fare il NITAG?
Se ci si aspetta che il NITAG contribuisca efficacemente alla definizione e alla valutazione del programma nazionale vaccinale e non si limiti a considerare solo quanto di nuovo verrà proposto dalle case farmaceutiche (che per quanto di loro competenza fanno un lavoro indispensabile), sappiamo che si dovrà avvalere di dati non pubblici e frammentati e su limitate competenze di sanità pubblica. Per conquistare la credibilità delle raccomandazioni formulate sarà necessaria la massima trasparenza su tutte le discussioni (che dovrebbero essere pubbliche, come lo sono in diversi Paesi), sui dati disponibili, e sugli obiettivi raggiungibili, ricordando che il massimo beneficio di un programma di vaccinazione passa attraverso la sua organizzazione e non solo sulla scelta dei singoli prodotti.
Mettersi in grado di disporre di strumenti e dati di qualità e valutazioni autorevoli e condivisibili dovrebbe essere una priorità, soprattutto per chi nelle ultime occasioni di accordi internazionali ha privilegiato la scelta politica di voler promuovere la propria sovranità anche nel campo sanitario.