La notizia, di qualche giorno fa, è di quelle che fa sobbalzare dalla sedia: una terapia genica sperimentale, condotta dall’Huntington Disease Centre dell’University College London, ha dimostrato di essere in grado di rallentare del 75% la progressione della malattia di Huntington, a tre anni dalla somministrazione. Il che vuol dire ridurre la comparsa dei sintomi di questa malattia neurodegenerativa ed ereditaria, a cui da sempre il nostro laboratorio di ricerca alla Statale di Milano è dedicato. Sintomi che comportano la graduale perdita del controllo degli arti, che iniziano a muoversi in modo scoordinato e in ogni direzione, una mimica facciale alterata, depressione e disturbi psichiatrici. In genere compaiono dopo i 50 anni, ma nei (rari) casi di Huntington giovanile i primi segni della malattia, che ha anche un decorso più veloce, arrivano già prima dell’adolescenza. 

In attesa della pubblicazione dei risultati su una rivista scientifica, da fonti stampa e dichiarazioni dei colleghi inglesi e dell’azienda biotech olandese uniQure (https://uniqure.gcs-web.com/news-releases/news-release-details/uniqure-announces-positive-topline-results-pivotal-phase-iii), sappiamo che la terapia, denominata AMT-130, è stata somministrata a 29 pazienti, 17 che hanno ricevuto una dose alta di AMT-130 e gli altri una dose bassa. L’analisi che ha portato all’annuncio di pochi giorni fa ha riguardato 24 pazienti che avevano completato i 36 mesi previsti. Circa il confronto con un gruppo controllo, le agenzie regolatorie hanno concordato che l’azienda utilizzasse come riferimento i dati di Enroll-HD, il più grande studio osservazionale al mondo sulla malattia di Huntington, che raccoglie migliaia di casi documentandone condizioni cliniche e decorso e attualmente include i dati clinici di 22.008 persone con malattia di Huntington (aggiornamento al 27 settembre 2025, https://enroll-hd.org/). Ebbene, confrontando il gruppo ad alta dose con il decorso di 940 pazienti non trattati di Enroll-HD e il gruppo a bassa dose con altri 626 di Enroll-HD, l’azienda ha dichiarato che AMT-130 incide significativamente sul decorso della malattia. 

Secondo i dati diffusi, nei pazienti trattati con la dose alta la progressione clinica è risultata rallentata del 75% rispetto al decorso naturale della malattia (nei pazienti trattati con la bassa dose si è riscontrata variabilità dell’effetto). Anche la capacità funzionale totale, un indicatore chiave della vita quotidiana, ha mostrato un rallentamento attorno al 60%. Nei test cognitivi e motori i risultati hanno confermato un vantaggio, mentre nei campioni di liquido cerebrospinale si è osservata una diminuzione dei livelli di neurofilamento, un biomarcatore del danno neuronale, laddove nei pazienti non trattati ci si aspetta un progressivo aumento. 

Una cura che dà nuove speranze, ma che va studiata

Sul fronte della sicurezza, a tre anni non sono stati segnalati nuovi eventi avversi gravi legati al trattamento. AMT-130 è una terapia genica che prevede un intervento neurochirurgico complesso: un vettore virale viene iniettato direttamente nello striato cerebrale (l’area del cervello maggiormente colpita dalla malattia e che controlla aspetti motori e comportamentali) per trasportare piccoli frammenti di RNA specifici contro il gene Huntington e in grado di ridurre la produzione della proteina huntingtina, responsabile della malattia. È un approccio diverso rispetto ad altri tentativi già noti: gli oligonucleotidi antisenso, come il tominersen di Roche, devono essere somministrati ripetutamente nel liquido spinale o quello della Wave Life Sciences (WVE-120101/WVE-120102), è applicabile solo a una sottopopolazione di pazienti (in quanto riconosce una variante nel gene huntington mutato, aspetto che rende però la terapia molto mirata in quanto riconosce e blocca solo il gene mutato e non il gene sano – la sua efficacia clinica limitata ha portato per ora alla interruzione dei trial); le molecole orali, come PTC-518, hanno un’efficacia più incerta. Con AMT-130 l’obiettivo è invece una correzione stabile con un’unica somministrazione.  

Ci sono diversi motivi per essere entusiasti di fronte a questo annuncio. L’idea dei microRNA ha molti vantaggi: funziona in tutti i pazienti Huntington, indipendentemente dall’aplotipo (le varianti geniche a cui trattamenti come quello di Wave erano rivolti); non richiede test genetici aggiuntivi per selezionare i portatori di varianti geniche specifiche; una volta somministrato per iniezione intracerebrale, ha effetto potenzialmente duraturo.

