Tra poche settimane prenderanno il via i Campionati Mondiali di Atletica di Tokyo 2025, che porteranno in pista una novità inattesa. Non pensate però a discipline nuove o a materiali rivoluzionari nelle scarpe, perché l’innovazione è di natura genetica. La World Athletics, la federazione internazionale di atletica leggera che regola e promuove questo sport a livello globale, ha infatti deciso che per competere nella categoria femminile le atlete dovranno obbligatoriamente sottoporsi al test SRY: dovranno cioè dimostrare la loro eleggibilità nella categoria femminile.

Questo test utilizza il DNA estratto da un piccolo campione di sangue o saliva per evidenziare la presenza del gene sry, che dagli anni ’90 del secolo scorso sappiamo regolare lo sviluppo in senso maschile del nostro organismo.

La decisione, presa nel corso dell’estate e divenuta attuativa da settembre, ha creato numerose polemiche. Non solo introduce un test genetico obbligatorio per gareggiare, ma impone anche di comunicarne l’esito, in contrasto con la privacy delle atlete e con alcune norme nazionali. Per esempio, la federazione francese aveva già manifestato preoccupazione nei mesi scorsi, sottolineando che una legge di bioetica del 1994 vieta l’obbligatorietà di questi test sul suolo francese.

La scelta della World Athletics è interessante anche dal punto di vista regolatorio, dato che i dati genetici rientrano tra le categorie “particolari” di dati sensibili disciplinati dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR). Questo impone requisiti stringenti in termini di consenso esplicito, finalità specifiche e misure di sicurezza avanzate. Chi gestirà questi dati e come?

Non saranno però solo le nostre campionesse in pista a doversi mettere alla prova anche in laboratorio. A maggio, infatti, anche la World Boxing, ora riconosciuta dal Comitato Olimpico, ha adottato lo stesso test, in seguito al caso della pugile algerina Imane Khelif, oro a Parigi 2024. La sua vittoria e, in particolare, il match con l’italiana Angela Carini (durato solo 36 secondi) hanno alimentato i dubbi sulla sua eleggibilità nelle competizioni femminili. Carini si ritirò dopo aver ricevuto un colpo che, a suo avviso, non aveva precedenti per forza rispetto a quelli subiti in altri incontri contro donne.

Se l’introduzione di una nuova regola ad personam dopo una gara molto contestata vi sembra familiare, la vostra memoria funziona benissimo. Il caso di Imane Khelif ricorda infatti da vicino quello della campionessa olimpica e mondiale Caster Semenya. Dal 2009 la mezzofondista sudafricana è stata al centro di controversie per i suoi livelli naturalmente elevati di testosterone, dovuti a iperandrogenismo. A seguito di questo caso, la World Athletics introdusse limiti ormonali per la partecipazione alle gare femminili dai 400 ai 1500 metri, dando origine a battaglie legali e dibattiti su diritti umani, scienza e sport.

Ora la proposta delle federazioni è  di passare dagli ormoni ai geni per fare chiarezza. O meglio, di tornare alla genetica, dato che un test analogo era già stato usato alle Olimpiadi invernali francesi di Albertville (1992) e poi ad Atlanta (1996), per essere infine abbandonato in favore dei controlli ormonali.

Questa scelta indica che oggi disponiamo di dati nuovi per usare il test in modo più efficace? Siamo davvero in grado di distinguere maschi e femmine in modo netto e stabilire chi può partecipare alle gare femminili? La risposta continua a essere no. La realtà è molto complessa: avere un cromosoma Y non è sufficiente per svilupparsi come maschi. Per esempio, il cromosoma Y può portare una copia non funzionale del gene sry, con conseguente sviluppo femminile. Alcune persone hanno mutazioni nel gene che codifica il recettore degli androgeni: sono insensibili a questi ormoni e si sviluppano come donne, pur avendo un cromosoma Y. Ci sono persino casi, rari ma documentati, in cui una persona possiede il gene sry senza il resto del cromosoma Y, perché una mutazione lo ha trasferito su un altro cromosoma. La complessità dello sviluppo sessuale deriva proprio dal fatto che sry non agisce da solo, ma attiva a cascata molti altri geni, e un malfunzionamento in qualunque punto della catena può impedire la mascolinizzazione.

