Cosa significa insegnare anatomia oggi, quando il corpo umano non è più solo quello biologico che abbiamo studiato per secoli, ma un organismo sempre più intrecciato con la tecnologia? Non è solo una questione di strumenti didattici – tavoli di dissezione virtuali, modelli 3D, intelligenza artificiale – ma un vero cambiamento culturale. L’anatomia non riguarda più soltanto come siamo fatti, ma anche che cosa stiamo diventando.

Nelle aule di medicina, gli e le studenti osservano immagini nitide generate al computer, esplorano strutture corporee con la realtà aumentata, interagiscono con software che riconoscono organi e tessuti. La tecnologia ha migliorato l’accessibilità e la comprensione spaziale, ma c’è un prezzo da pagare: il rischio di perdere il contatto con la complessità reale del corpo umano, con le sue imperfezioni, la sua vulnerabilità, la sua storia.

Un tempo, la dissezione del donatore era una tappa obbligata per ogni futuro medico. Non solo per imparare l’anatomia, ma per confrontarsi con la morte, con l’alterità del corpo umano privo di vita, con l’etica della cura. Era un’esperienza intensa, anche emotiva, che lasciava il segno. Oggi queste esperienze stanno scomparendo. A parte poche realtà universitarie italiane, che mantengono le aule settorie pur con difficoltà economiche e legislative, molti corsi si basano ormai quasi esclusivamente su simulazioni digitali. Ma un corpo sintetico, per quanto realistico, non odora, non ha peso, non mostra i segni del tempo o della malattia. È un modello, non una storia.

Eppure, proprio mentre nelle aule il corpo reale si allontana, fuori dall’università il corpo stesso si trasforma. I pazienti che i nostri studenti incontreranno avranno pacemaker, impianti cocleari, protesi articolari, valvole cardiache artificiali. Alcuni porteranno chip neurali o sensori sottocutanei per il monitoraggio continuo, altri riceveranno organi bioingegnerizzati o protesi robotiche controllate dal pensiero. Alcuni porteranno nel proprio corpo tracce di modificazioni genetiche, frutto di terapie innovative come l’editing genomico per correggere mutazioni ereditarie o trattare malattie rare. I confini tra naturale e artificiale si fanno mobili perché queste modifiche cambiano la “firma” biologica del corpo, introducendo varianti che non sono frutto della semplice evoluzione naturale, ma dell’intervento tecnologico. L’anatomia che insegniamo rischia di essere in ritardo rispetto alla realtà che si sta costruendo sotto i nostri occhi.

Non si tratta solo di aggiornare le tavole anatomiche o i contenuti delle lezioni. Si tratta di ripensare il ruolo stesso dell’anatomia nella formazione. In un mondo dove l’immagine può essere generata artificialmente e il corpo può essere modificato, è urgente restituire all’anatomia il suo significato più profondo: un sapere critico sull’umano. Questo significa, prima di tutto, aiutare gli e le studenti a leggere le immagini, non solo a riconoscerle. Dare loro strumenti per interpretare la forma nel suo contesto, nella sua funzione, nel suo significato. Insegnare che l’organizzazione del corpo non è solo un dato biologico, ma una logica vivente, che può essere alterata dalla malattia o dalla tecnologia.

Serve inoltre uno spazio per la riflessione etica. Che cosa comporta impiantare un dispositivo nel cervello? Quali conseguenze ha la possibilità di aumentare le prestazioni corporee, non solo ripararle? Chi ha accesso a queste tecnologie, e chi ne resta escluso? L’anatomia può diventare un luogo in cui queste domande non vengono evitate, ma affrontate insieme.
Molte istituzioni internazionali lo stanno riconoscendo. Organismi come l’International Federation of Associations of Anatomists (IFAA), e l’American Association for Anatomy (AAA), hanno già cominciato a includere nei curricola didattici elementi come gli organi artificiali, gli impianti e le interfacce neurali. Anche in Europa alcuni programmi pilota si stanno interrogando su come integrare, già nei primi anni di medicina, la conoscenza di corpi “modificati”.

Ma il cambiamento più profondo riguarda il modo in cui insegniamo: non soltanto trasmettere contenuti, ma risvegliare consapevolezza. L’anatomia può e deve essere un sapere che tiene insieme rigore scientifico e coscienza critica. Non solo un’anticamera per discipline più “cliniche”, ma un luogo in cui si impara a osservare, a interpretare, a dare significato.
Un tempo si parlava di “spirito d’osservazione”. Oggi potremmo chiamarla alfabetizzazione morfologica: la capacità di leggere la forma umana come un linguaggio, e non solo come una mappa. Significa saper cogliere le variazioni, comprendere la relazione tra struttura e funzione, tra morfologia e patologia. Significa anche riconoscere che il corpo non è uguale per tutti, né è uguale per sempre. È un luogo vissuto, soggetto a trasformazioni, medicalizzazioni, scelte individuali.

In molte scuole di medicina, l’anatomia resta una delle prime esperienze di contatto diretto con la dimensione clinica. È lì che si comincia a costruire lo sguardo medico, che poi accompagnerà il professionista per tutta la carriera. Per questo è importante che quello sguardo non sia ridotto a semplice classificazione. Deve essere uno sguardo attento, empatico, consapevole.

Oggi più che mai, quando anche l’immagine del corpo può essere prodotta artificialmente, è fondamentale insegnare a distinguere tra rappresentazione e realtà. Molte immagini digitali, pur basate su dati reali, vengono ripulite, semplificate, idealizzate. Non mostrano la variabilità, la fragilità, la storia scritta nei corpi. Questo ha anche implicazioni cliniche. Un medico che ha imparato solo su modelli perfetti può trovarsi disorientato di fronte a una realtà imperfetta, con cicatrici, asimmetrie, patologie.

L’anatomia, in questo senso, è anche una palestra per l’incertezza. Ci insegna che i corpi sono diversi, che la norma non è un assoluto, ma una costruzione statistica. E che per curare, bisogna prima di tutto comprendere. Di fronte all’ibridazione crescente tra corpo e tecnologia, tra immagine e realtà, tra naturale e artificiale, serve uno sguardo nuovo. Ma serve anche un punto fermo. È questo, forse, oggi, il compito più difficile dell’anatomista: tenere la linea della conoscenza biologica, mentre si apre la porta a una comprensione più ampia del corpo umano.

Nel suo libro Hybrid Humans, lo scrittore inglese Harry Parker, lui stesso portatore di protesi, scrive che tutti noi, in fondo, stiamo diventando ibridi: con un pacemaker, con una lente a contatto, con una app che misura i battiti cardiaci. Il confine è già attraversato.

Per questo non possiamo più insegnare l’anatomia come se nulla fosse cambiato. Ma possiamo, anzi dobbiamo, insegnarla con ancora più profondità. Perché comprendere il corpo umano, oggi, significa anche comprendere le sfide della nostra umanità. E forse, in un mondo sempre più tecnologico, l’anatomia può ricordarci ciò che ci rende ancora umani.