Quando nel 1990 Thomas Pynchon, uno dei più celebrati scrittori americani viventi, oggi 88enne, pubblicò Vineland fu una sorpresa perché era un testo scorrevole, leggero, divertente e accessibile.  Fino ad allora, la sua narrativa era caratterizzata dalla frammentazione, dal paradosso, dal citazionismo e dal rimando ad autori del passato. Caratteristiche dei lavori degli esponenti della letteratura postmoderna. Tutti elementi che mettono ancor oggi a prova la simpatia del lettore verso l’autore e le sue opere.  La sceneggiatura e l’adattamento cinematografico che il regista statunitense Paul Thomas Anderson ha costruito con Una battaglia dopo l’altra ricalca le caratteristiche della scrittura di Pynchon potenziando la scorrevolezza, l’azione e l’umorismo in un film di 162 minuti. 

I film sono sempre più lunghi perché l’avvento del digitale ha drasticamente abbattuto i costi di lavorazione e i produttori e i distributori, pensando al ritorno al botteghino e sulle piattaforme streaming on demand, per attrarre autori e attori, mettono a disposizione ingenti risorse economiche. L’investimento della produzione per Una battaglia dopo l’altra pare sia stato intorno ai 130 milioni di dollari per i costi di natura tecnica e 70 milioni di dollari per le spese di promozione. Nel weekend di apertura il film ha conquistato il primo posto al box office incassando 48,5 milioni di dollari a livello globale e risultando un discreto successo per il regista, visto il suo storico poco esaltante con i precedenti nove lungometraggi. Tuttavia con questo incasso le previsioni non sono rosee per rientrare interamente dalle spese (incassare 300 milioni di dollari). Questo è oggi l’andamento dell’industria cinematografica mondiale. 

Lungo il muro della vergogna

Il film apre con la liberazione di un gruppo di migranti detenuti in uno dei centri di permanenza temporanea ed espulsione tra Stati Uniti e Messico, a opera di militanti rivoluzionari che agiscono in California e in Texas liberando le persone intrappolate e compiendo azioni terroristiche contro le sedi del potere finanziario. Il diritto d’asilo al confine tra Stati Uniti d’America e Messico è inesistente, in violazione degli obblighi nazionali e internazionali degli Stati Uniti in materia di diritti umani, come ha denunciato anche Amnesty International. Le violazioni di Trump nel militarizzare i confini sono solo l’inasprimento della politica di respingimento iniziata nel 1993 con la costruzione della barriera di separazione tra gli Stati Uniti e il Messico, il muro messicano o muro di Tijuana, o anche il muro della vergogna, come lo chiamano i messicani. 

La frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti è la rotta migratoria via terra più pericolosa al mondo. Nel 2022, l’anno più cruento dell’ultimo decennio in quella zona, sono stati registrati 686 profughi morti o dispersi. La sequenza d’apertura del film rimanda agli anni ’80, ma è più che attuale, interessa i confini americani e gli americani – dice Anderson -, ma anche i nostri confini (Mediterraneo e rotta Balcanica) e noi italiani. Storie di confini, di muri e di respingimenti che si mantengono nel tempo a cui la sceneggiatura di Anderson rimanda lo spettatore. 

La storia è quella di Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), rivoluzionario e bombarolo che, anche per attrazione della combattente per la libertà Perfidia “Beverly Hills” (Teyana Taylor), si unisce al collettivo “French 75” (French 75 è il nome di un cocktail elegante a base di gin, succo di limone, sciroppo di zucchero e champagne appartenente alla famiglia degli sparkling, il preferito di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in Casablanca, diretto da Michael Curtiz). 

Bob, con Perfidia, è una delle colonne portanti del gruppo di ribelli. Tra i due nascono una relazione e anche una figlia, Willa (l’esordiente Chase Infiniti). Cercano di costruire una vita comune, ma senza successo, e si dividono. Sedici anni dopo, il presente del film, Bob vive sotto falso nome insieme alla figlia adolescente: ha abbandonato la causa e conduce un’esistenza appartata, da reietto, rallentato dalle droghe. 

Il colonnello Steven J. Lockjaw (Sean Penn), riproduzione del sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, diretto da Stanley Kubrick, a capo del centro di detenzione della sequenza iniziale del film, misogino e suprematista bianco ossessionato da Perfidia, non ha mai smesso di cercarli e il suo ritorno in scena innesca una catena di eventi che trascinano lo spettatore… da una battaglia all’altra.

Si partecipa a inseguimenti, fughe a piedi, auto che si fanno lentamente largo in un corridoio tra corsie, dossi che ostruiscono la vista anche nei rettilinei desertici (deserto di Chihuahua a El Paso) con il pericolo in agguato che calamita lo spettatore. 

Compare anche il Sensei messicano (!) Sergio St. Carlos (Benicio Del Toro), maestro di arti marziali di Willa che supporta Bob nella sua fuga dalla caccia del colonnello Lockjaw. Del Toro si muove lento, parla poco, osserva tutto. È il punto di riferimento della comunità sudamericana di Baktan Cross (città immaginaria che è una combinazione di Eureka in California ed El Paso in Texas) che insieme ad amici e familiari nasconde numerosi migranti aiutandoli a passare la frontiera. Una digressione questa di Anderson per mostrare come il dramma di Bob e Willa sia parte di un contesto più vasto, in cui l’oppressione nei confronti di poveri e minoranze può, in parte, essere fronteggiata anche attraverso la solidarietà e l’unità comunitaria. 

