Dopo quattro anni di dibattiti e oltre 170 udienze, il 26 giugno la Corte d’Assise di Vicenza ha emesso la sentenza: undici condanne e quattro assoluzioni, per un totale di 141 anni di carcere nei confronti degli imputati riconosciuti colpevoli del maxi-inquinamento da PFAS delle acque superficiali, di falda e degli acquedotti in Veneto; 11 dirigenti dell’azienda chimica Miteni sono stati condannati in primo grado per disastro ambientale, avvelenamento delle acque e bancarotta fraudolenta.

Le province interessate sono quelle di Vicenza, Verona e Padova. Qui per anni l’azienda di Trissino, nel vicentino, ha provocato un inquinamento da PFAS, che hanno raggiunto la falda acquifera. Nel 2013 una ricerca del CNR e del ministero dell’Ambiente ha stimato l’esposizione per circa 300.000 persone. 

Questa sentenza rappresenta un passaggio cruciale per il diritto ambientale italiano: riconosce una responsabilità penale collettiva e configura la responsabilità ESG (Environmental, Social and Governance) delle aziende. Stabilisce quindi un precedente concreto per la tutela dei diritti ambientali e sanitari.  

Nel 2019 l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato un’analisi approfondita sull’esposizione alimentare ai PFAS nella cosiddetta zona rossa veneta, composta da 23 comuni.  Lo studio, richiesto dalla Regione Veneto e svolto da ISS in collaborazione con ARPA Veneto e Istituto Zooprofilattico delle Venezie, ha esaminato oltre 1.200 campioni tra acqua, latte, carne, uova, verdure. Prima dell’introduzione dei filtri a carbone attivo, installati dal 2013, l’acqua potabile rappresentava la principale fonte di esposizione, in particolare per il PFOA. Ma anche prodotti locali come le uova o ortaggi provenienti da orti domestici contribuivano in modo rilevante. Le campagne di biomonitoraggio e screening medici sulla popolazione residente avviate dalla Regione Veneto hanno mostrato una contaminazione estesa e persistente, con concentrazioni ematiche di PFAS superiori decine di volte rispetto ai valori medi europei.

Oggi la situazione è nettamente migliorata per le famiglie allacciate alla rete idrica pubblica, grazie all’introduzione dei filtri. L’ISS tuttavia suggerisce di rafforzare il monitoraggio, soprattutto sugli alimenti prodotti localmente e di realizzare studi più mirati su sottogruppi a rischio, come allevatori e consumatori abituali di prodotti locali. 

Non è un problema presente solo in Italia. Pochi mesi prima della sentenza italiana, il 25 aprile, a Saint-Louis, un comune francese di 20.000 abitanti al confine con la Svizzera, l’acqua del rubinetto è diventata off-limits per bambini piccoli, donne in gravidanza e persone immunodepresse. Il motivo? La presenza costante di PFAS oltre i limiti di sicurezza. La contaminazione è stata attribuita a vecchie schiume antincendio utilizzate all’aeroporto di Basilea-Mulhouse fino al 2017: da allora, quelle sostanze sono state vietate. Ma il loro effetto persiste.

Una contaminazione globale, provata da diversi progetti

I PFAS – sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche – sono una famiglia di oltre 10.000 composti chimici di sintesi, costituiti da catene più o meno lunghe di atomi di carbonio e fluoro, introdotti nell’ambiente da impianti produttivi, discariche o per altre vie. 

Due cose colpiscono: questi composti, una volta rilasciati, restano nell’ambiente per anni e poi, alla fine, sono in grado di arrivarci fino in casa, nel bicchiere d’acqua.
È da tempo che i PFAS sono al centro dell’attenzione scientifica e istituzionale a livello globale, proprio per la loro straordinaria persistenza, mobilità, tossicità e diffusione nell’ ambiente, nella fauna selvatica e negli esseri umani. Apprezzati e utilizzati per decenni in numerosi settori industriali e commerciali grazie alla loro capacità di resistere all’acqua, ai grassi e alle alte temperature, questi composti si trovano in molti prodotti di uso quotidiano: tessuti tecnici, imballaggi alimentari, pentole antiaderenti, cosmetici, schiume antincendio, componenti elettronici e altro ancora. Ciò che li rende efficaci nei processi industriali, ovvero la loro estrema stabilità chimica, è anche quello che li rende pericolosi per l’ambiente e la salute: una volta dispersi, infatti, i PFAS non si degradano. Siamo tutti esposti, attraverso l’acqua, il cibo e persino gli abiti che indossiamo. 