Spesso ci piace cercare certezze nella natura, perché ciò che avviene “naturalmente” ci appare più giusto o accettabile. Ma la biologia, anche la nostra, è più complessa di quanto ci piaccia pensare. Il tentativo di limitare la partecipazione femminile a partire da un singolo test genetico è destinato oggi a produrre esclusioni arbitrarie e discriminazioni.

Questo non significa che sia sbagliata l’idea da cui le federazioni sono partite: è giusto difendere il principio di equità, cioè la regola secondo cui le gare devono svolgersi tra atleti con condizioni comparabili. Ed è giusto, soprattutto negli sport di contatto, tutelare la salute delle atlete. Il problema nasce quando si riduce l’identità sessuale alla presenza o assenza di un singolo gene o cromosoma. Non si tratta di rinunciare ai controlli, ma di farli nel modo corretto. Come? Al momento non esistono proposte concrete, ma una cosa è chiara: per rispondere seriamente a questa domanda serve un approccio multidisciplinare, che consideri insieme la complessità biologica, la dimensione umana e quella legale.

Da genetista confesso di avere un dubbio, forse tecnico ma con ricadute importanti nello sport: ammesso che alcune mutazioni legate al sesso conferiscano un vantaggio iniquo, siamo certi che non esistano altre mutazioni, non legate al sesso, in grado di fare lo stesso? Oggi disponiamo del genoma di decine di atleti di livello internazionale: tutti possiedono mutazioni rare che hanno contribuito ai loro successi sportivi. In un certo senso, tutti gli atleti di elite sono “mutanti”, portatori di combinazioni di varianti genetiche che ne influenzano forza, resistenza, capacità di recupero e reattività.

Nel 2012 un commento su Nature arrivò a sostenere che, poiché i vantaggi genetici rendono lo sport inevitabilmente iniquo, si sarebbe dovuto permettere il doping genetico agli atleti geneticamente meno “fortunati”. Non andrei così lontano, ma la genetica dello sport ci mostra che le prestazioni eccezionali dipendono anche da mutazioni particolari. Come regoliamo queste differenze? Non ho una risposta, ma ogni volta che vedo correre Usain Bolt penso che avere quella biometria dovrebbe quasi essere illegale. È un paradosso, ma lo sport professionistico è sempre ricerca del limite estremo.

Va anche ricordato che costringere alcune atlete ad abbassare i loro livelli naturali di testosterone, in nome del principio di equità, può essere dannoso per la loro salute e forse anche ingiusto. Sarebbe come chiedere a Gianmarco Tamberi di saltare con una cintura di pesi, o a Bolt di accorciarsi le gambe. Può sembrare assurdo, ma esempi simili esistono: nel motociclismo, per esempio, ad Álvaro Bautista è stato imposto di correre con una zavorra perché il suo peso inferiore lo rendeva troppo competitivo. A Semenya non hanno chiesto di zavorrarsi, ma di rallentare il proprio “motore biologico” abbassando i suoi livelli di testosterone.

Se davvero vogliamo capire il peso dei disturbi dello sviluppo sessuale nello sport, forse sarebbe più utile studiare l’intero patrimonio genetico delle atlete. Oggi sequenziare un genoma costa meno di un paio delle scarpe con cui le atlete gareggiano e permetterebbe di avere un quadro più completo. Naturalmente questo aprirebbe enormi dilemmi etici: se è problematico un singolo test genetico, immaginate cosa significhi analizzare l’intero genoma. Ma aprire questo vaso di Pandora ci aiuterebbe almeno a capire se esistono geni davvero determinanti per stabilire l’eleggibilità nelle competizioni femminili. Inoltre, questi dati potrebbero avere anche ricadute positive per le atlete, per esempio nella prevenzione degli infortuni o nella pianificazione dell’allenamento.

Guardare nel genoma ci ricorderebbe inoltre quanto siano ampie le differenze tra le atlete e come queste differenze naturali (biometriche, fisiologiche o metaboliche) siano già accettate nello sport come parte del gioco. Tracciare regole speciali per chi ha disturbi dello sviluppo sessuale equivarrebbe quasi a considerarli dei bari che vincono grazie a trucchetti, come se la loro diversità fosse meno naturale di quella delle altre atlete.

«Siamo tutti parenti e tutti differenti», recitava lo slogan coniato dal genetista André Langaney per raccontare la diversità umana. Nelle competizioni sportive, certamente, non siamo tutti parenti, ma restiamo comunque tutti differenti, con o senza cromosoma Y. Non dimentichiamocelo.