Una farsa preziosa di sentimenti ed emozioni

Un film disordinato, ma ricco di sentimenti ed emozioni e forse proprio per questo disarticolato e piacevolmente farsesco in alcune sequenze. Il film è ricco di tanti messaggi: sulla genitorialità e i gap generazionali; le minoranze di genere, le fragilità e le disabilità; il femminismo della femminilità bellica («La fica è per la guerra, è un’arma»); le contrapposizioni politiche («Le rivoluzioni iniziano sempre per combattere dei demoni, poi succede che quei demoni combattano loro stessi»); la ribellione, che genera tenerezza, di Bob in vestaglia che urla «Viva la Revolución!» con il pugno alzato a Benicio del Toro in azione; i poteri paralleli e le sette segrete con i suprematisti bianchi che pregano San Nicola del Christmas Adventurers Club; i gruppi (un tempo) alternativi, ora costituiti anche da suore che coltivano e fumano marijuana. Un film che vuole stare dalla parte delle donne, con il limite che l’autore è un uomo, ma l’intenzione va apprezzata. Perché al centro del film, in particolare nella prima parte, è posta l’esplosiva combattente per la libertà Perfidia Beverly Hills, a cui subentra Willa nell’intera seconda parte, e poi perché Anderson ritaglia una parte non simbolica per  Shayna McHayle, nota agli appassionati di rap come New York MC Junglepussy, che interpreta una rivoluzionaria che ha quello stesso nome di battaglia, in una scena lunga e importante in cui partecipa a una rapina in banca, e per il dialogo successivo che la riguarda in una conversazione tra vili suprematisti bianchi.

Tra le tante suggestioni per lo spettatore, una prevalente, quella della famiglia disfunzionale, tema particolarmente di attualità negli Stati Uniti anche per la generalizzazione alla politica che ne è stata fatta. E tuttavia, anche nella visione della famiglia disfunzionale Anderson è “contro” perché nonostante le apparenze mostra una famiglia Ferguson che garantisce l’evoluzione di tutti i suoi membri. Certo in modo originale nei processi intrapsichici e interpersonali, ma di relazioni che soddisfano i bisogni, e almeno alcune funzioni della famiglia. Bob e Perfidia sono un punto di riferimento emotivo e affettivo per Willa, ne soddisfano (a modo loro) i bisogni fisici, psicologici ed emotivi. Willa cresce e impara a socializzare, a condividere le opinioni, la cultura, i rituali e le credenze dei suoi genitori.

Musica e letteratura nel gioco dei rimandi

Un film ricco di rimandi che accomunano letteratura e filmografia postmoderna, così che Anderson fa dire a Benicio Del Toro: «Sai cosa è la libertà? Non avere paura, come Tom Cruise nei suoi film». O ancora, in una delle scene chiave del film l’ex-rivoluzionario Bob è sdraiato sul divano di casa, con addosso una vestaglia scozzese (come la vestaglia del mitico Drugo de Il Grande Lebowski dei fratelli Coen), intontito da alcol e marijuana, mentre sul piccolo schermo della televisione passano alcune immagini de La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo: un riferimento politico e tematico, ma anche ritmico musicale con la colonna sonora scritta da Ennio Morricone. Sì perché Una battaglia dopo l’altra è anche un film musicale (pare che Anderson abbia curato anche la colonna sonora di Jonny Greenwood), e ha nel cast quattro musicisti, con un colpo di scena nello scegliere la cantautrice e coreografa Teyana Taylor nel ruolo di Perfidia. 

Musica di repertorio, ma utilizzata con abilità e appropriatezza in ogni sequenza. C’è anche un testo in spagnolo, Perfidia, una canzone del 1939 del cantautore messicano Alberto Domínguez e la scelta di Anderson non è casuale. Infatti tra le opere di Domínguez c’è una canzone intitolata Frenesi, che ha dato il nome al personaggio di Vineland poi ribattezzato Perfidia… il cerchio dei rimandi si chiude.

Un piacevole romanzo americano, questo film ben recitato da un Leonardo DiCaprio (forse ispirato anche dal cachet di 25 milioni di dollari, pochi rispetto ai 5 milioni e mezzo vinti da Sinner in soli due set al Six Kings Slam, oltre alla racchetta d’oro alla premiazione) che accompagna una selvaggia e sensuale Teyana Taylor, con la rivelazione della talentuosa Chase Infiniti, un Benicio del Toro in un personaggio tagliatogli su misura e Sean Penn che con il suo colonnello Lockjaw magistralmente interpreta le anomalie, i paradossi e le contraddizioni di un’intera nazione.

Un film americano, sugli Stati Uniti contemporanei, ma non solo, di un regista americano da sempre individualmente contro che usa uno strumento di comunicazione culturale quale è il cinema. 

Così il film si conclude con un suggerimento contro la politica odierna, autoritaria, rozza, reazionaria, populista: scendere in piazza a manifestare. È quello che fa Willa, salendo in macchina, sotto la pioggia, intraprendendo un viaggio di tre ore per manifestare con il supporto del padre Bob: perché c’è una battaglia dopo un’altra… sempre e ovunque nel mondo. È il titolo del film, ma è la citazione di una frase di Angela Davis: «Non ci sarà mai una battaglia finale, è sempre una battaglia dopo l’altra».