I ghiacciai artici, i sedimenti fluviali, le acque piovane contengono PFAS. La loro presenza è così diffusa da rendere il problema sistemico e globale. Nel 2023 il progetto Forever Pollution – frutto della collaborazione tra 18 testate giornalistiche europee, università e centri di ricerca – ha mappato oltre 23.000 siti contaminati in Europa e altri 21.000 sospetti, spesso prossimi a siti industriali dismessi, discariche, aeroporti e impianti militari. Questa inchiesta congiunta ha svolto un ruolo importante nel rendere visibile l’entità del fenomeno e nel sollecitare risposte istituzionali più coordinate. La sinergia tra giornalismo investigativo e ricerca scientifica ha contribuito a costruire una mappa dettagliata della contaminazione, accessibile al pubblico e utile per i decisori politici. 

I risultati del progetto europeo HBM4EU – Human Biomonitoring for Europe (iniziato nel 2016 e concluso nel 2022) hanno evidenziato la presenza di PFAS nel sangue in oltre il 14% dei partecipanti in diversi Paesi, con concentrazioni preoccupanti anche tra i bambini. 

Le bonifiche, là dove avviate, procedono però lentamente e con costi altissimi. Secondo alcune stime la spesa complessiva per l’Europa potrebbe raggiungere i 2.000 miliardi di euro nei prossimi vent’anni.

Effetti sulla salute

Pur non causando sintomi acuti, i PFAS possono interferire con vari processi biologici e nel tempo provocare danni alla salute. Diversi studi suggeriscono che interferiscono con il sistema ormonale, immunitario e metabolico. Nel novembre 2023, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha riclassificato il PFOA – acido perfluoroottanoico, uno dei PFAS più diffusi – come cancerogeno per l’essere umano (Gruppo 1). Il PFOS (acido perfluoroottansolfonico) è stato invece inserito nel Gruppo 2B, cioè tra le sostanze “possibilmente cancerogene”; possono modificare il DNA (metilazione), abbassare la risposta ai vaccini, generare stress ossidativo, alterare il funzionamento degli ormoni tiroidei e androgeni.

Chi è maggiormente esposto? 

L’esposizione a queste sostanze può avvenire sia in ambito lavorativo sia nella popolazione generale. Operai dell’industria chimica, vigili del fuoco, operatori dell’aeronautica e addetti alle bonifiche sono tra le categorie più esposte: l’esposizione avviene soprattutto per via inalatoria, per contatto con la pelle o per ingestione accidentale di polveri. Anche in ambito sanitario i materiali monouso resistenti ai fluidi possono contenere PFAS, contribuendo all’esposizione indiretta.

Nella popolazione generale le principali vie di esposizione sono rappresentate dal consumo di acqua potabile contaminata e alimenti coltivati su suoli contaminati, da prodotti di origine animale, da allevamenti esposti, da pesce pescato in acque inquinate, dall’uso di prodotti che li contengono; l’esposizione durante la gravidanza e l’allattamento al seno sono il principale fattore che contribuisce alla presenza di PFAS nei neonati.

Risposte istituzionali e richieste della società civile

L’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) nel 2020 ha stabilito la soglia di sicurezza per i PFAS (DST – Dose Settimanale Tollerabile di gruppo) pari a 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana che, tradotto per un adulto di 70 kg, significa poter assumere non oltre 308 ng di PFAS alla settimana. 

I quattro PFAS su cui si è incentrata la valutazione dell’EFSA sono l’acido perfluoroottanoico (PFOA), l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), l’acido perfluorononanoico (PFNA) e l’acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS). Nello stabilire la DST gli esperti hanno ritenuto che l’effetto più critico per la salute umana sia la diminuita risposta del sistema immunitario alle vaccinazioni. Si tratta di una novità rispetto al precedente parere dell’EFSA del 2018, che riteneva l’aumento del colesterolo il principale effetto critico.

