Il riscaldamento globale causato dai combustibili fossili aumenterà la variabilità delle rese di mais, soia e sorgo in tutti i continenti, secondo uno studio pubblicato su Science Advances. Il gruppo di ricerca è il primo a quantificare l’impatto del cambiamento climatico sulla fluttuazione annuale delle rese di queste colture, che sono tra le più importanti per l’agricoltura mondiale.

Fino a oggi la ricerca si era preoccupata soprattutto di capire se i raccolti saranno più o meno scarsi, a seconda della colture, nei diversi scenari climatici. Questo interrogativo però abbraccia solo una parte dei problemi che l’agricoltura deve affrontare. La nostra sicurezza alimentare non poggia infatti solo sulla quantità, ma anche sulla stabilità, cioè la capacità dei sistemi agricoli di generare ogni anno più o meno gli stessi raccolti, ossia la stessa quantità di cibo, che sia destinato agli umani o agli animali da allevamento. La stabilità è dunque un valore collettivo da preservare, dall’agricoltura all’economia. Se c’è una cosa che il nuovo clima sta mettendo in crisi è proprio questa. 

La temperatura e il contenuto d’acqua dei suoli sono due variabili ambientali che influenzano la stabilità agricola. Lo sviluppo e la maturazione delle piante coltivate raggiungono un massimo a livelli intermedi di temperatura e umidità. Troppo caldo e troppo freddo, eccesso e penuria d’acqua possono ugualmente infliggere danni a un campo coltivato. Il calore estremo può rallentare la fotosintesi e ledere le strutture delle piante, in particolare quelle necessarie alla riproduzione. Uno scarso apporto d’acqua può favorire la crescita delle radici a discapito delle parti destinate all’alimentazione. Temperatura e umidità sono dunque due parametri critici in agricoltura e il riscaldamento globale sta modificando entrambi su scala planetaria. 

La chiave di questo studio è l’interazione tra le due variabili e la sua influenza sulle rese. La variazione sincrona di temperatura e umidità innesca effetti che si amplificano e questa relazione si rafforza con l’aumento della temperatura. Il caldo disidrata più rapidamente il suolo. Il suolo asciutto favorisce un maggiore riscaldamento. Il cambiamento climatico intensifica questi processi. 

Combinando modelli del clima e dei raccolti agricoli, il gruppo di ricerca ha calcolato che per ogni grado di aumento della temperatura globale la variabilità delle rese aumenta del 7,1% per il mais, del 19,4% per la soia e del 9,8% per il sorgo. C’è «una relazione preoccupante», scrive, tra le diminuzioni delle rese media e l’aumento delle loro fluttuazioni da un anno all’altro. I due fattori potrebbero combinarsi per innescare crolli dei raccolti causati da eventi meteorologici estremi, oggi sempre più frequenti e severi.

Se nell’attuale clima annate particolarmente negative si registrano una volta ogni 100 anni, in uno scenario di riscaldamento globale di 3 gradi centigradi si presenterebbero ogni 33 anni per il mais, 14 per la soia e 40 per il sorgo. Con le politiche energetiche attuali siamo proiettati più o meno verso questa soglia, che è il doppio del grado e mezzo che l’Accordo di Parigi sul clima aveva fissato come limite da non oltrepassare. Dalla solenne dichiarazione di questo obiettivo sono passati ormai dieci anni.

C’è una questione che aleggia su ogni discussione circa le conseguenze del riscaldamento globale sull’agricoltura. Nemmeno lo studio pubblicato su Science Advances la ignora: il ruolo dell’anidride carbonica (CO2). In fondo, dicono alcuni, questo gas serra è uno degli ingredienti della fotosintesi, la fonte di carbonio delle piante, dunque uno dei loro nutrienti fondamentali. L’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera dovrebbe far prosperare anche le piante che coltiviamo. Il negazionismo climatico ha propagandato per decenni questo argomento, che semplifica e ignora parecchie evidenze accumulate durante ricerche, anche sperimentali. 

Come scrivono gli autori del nuovo studio, è possibile che l’aumento della concentrazione di CO2 possa attenuare la variabilità delle rese aumentando la capacità delle piante di trattenere l’acqua grazie alla parziale chiusura degli stomi, cioè i pori sulle foglie attraverso cui vengono scambiati i gas con l’aria. Tuttavia, notano ancora, sono effetti «incerti e difficili da stimare», spesso compensati da altri. A beneficiarne, in teoria, dovrebbero essere le piante che adottano la fotosintesi di tipo C3, come grano e soia, rispetto alle piante C4, come mais e sorgo. 

La fisiologia vegetale dipende da molti altri fattori limitanti, per esempio la carenza di nutrienti come l’azoto e il fosforo. L’impatto dell’aumento della concentrazione atmosferica di CO2 sulle piante non riguarda solo la fotosintesi. Per esempio, può ridurre le concentrazioni, all’interno dei tessuti vegetali, di diverse sostanze benefiche per la salute umana. In definitiva, non si può isolare un singolo effetto dell’aumento della CO2 sullo sviluppo degli organismi vegetali, né ignorare quelli sull’intero pianeta, dall’acidificazione degli oceani allo stesso aumento della temperatura.

Tra tante incertezze, una cosa è sicura: l’agricoltura deve adattarsi a un sistema climatico che sta diventando rapidamente più ostile. “Adattamento” è una delle parole chiave della risposta al riscaldamento globale. Le aree geografiche che si troveranno più in difficoltà nel fare i conti con rese agricole più fluttuanti saranno, tanto per cambiare, quelle più povere. Rispetto a quelle ricche, hanno meno mezzi e risorse, una minore capacità di immagazzinamento dei raccolti e di accesso ai mercati internazionali. Ma dalla sfida dell’adattamento non può tirarsi fuori nemmeno l’agricoltura più avanzata dei paesi ricchi. 

La seconda parola chiave rimane “mitigazione”. Alla fine, tutti gli studi che si occupano dei tanti impatti del cambiamento climatico non fanno che ribadire lo stesso messaggio: l’aumento della temperatura globale li aggrava e non sempre in modo lineare. Ma questo è ciò che la scienza dice da decenni.