Ma vi sono altrettanti motivi per rimettersi seduti al bancone e continuare a studiare. Fino ad oggi, i farmaci approvati per il trattamento dell’Huntington sono pochi e hanno come risultato la gestione dei sintomi. Il loro rallentamento è perciò una novità assoluta che comporta, tra noi scienziati, la speranza che sia stata individuata una nuova strada da percorrere. Sembrava così anche nel 2012 quando stimati colleghi ricercatori e clinici impegnati nella ricerca sull’Huntington avevano prodotto le prime prove su un “oligonucleotide antisenso” (il tominersen di Roche) prodotto in laboratorio e complementare al gene responsabile della malattia: se iniettato nei pazienti, era l’obiettivo degli studiosi, avrebbe dovuto riconoscere il gene, “silenziarlo” e avere l’effetto di annullare o ridurre gli effetti tossici sull’organismo. In questo caso il trattamento non era specifico per il gene mutato e avrebbe raggiunto e annullato sia il gene mutato che l’altra copia sana del gene presente nelle nostre cellule. Nel 2019 il New England Journal of Medicine ha pubblicato i risultati della prima fase di sperimentazione clinica su 46 persone di un farmaco sviluppato da Roche a partire da questa molecola: all’aumento della dose somministrata si i livelli di proteina tossica riducevano progressivamente. Le agenzie regolatorie acconsentirono ad allargare la sperimentazione a 660 pazienti, salvo poi bloccare tutto perché si era resa necessaria una ulteriore valutazione degli effetti avversi e del rapporto rischi/benefici.

Una grande alleanza per la ricerca

Vengo, quindi, ai motivi per cui è importante prendere la notizia degli ultimi giorni come un nuovo fronte di lavoro. Innanzitutto, si tratta del risultato iniziale ottenuto in uno studio che ha coinvolto un numero molto esiguo di persone e che non è ancora stato pubblicato né sottoposto a revisione. Non si conoscono i dati e le evidenze dei numeri che, leggo dalle agenzie, uniQure prevede di presentare per l’approvazione all’autorità regolatoria statunitense nel primo trimestre del prossimo anno. Il disegno dello studio è complesso e basato in parte su controlli esterni, e i tre anni di follow-up, per quanto significativi, non bastano a dire quanto a lungo durerà l’effetto. Non vanno dimenticati i rischi intrinseci della terapia genica: possibili reazioni immunitarie al vettore virale, infiammazione locale, e l’incognita legata alla soppressione eccessiva del gene huntingtina sano,, che svolge anche funzioni fisiologiche importanti nei nostri neuroni, come dimostrato con lavori che il nostro gruppo di ricerca ha pubblicato 25 anni fa con evidenze aggiunte anche da altri gruppi. Come già segnalato, il trattamento UniQure infatti colpisce in modo analogo sia il gene mutato sia quello sano. In secondo luogo, è dovere di chiunque pratichi il metodo scientifico non lasciarsi andare a pericolosi salti in avanti nel rispetto dei malati e delle famiglie. È per loro che conduciamo le nostre ricerche sperimentando tutte le strade che possono razionalmente portare all’obiettivo della cura. 

Per i pazienti e le loro famiglie, ogni annuncio di progresso porta con sé emozione e aspettative. La scienza, però, ha il dovere di mantenere una speranza razionale, fondata sui dati e sul metodo. AMT-130 non è ancora la cura, ma conferma che la strada del silenziamento genico è quella da percorrere con determinazione. Oggi questa via non è più soltanto un orizzonte lontano: segna l’inizio di una nuova fase, in cui la possibilità di modificare la storia naturale della malattia di Huntington appare concreta.

Quello che più mi entusiasma – e che per me rappresenta una vera garanzia – è sapere che a questo lavoro incessante partecipano anche straordinarie aziende farmaceutiche e biotecnologiche. Colossi ai quali non finirò mai di essere grata: senza le loro competenze, i loro investimenti, la loro capacità di trasformare un’idea in una pillola, non avremmo nulla per la salute umana. Realtà con profili scientifici e traslazionali eccezionali, che hanno deciso di impiegare risorse ed energie ingenti, consapevoli che ogni strada mai aperta da nessuno comporta grandi rischi, ma evidentemente attratte dai progressi della ricerca di base e dalla convinzione che vincere questa malattia – o anche solo ritardarne gli effetti – avrebbe un impatto dirompente anche su molte altre patologie simili.

Sono le stesse realtà che hanno già reso possibili cure considerate impensabili solo pochi anni fa: basti pensare a farmaci innovativi come risdiplam, modulatore dello splicing genico (una grande storia di ingegno, coraggio e bravura!), sviluppato da PTC Therapeutics e portato avanti da Roche, o Zolgensma, oggi terapia genica di Novartis, entrambi ormai trattamenti efficaci per l’atrofia muscolare spinale. Insieme alla ricerca di base e clinica, queste aziende hanno scelto una strategia comune per contrastare la malattia di Huntington: colpire e silenziare, o alterare la trascrizione del gene responsabile, non potendolo ancora (per ora) eliminare fisicamente da ogni cellula.

E qui arrivo a un’ultima considerazione: i trial di UniQure, così come quelli di Roche o Wave, restano esperimenti, pur condotti nell’uomo e dopo attente valutazioni. E come ogni esperimento, possono fallire. Anche UniQure può fallire. Ma una cosa è certa: le armi – sempre pacifiche – della scienza e della medicina hanno ormai inquadrato l’obiettivo. E, anche di fronte a un insuccesso, si tornerà a colpirlo con strumenti migliori. Sappiamo dove si trova e continuiamo a conoscerlo molto meglio. Millimetro dopo millimetro, lo raggiungeremo. Non perché sia facile ma perché, quando la scienza sa dove guardare, la potenza della conoscenza fa sì che alla fine non ci sia bersaglio che resti fuori portata.