Ma come si regolamenta una classe così ampia di sostanze? Ne abbiamo parlato con Livia Biardi, esperta di chimica e ambiente per Altroconsumo, organizzazione di consumatori che ha svolto diverse indagini sui PFAS e recentemente ha lanciato una petizione per chiedere il bando di tutti quelli non strettamente necessari. 

«Indubbiamente regolamentare i PFAS non è facile», spiega Biardi. «Si tratta di una classe molto ampia di sostanze, oltre 10.000, e il REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals), regolamento UE che disciplina la produzione, l’immissione sul mercato e l’utilizzo delle sostanze chimiche, ne regolamenta solo una parte: al momento, quelli più noti e considerati a maggior rischio. Impossibile andare a cercarli uno per uno con delle analisi specifiche. Serve un approccio diverso: per esempio nella nostra ultima inchiesta siamo andati alla ricerca non dei singoli PFAS ma del fluoro organico totale (TOF, Total Organic Fluorine), come indicatore della possibile presenza di PFAS e, se presente sopra una determinata soglia, abbiamo proceduto a cercare di individuare il singolo tipo di PFAS». 

Dall’inchiesta di Altroconsumo, svolta in collaborazione con altre organizzazioni di consumatori a livello internazionale, è emerso che a livello europeo i PFAS erano presenti in misura superiore ai limiti di legge (attuali o che saranno in vigore dal 2026) nel 21% dei casi. 

A Livia Biardi chiediamo quali sono oggi le principali normative europee in vigore sui PFAS, in particolare nel settore alimentare e nei materiali a contatto con gli alimenti.
Spiega Biardi: «Per quanto riguarda i prodotti alimentari abbiamo il Regolamento UE 2023/915, che stabilisce limiti massimi di contaminazione ammessi in alcune categorie di alimenti (uova, prodotti ittici, carni di diversa origine) relativamente alla presenza di alcuni composti appartenenti alla famiglia dei PFAS (PFOS, PFOA, PFNA, PFHxS). Per quanto riguarda i materiali a contatto con alimenti, restrizioni sulla presenza di PFAS sono state introdotte di recente dal Regolamento UE 2025/40 ed entreranno in vigore il 12 agosto 2026. Per le acque destinate al consumo umano, la Direttiva UE 2020/2184 ha individuato due limiti specifici per la somma di tutti i PFAS e per la somma di 20 specifici PFAS, ritenuti più preoccupanti per la salute umana».

 «L’Italia, dopo aver recepito la direttiva europea con il D.Lgs. 18/2023, ha recentemente introdotto modifiche significative attraverso il Decreto Legislativo n. 102 del 19 giugno 2025, in vigore dal 19 luglio», continua Biardi. «Questo nuovo provvedimento fissa un limite di 20 ng/L per la somma di quattro PFAS specifici: PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS, introduce l’obbligo di monitoraggio del TFA (acido trifluoroacetico), una sostanza della famiglia dei PFAS ampiamente diffusa e finora non soggetta a regolamentazione, e abroga il limite precedentemente previsto per la somma di tutti i PFAS».

Sul sito di Altroconsumo si può aderire a una petizione sui PFAS. Che cosa chiede l’organizzazione al governo italiano? «Chiediamo un bando immediato e totale di tutti i PFAS non necessari. Al governo chiediamo di sostenere, come già fatto da Germania, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Danimarca, la proposta di limitazione dei PFAS presso l’ECHA, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche, e all’UE chiediamo un bando più ampio a tutela della salute e dell’ambiente. Esistono già prodotti in commercio privi di PFAS: fare senza è quindi possibile. Trattandosi di inquinanti eterni, dovremo convivere a lungo con quelli già dispersi. Evitiamo di aggiungerne altri», spiega Biardi.

In conclusione, i dati sono chiari: non servono solo controlli, ma un cambiamento strutturale. 
Bisogna:

  • sviluppare metodi analitici più sensibili per rilevare anche basse dosi di contaminazione;
  • rendere pubblici i dati sull’uso e la presenza di PFAS nei prodotti di largo consumo;
  • incentivare la sostituzione dei PFAS con molecole alternative meno persistenti;
  • investire in tecnologie di rimozione più efficaci.

La sentenza del caso Miteni ha segnato un punto di svolta giuridico, ma rimane ancora molto da fare sul piano della prevenzione, della sorveglianza sanitaria e della trasparenza.